LETTERATURA: La prima supplenza13 Novembre 2009 di Gian Gabriele Benedetti La comunicazione telefonica arrivò a coronare un’attesa che ormai si prolungava da tanto, troppo tempo: ero stato nominato supplente nella scuola di… per ben venti giorni. Si realizzava così la possibilità della mia prima comparsa in mezzo ad una scolaresca in qualità di insegnante. E, a dire il vero, mi sentii alquanto orgoglioso: io, il maestro, e di fronte a me gli scolari. Potevo finalmente assaporare i frutti del sudato diploma.           Tuttavia, tra le righe della gioia che accarezzava l’animo, qualche apprensione si affacciava: tutto sarebbe “filato liscio” così come mi ero molte e molte volte immaginato? La realtà avrebbe assecondato quanto appreso in teoria? Certo i dubbi e le incertezze brulicavano, ma ora bisognava godere l’evento a lungo sperato e, dopo tanto, toccato concretamente con mano.           Fui sollecito, quella mattina, nel predisporre ogni cosa ed avviarmi alla piccola scuola che attendeva il nuovo temporaneo docente.           Il raggiungerla già di per sé comportava difficoltà non trascurabili, poiché ero stato assegnato ad una pluriclasse unica di montagna e la definizione stessa poneva subito in evidenza quale potesse essere l’ubicazione dell’edificio scolastico. Per arrivarvi, in effetti, era necessario percorrere un tratto di strada carrabile, di diversi chilometri, tortuoso e sterrato, che si arrampicava faticosamente su uno dei tanti colli tipici della nostra zona, e poi proseguire a piedi lungo un viottolo che si divertiva a giocare tra le grinze del bosco.           Armato di cartella nuova fiammante (pure essa attendeva il battesimo!) con dentro il materiale di “appoggio” per le mie lezioni, affrontai l’avventura, procedendo dapprima con la mia squinternata vetusta motoretta che mi condusse, non senza qualche preoccupante singhiozzo di fatica e traballando paurosamente attraverso la strada sconnessa e polverosa, fino al paesello. Da lì non c’era altro mezzo per raggiungere la meta, se non il “caval di San Francesco”.           Gambe in spalla, dunque, e, confortato, anzi sopraffatto da entusiasmo traboccante, mi inoltrai nel bosco imboccando la pietrosa via che aveva sicuramente conosciuto i sudori e le fatiche di tanti montanari.           Era una fredda mattina dei primi di dicembre. Il cielo sereno, ancora punteggiato di labili stelle, andava man mano slavandosi nell’estremo anelito della notte. L’aria pungente faceva arrossare le guance e pungere le mani, pur inguantate. Il bosco intorno viveva la tristezza dell’ultimo autunno, avendo ormai smarrito la fantasmagoria di colori che aveva dato l’illusione di una festa in atto. I rami contorti dei castagni, pressoché denudati, assumevano strane ieratiche forme, mostrando ancora qua e là rare foglie rinsecchite, tarde al distacco, in lotta caparbia, pur nella precaria situazione, con una brezza insistente. In terra, come un tappeto disordinato, si stendeva l’ultimo messaggio di vita delle piante ormai addormentate.           Il silenzio profondo era rotto solamente dal crepitare vivo, stridulo del fogliame sparso che i miei passi solerti calpestavano.           Di tanto in tanto un rapido trillo di pettirosso pareva salutare melanconicamente l’allontanarsi inesorabile di giorni felici, racchiudendo in sé tutta la tristezza di una stagione divenuta avara.           In lontananza i monti, già ricoperti di neve, imprigionavano i loro estremi respiri nell’abbraccio rigido di alte nuvole gelide.           Nonostante la natura non spingesse l’animo a spaziare in teneri indugi, provavo nell’intimo una certa euforia che mi spingeva ad accelerare il passo ed a fischiettare in sordina. Ma lungo l’erta ben presto il fischiettare si tramutò in ansimare faticoso ed il passo s’infiacchì, divenne di piombo, tanto che dovetti far sosta per riacquistare fiato e forze, appoggiandomi al tronco di un secolare castagno           Quando ripresi il cammino, ritenni saggio (oh, come saggio!) usar maggior prudenza nell’affrontare il ripido sdipanarsi del tormentato viottolo e frenare la mia iniziale baldanza e la mia quasi spavalda frenesia.           Così, assai meno focoso e sicuramente sfiancato, arrivai a scoprire la bianca minuscola scuola, che trafiggeva a tratti, col suo candore, la stanchezza grigio-scura e rassegnata del bosco.           Gli scolari della pluriclasse, abituati com’erano a levarsi dal letto assai per tempo, erano già “piazzati” ad attendere il nuovo arrivato.           Alla mia apparizione, scorsi nei loro occhi puntati non tanto curiosità , del resto giusta e giustificata, bensì un certo senso di compassione: dovevo apparire proprio in condizioni disperate, se avevo suscitato una tal pietà nei bimbi! Ed in realtà avvertivo il viso pigliarmi fuoco e mi sembrava di essere stato bastonato, di essere a pezzi, insomma da “raccattare col cucchiaino”. Soprattutto mi sentivo umiliato nel presentarmi in uno stato così miserando.           Mi adagiai di peso sulla sedia dietro la cattedra ed a stento riuscii a tirar fuori un filo di voce: “Ragazzi…, abbiate pazienza: riprendo fiato…!”.           Iniziò in quel modo un po’ inglorioso il mio rapporto con quei bimbi, che vivevano disseminati qua e là sul fianco del monte in case solitarie e generalmente povere, senza alcun contatto col mondo moderno ed in simbiosi con una natura spesso indocile e raramente prodiga.           Rassettata alla meglio la mia dignità , stimolato dalla mia “cultura” magistrale, di cui intimamente mi facevo vanto, emersa di nuovo, dopo avermi, a causa della sfinitezza, per un momento abbandonato, predisposi tutto me stesso al compito per il quale ero stato delegato. E, col riaffiorare prepotente dell’orgoglio del giovane maestro, mi lasciai andare a fecondo parlare con l’intento chiaro di incantare l’uditorio.           Man mano che procedevo, beato, nel mio sproloquio, guardavo sottecchi gli scolari e ben presto mi resi conto che i volti, anziché dipingersi di interesse, di ammirazione e di stupore, si stavano atteggiando viepiù ad una melanconica smorfia di noia e di rassegnazione. Sbadigli, con bocche larghe come forni aperti, si susseguivano con una frequenza allarmante e si trasmettevano come un’epidemia. Gli sguardi inquieti, alquanto spenti, parevano dire: “Ma questo, adesso, che vuole?”.           A quel punto capii l’antifona e, vinto da un certo imbarazzo, suggerii a me stesso: “Qui, caro mio, si deve cambiar tattica”.           Così cercai rapidamente di raddrizzare la situazione, rivolgendo l’ansioso pensiero verso tutte le mie reminiscenze scolastiche. Rovistai, allora, con la mente ogni materia studiata, rividi dinanzi agli occhi, ad uno ad uno, tutti i libri presi tante volte in mano e tante volte sfogliati, cercai di riascoltare la voce di ciascuno dei miei pur validi insegnanti… Tuttavia per quanto mi arrovellassi al fine di trovare appigli in quella direzione, la risposta attesa  non voleva arrivare a confortare e ad illuminare il mio brancolare nel buio.           Intanto i bimbi aspettavano, guardando con allarmante curiosità , quella specie di insegnante che stava impalato dinanzi a loro e dava l’impressione, non tanto velata, di non sapere da che parte rifarsi o a che Santo votarsi.           Certamente mai avrei supposto di rimediare una figuraccia simile ogniqualvolta mi figuravo davanti ad una scolaresca. Ma la realtà , purtroppo, si presentava in modo ben diverso da come era stata creata con la fantasia ed ora, senza “armi”, bisognava affrontare il toro per le corna.           Quand’ecco, all’improvviso, come una scialuppa di salvataggio, il lampo di genio (a me parve così) che illuminò la mente smarrita e venne a salvarmi dall’inesorabile affondare nelle sabbie mobili nelle quali mi ero cacciato. E mi rammaricai di non averci pensato prima! “Ragazzi!” dissi rincuorato “Prendete il quaderno a righe”. Poi mi diressi alla lavagna su cui scrissi con bella grafia “Tema” e, sotto, il relativo titolo: “Parlami del tuo babbo”. Subito si avvertì dietro le mie spalle un bofonchiare che aveva tutta l’intenzione di manifestare una protesta sia pure alquanto contenuta. E nel brusio captai una frase pronunciata a denti stretti: “E ti pareva?…”. Ma io feci dignitosamente orecchie da mercante.           I bimbi, ovviamente avvezzi ad ubbidire, si misero, se pur con evidente malavoglia, a tirar fuori penna e quaderno, mentre io, seduto alla sospirata cattedra, tentavo di riordinare le idee.           Di tanto in tanto alzavo lo sguardo, ed allora mi piombava addosso qualche occhiataccia fugace che sembrava fulminarmi, ma ciò nonostante ebbi l’impressione che tutti stessero eseguendo l’ordine ricevuto. Così mi parve, perché ad un certo punto mi accorsi di un ragazzo robusto e saldo come l’acciaio, una specie di marcantonio che a stento entrava nel banchino di legno e che cercava in ogni modo di eclissarsi dietro al compagno sedutogli davanti. Egli se ne stava, seminascosto, con la penna in bocca, girando qua e là ansiosamente i suoi occhi azzurri, tristi come quelli di un cane abbandonato. Pensai fra me: “Forse cercherà l’ispirazione”. Ma l’estro evidentemente tardava a confortarlo, giacché la penna era come incollata alla bocca e non voleva saperne di posarsi sul foglio.           Il tempo se ne andava e tale situazione mi incuriosiva sempre più e, nello stesso tempo, mi forniva un certo fastidio, in quanto ritenevo che ciò fosse dovuto a disubbidienza vera e propria.           Per cercare di sbrogliare la matassa, mi rivolsi a lui: “Vorrei sapere,” intervenni nel silenzio generale “vorrei sapere da quel ragazzo dell’ultimo banco, quello con i riccioli biondi, che succhia senza interruzione la penna e tenta di nascondersi, anziché scrivere, che intenzioni ha”. Il ragazzo indicato arrossì, chinando il capo. “Vieni qua!” gli ordinai. Ci volle un bel po’ prima di “svincigliare” le lunghe gambe, che (chissà come facesse) riusciva a ripiegare ed a sistemare all’interno del banchino, e di tirarle fuori. E me lo trovai dinanzi in tutta la sua mole. Avrà avuto dodici o tredici anni, ma pareva quasi un uomo. Dalle vesti dimesse ma ordinate traspariva la sua robusta complessione. Soprattutto era facilmente intuibile l’esplodere di una forza fisica non comune, propria di chi è abituato a lavorare anche in modo pesante. Il viso rotondo dai lineamenti non troppo marcati, con la pelle un po’ ruvida ed arrossata, forgiata sicuramente dal sole e dall’aria per via di un frequente vivere all’aperto, emanava una certa docilità  ed un evidente senso di bonarietà , ma i suoi occhi melanconici erano lì a testimoniare sofferenze ed inquietudini non soffocate.           Non osai alzarmi per evitare che la mia modesta statura e la mia accentuata magrezza venissero ancor più miseramente evidenziate e magari ridicolizzate di fronte a lui. “Come ti chiami?” gli chiesi.           “Domenico” brontolò appena percettibilmente, con gli occhi abbassati e con le guance che gli avvampavano.           “Perché, mentre i tuoi compagni scrivono, tu non combini nulla e stai lì a gingillarti, a perdere tempo?” lo rimproverai. Rimase per un po’ in silenzio, tormentando tra le sue grandi mani d’adulto l’incolpevole penna che aveva portato con sé. La testa china mostrava più distintamente la bellezza dei suoi capelli biondi che avevano riflessi di rame ed erano abbondanti e tanto arricciolati da assomigliare a mille e mille punti interrogativi d’oro.           Alla mia insistenza, tirando fuori una voce, che ancora faceva capire di essere di fronte ad un ragazzo, appena fiatò: “Il tema ‘un mi riesce” “E come mai? Non sei capace di parlare del tuo babbo, di descriverlo, di raccontarci del suo lavoro, di come si comporta con te, di quanto ti vuol bene e di quanto gliene vuoi tu…?”. Seguì una lunga pausa di imbarazzo ed un conseguente armeggiare, ancor più frenetico, con la penna. Poi la tenue risposta che mi raggelò il sangue: “Maestro, ma io il babbo… ‘un ce l’ho…”. In quel momento provai una tale vergogna di me stesso che sarei voluto sprofondare sotto terra.           Mai come allora mi disprezzai e commiserai, mentre mi apparivano dinanzi tutta la mia presunzione, la mia incapacità e soprattutto le mie macroscopiche deficienze sul piano psico-pedagogico-didattico. Con quale coraggio e con quale incoscienza avevo preteso di presentarmi di fronte a dei ragazzi di una scuola, se non ero capace di compiere una benché minima, seria, valida azione educativa e formativa, se non ero per niente in grado di mostrarmi vero amico nei rapporti con gli scolari, se non sapevo adeguarmi alle loro effettive esigenze ed ai loro reali bisogni, se non riuscivo a suscitare alcun interesse, né tantomeno creare quel clima di reciproca fiducia, di aperta familiarità , di amore concreto e sincero, di umanità viva e profondamente vissuta, se non ero valente a far appello all’animo generoso dei bambini? In quale modo pretendevo di impostare un insegnamento-apprendimento produttivo, poggiante su basi di una almeno accettabile scientificità , se non conoscevo affatto i miei scolari, i loro problemi, le loro inclinazioni, i loro desideri, il loro mondo…? Oh, come allora mi tornarono in mente i felici rapporti instaurati dal grande Socrate con i suoi allievi! E pensare che in breve tempo io avevo “assassinato” impietosamente la sua maieutica. “Povero spocchioso maestro,” mi rimproverai “come ritieni possibile vivere e far vivere validamente la vita scolastica, se non abbandoni il tuo piedistallo di vuota immodestia e superba ambizione?”. Dovevo correre al più presto ai ripari per rimediare ad un comportamento così disastroso e per salvare, almeno in parte, la faccia. Ed in quel senso mi adoprai. Soprattutto cercai d’essere me stesso in mezzo a quelle creature che mi affidavano il loro cuore e le loro aspettative.           Rivolgendomi alla classe, che aveva seguito con una certa curiosità ed apprensione tutta la scena, suggerii di sospendere l’elaborazione del tema. Scesi dalla cattedra ed invitai i ragazzi a venire intorno a me. “Io credo,” dissi loro, “io credo che sia opportuno conoscerci meglio per divenire amici. Mettiamoci qua e presentiamoci, dando notizie di noi stessi. Così vedremo quali sono le nostre aspirazioni, le nostre ambizioni, i nostri sogni, le nostre esigenze, i nostri timori, le nostre migliori qualità , i nostri piccoli difetti e così via”. La piccola scuola in breve si animò del chiacchiericcio vivace dei bimbi che man mano aprivano il loro animo. Nei giorni seguenti maturarono naturalmente e gradualmente quelle situazioni che resero gli scolari e me attivamente coinvolti e partecipi ad ogni momento del lavoro scolastico. Quando, poi, la stagione ce lo permetteva, uscivamo, e la natura intorno diveniva “teatro” delle nostre lezioni o campo per giochi spensierati. Durante alcune di queste sortite ci recammo a far visita alle famiglie degli alunni.           E fu in una di tali occasioni che venni a sapere la non facile vicenda di Domenico, un vero e proprio dramma, i cui segni il ragazzo portava in sé in maniera oltremodo evidente, condizionando non poco il suo comportamento ed il suo rendimento.           Il ragazzo era stato il frutto di un amore nascosto e fugace. Il padre non fu mai conosciuto e la madre, qualche anno dopo la nascita del bimbo, era morta, in un momento di grave sindrome depressiva, in circostanze misteriose. Domenico fu allevato dai nonni in una casa, dove, per sopravvivere, era indispensabile lavorare senza soste per strappare il minimo vitale ad una terra che non sempre mostrava il suo volto magnanimo. ———————————————————————  In un clima di sereno lavoro, il tempo volò e la supplenza finì. Con rammarico e con un pizzico di commozione mi distaccai dalla scolaresca, salutando ad uno ad uno i bambini.           Mentre mi allontanavo, essi, raggruppati dinanzi alla scuola, mi accompagnavano con lo sguardo giù lungo il viottolo che ruzzolava, quasi precipitando.           Di tanto in tanto mi voltavo ed allora, tutte ad un tempo, si levavano frenetiche le mani a manifestare col loro agitarsi un addio sentito, finché non mi persi dietro una gobba del monte, inghiottito dal respiro freddo del bosco.           Lasciavo un po’ di me lassù in quella minuscola scuola bianca, e nel camminare frettoloso meditavo sull’esperienza vissuta che sicuramente mi aveva maturato.           Immerso completamente nei miei pensieri, non mi ero accorto che alle mie spalle si era avvicinato qualcuno. Mi sentii chiamare, e la voce echeggiò nel silenzio che dominava intorno. Mi volsi sorpreso e scorsi a pochi passi di distanza la figura massiccia di Domenico. Egli mi guardava, immobile, con i suoi occhi tristi di cane abbandonato. “Che cosa fai, Domenico?” gli chiesi. Il ragazzo, continuando a fissarmi, si sforzava di parlare senza tuttavia riuscire ad articolar parola. E quando vi riuscì, quasi gridò: “Maestro, vo’ sete bravo!”. E si allontanò correndo su per il viottolo, dileguandosi in un attimo. Sentii gli occhi velarsi di lacrime e per un po’ non fui capace di staccare lo sguardo dalla curva dietro la quale era scomparso. Ripresi il cammino, quando dal cielo velato di grigio uniforme cominciava a scendere, volteggiando stanco, qualche raro e largo fiocco di neve, che ci preparava a vivere in modo ancor più suggestivo le imminenti Feste Natalizie. —————————————————————            Da quel giorno quante volte, nella mia vita di insegnante, di fronte alle tante difficoltà che spesso dovevo affrontare, mi sono affiorate alla mente quelle semplici ma incisive parole del ragazzo! Quante volte esse mi hanno incoraggiato, sostenuto, spronato, dandomi sempre rinnovata fiducia e forza costante!  Per questo, ovunque tu ti trovi, sii benedetto, caro indimenticabile Domenico!                                        Letto 2007 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Carlo Capone — 13 Novembre 2009 @ 10:03
Di quelle foglie  sotto le suole senti il crepitare, quel freddo di primo mattino ti dà vigoria, e la neve incipiente riempe l’aria del suo  tipico odore. Sembra di starci  su quel sentiero sterrato tra i monti, altresì austeri, ma la visione delle Apuane innevate insegna al cuore che tutto è pace. Questo autunno, descritto magistralmente da Gian Gabriele, non sembra un autunno cadente, piuttosto è speranza di vita per noi e il giovane maestro, cui la natura appare severa ma è comunque dipinta coi colori pastello.
Ma è l’incontro con Domenico  a  restare fisso nella mente. L’Autore ha vissuto così intensamente la sua prima avventura di insegnante da lasciarne, anche a distanza di anni, un ritratto inciso, solare, al  sapore croccante delle cose  ormai antiche.
Domenico, dovunque ti trovi e chiunque tu sia, io, Carlo Capone, ti voglio bene.
Bravo, Gian Gabriele, davvero bravo.
Pingback by Bartolomeo Di Monaco » LETTERATURA: La prima supplenza — 13 Novembre 2009 @ 11:36
[…] Fonte:  Bartolomeo Di Monaco » LETTERATURA: La prima supplenza […]
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 13 Novembre 2009 @ 16:10
Grazie davvero, Carlo, delle tue parole toccanti che sottolineano le emozioni che io ho veramente vissuto in quel tempo e in quella situazione. Hai ragione, pienamente ragione, quando tu dici che quel ricordo è e rimarrà in me indelebile per mille motivi. Ogni qualvolta rivedo nella mente l’immagine del ragazzo e della piccola scuola bianca, mi sento vincere da sincera commozione.
Certi momenti vissuti ti offrono e ti aprono opportunità , prospettive di vita  e di comportamento capaci di cambiarti, eccome! E in questo caso, credo di essere cambiato, come insegnante, ovviamente, ed anche come uomo, in meglio, grazie a quella scolaresca e soprattutto a quell’indimenticabile ragazzo.
Ti abbraccio, Carlo
Gian Gabriele
Commento by Felice Muolo — 13 Novembre 2009 @ 17:16
Gian Gabriele, strappi le lacrime e fai sanguinare il cuore. Â
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 13 Novembre 2009 @ 17:32
Sappi, Felice, che, ogni volta in cui rileggo questo racconto, pure io arrivo a commuovermi, ripensando a a quel tempo, a quella scuola sperduta tra i boschi e soprattutto a Domenico.
Grazie anche a te della tua fortemente sentita partecipazione
Un affettuoso saluto
Gian Gabriele
Commento by claudio grosset — 14 Novembre 2009 @ 12:02
Leggere questo racconto è come… dissetarsi ad una fonte d’acqua fresca, la prosa è limpida, chiara, esaustiva dei luoghi, la natura, sensazioni e sentimenti descritti. L’umiltà , il rispetto reciproco ‘dei’ protagonisti, maestro, scolari e Domenico, la dignità nell’affrontare un’esistenza in una natura al tempo ‘ostile’ richiama a valori Alti. Una ‘vera’ commozione, leggo, ha pervaso tutti, anche il sottoscritto! Sono certo che se e quando camminerò solitario per un sentiero di montagna, ripenserò a queste parole, a questo racconto. Grazie!
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 14 Novembre 2009 @ 16:07
Simili commenti, come il tuo, Claudio, arrivano ampiamente a gratificare. E persino giungono a commuovermi. Sono felice di essere stato abbastanza capace di trasmettere quelle emozioni che io ho vissuto personalmente, emozioni che ancora mi coinvolgono e mi commuovono. Forse ora ancor più, perché tu sai che quando si avanza negli anni diveniamo più… teneri e vulnerabili nei sentimenti.
Grazie di vero cuore anche a te Claudio, sempre bravo e puntuale a “scavare” a fondo dentro ogni racconto, dentro ogni storia
Gian Gabriele
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 14 Novembre 2009 @ 22:09
Altri tempi, Gian Gabriele: di povertà ma anche di bellezza morale e spirituale. Hai saputo ricreare le atmosfere di quegli anni del dopo guerra in una piccola scuola di montagna.  Ti ho visto salire e poi discendere il faticoso sentiero, e ho visto cadere quei primi fiocchi di neve, che annunciavano l’inverno e il Natale.
Domenico mi ha ricordato il Garrone di “Cuore”.
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 14 Novembre 2009 @ 22:58
Altri tempi davvero, Bartolomeo, quasi situazioni pionieristiche, ma vibravano valori ed entusiasmi, che, forse, oggi vediamo affievoliti. Indietro non si torna, è vero, non si deve tornare, ma un po’ di nostalgia strugge in petto. Segno di vecchiaia? Ma io penso proprio di no.
Grazie davvero, Bartolomeo! Tu non sai quanto sia gradito il tuo intervento, che si unisce alle graditissime considerazioni espresse da Carlo, Felice e Claudio.
Ti abbraccio con affetto fraterno ed ancora esprimo il mio più sentito ringraziamento per la creazione di questa eccezionale rivista e per lo spazio sempre generosamente concessoci
Gian Gabriele