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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: La stoffa del mondo

27 Novembre 2007

racconto di Elisabetta Liguori

[L’ultimo romanzo di Elisabetta Liguori: “Il correttore”, Pequod, 2007]

Non è che Eva non ci avesse provato.
Ora le resta solo il frutto di una delusione precoce per festeggiare i quaranta anni appena compiuti, eppure un tentativo all’inizio era stato fatto.

Una sua cugina bruna che viveva al quarto piano del suo stesso condominio, le aveva proposto di mettersi insieme. Venti anni prima di adesso. A far qualcosa, qualsiasi cosa, le aveva ripetuto infinite volte, mescolando la sua voce metallica al languore che proveniva dalla loro strada colma di cassonetti, sventrati prima e bruciati dopo, avvolta dall’odore nella pescheria lì accanto, che ripuliva gli avanzi del giorno, sciacquando d’inchiostro i marciapiedi. Voleva utilizzare il suo diploma da ragioniera, la cugina bruna, ed Eva per lei era sempre stata come una meringa bionda, che, nascosta nel luogo sbagliato per le ragioni sbagliate, suscitava imprevisti appetiti. Una specie di segreto nutrimento familiare. Eva, nella sua biondaggine nordica e altezzosa, così poco conciliabile con il resto del quartiere, ben si prestava a certe strambe allucinazioni.
Si diceva che Rita, sua cugina, fosse alquanto depressa. O, forse, chissà che si fumava. Dal momento che se ne stava sempre con quattro dita annerite dal fumo nascoste nelle tasca dei jeans, immobile e lenta rinchiusa nella sua stanza da letto, poi, quando le girava, si toglieva la maglietta e usciva sul balcone. A qualunque ora. S’appoggiava alla pila, coi panni ancora a bagno nella vaschetta dal giorno prima, ed esponeva i suoi seni piatti. Le mammelle le si muovevano appena nella brezza, rinfrescandosi, appuntendosi, ritirandosi. Con quei due bersagli al vento, chiamava Eva al piano di sotto. Urlava il suo nome. Eva, Eva, Eva, lo vedi come sto, qua fuori? Tanto se mio padre mi crepa di mazzate me ne frego. Eva, fammi felice. Eva trova ‘na bella idea. Trova quella buona, per noi, dai! Il tutto durava giusto il tempo per Rita di sentire la solita scudisciata in viso, provenire da una specie di animalesco mistero condominiale che la faceva dannare. Subito dopo subentrava la vergogna, quella tipica del sud, che trattiene e contiene ogni rivolta. Costretta a rivestirsi, con la maglietta rimessa al rovescio, ciancicata, i pantaloni un po’ cascanti sull’addome vizzo, se ne rientrava in casa mogia, mogia.
Accadeva una sera come tante che, proprio mentre la cugina urlatrice si prendeva le sue libertà sul balcone, arrivasse sotto casa, con la sua Kawasaki rossa, il figlio di un vecchio democristiano molto ben introdotto sul territorio, che Eva aveva cominciato a frequentare con una certa regolarità. Mentre quello parcheggiava sotto casa, Rita dava i numeri sul balcone. S’incrociarono: i seni a spillo della ragazza e il naso all’insù del virgulto della buona società locale. Che dice quella? Parla di te? ma è ritardata o cosa? Non è che è pericolosa? Andiamocene di corsa da qui, dai. Eva, quella stessa sera, era stata costretta a svelare al nuovo fidanzato tutta una serie di dettagli intimi e famigliari: il condominio, il rapporto con i parenti, la cugina problematica, sbattendo la sua enorme chioma ora a destra ora a sinistra.

Quella stessa sera era nata l’idea del laboratorio.
E subito dopo aver preso coscienza che di un progetto serio si trattava questa volta, un lontano parente trasferitosi a Siena negli anni sessanta, che d’allora lavorava nel settore delle scarpe con una tribù di cinesi al suo servizio, le aveva fornito i primi contatti con due sarte, un arredo completo a basso costo, e alcuni lampioncini di vetro resina, per metterci le candele la sera, e rendere la vetrina più intrigante.  Eva, più per incoscienza che per pietà, ci aveva tirato dentro anche quella sua cugina con le paturnie. Diceva di volerle bene, anche senza sapere se era vero o no. Il fidanzato col giubbino di pelle aveva sin da subito manifestato le giuste perplessità su Rita, pur avendo compreso che di un progetto c’era comunque bisogno in quella stramba famiglia e che Eva non avrebbe desistito. Lei diceva che c’era bisogno di persone di fiducia per la buona riuscita di certe imprese coraggiose, e che Rita era ancora una ragazzina imprudente e agitata, ma che sarebbe cambiata col tempo. Diceva che per sollevare la testa dalla merda in cui era nata, quella ragazza, lei più di chiunque altro, era pronta a faticare come un mulo. Con quel gesto, Eva, in una sola serata, era certa di aver salvato l’intero paesello suo dalla rovina, non solo una parente stretta, stretta.
Qualche mese dopo nacque Marzapane.
Laboratorio per vestire la danza, per allietare ballerini e ambizioni, maestre e bimbetti rotondi, coreografi effeminati e vecchie danzatrici sfiorite, mamme e papà vogliosi d’arte su misura, sartine inquiete, lavoratrici in nero o a cottimo, ragazze con lo chignon, ragazzini brufolosi e glabri, quarantenni con la paura d’ingrassare.   Un po’ per l’intervento dello zio di Siena, un po’ perché il fidanzato scettico parlò con chi di dovere, un po’ per i soldi che ci mise la cugina, la cosa prese a decollare. In quel periodo giravano parecchi soldi al quarto piano. Erano soldi napoletani, diceva il padre di Rita e ammiccava pulendosi gli incisivi con le unghie. Vabbè, Napoli. Chi se ne frega di Napoli? Sempre soldi erano. Società con quote 80 e 20, se vuoi, aveva detto Rita: a me la maggioranza, ma solo perché io mi curo dei soldi, e te del resto. Eva aveva acconsentito senza pensarci troppo. Io sono più incline agli affari per natura, mentre tu all’arte, diceva Rita innocente. E infatti Eva non aveva né soldi, né paura, solo idee. Visioni d’insieme. Sapeva bene che Rita, senza di lei, non era niente e, sentendo forte il peso di un potere immenso e nuovo, per liberarsene, spesso s’abbandonava a scelte avventate. Per una buona manciata d’anni le cose andarono bene. Sanati i primi debiti, l’insegna di Marzapane, con l’immagine stilizzata di un cucchiaino da tè in un rettangolo due per sessanta, tirato su in alto e messo al muro coi ganci e funi, divenne un’idea d’acciaio, grintosa e lucente. Occupava l’angolo tardo snob di un vicolo stretto, giusto davanti alla casa di un prelato rinomato nella zona per il suo vistoso parrucchino. Era una zona che l’amministrazione comunale aveva riempito di fioriere e birrerie caliginose, tanto poco frequentata, in verità, da ricordare il lustro oscuro di un salone da ballo deserto. La curia vescovile era a due passi, ma Rita ed Eva non vendevano mica tonache. Loro si erano specializzate in costumi di scena, danza per la precisione, quindi ogni genere di tutù, degas con nastrini, strass e glitter, bustini con passanastro, steccati o meno, intrecci di cordoncino su corpetti di raso, scarpette e scarpettine, con punta o tacco, fusò, cappelli a cilindro, calzamaglie, scalda muscoli, body imperlinati, push up color oro, parapalle, tulle finemente lavorato. Rita, che vestiva grandi camicioni fiorati con cinture da pistolero in vita, stava alla cassa e si occupava della contabilità: acquisti e vendite, rapporti con le banche, scuole di danza, teatri, comuni e province. Eva era l’addetta alle pubblic relation e vestiva solo strech, in una versione fetish neo romantico. Ciascuna sceglieva l’abbigliamento dell’altra, e lo faceva con la cura necessaria a vestire un neonato dai poteri divini e costruirne il mito con gradualità.
Se Eva era Dio, Rita era il maggiordomo di Dio.
Eva creava, sceglieva le pezze, gestiva il dono, lo manipolava. Rita seguiva il ritmo e trasformava la bellezza in denaro. Eva dava la vita, Rita la nutriva, prolungando ogni scintilla vitale nel tempo. Se Eva era il Marzapane, Rita era il suo cucchiaino da assaggio. Se Eva in negozio non faceva che esplodere di gioia per ogni inezia, tenendo sveglio il mondo che le era intorno con i suoi show meravigliosamente biondi, poi era a Rita che toccava di tirare giù il sipario alla chiusura e donare la notte ad ogni fantasia. Rita la doganiera. Lei metteva in ordine, lei custodiva, lei aspettava il giorno dopo.

Da tutto quel gran da fare, le due cugine furono indotte naturalmente a scegliere un appartamento in affitto per entrambe, vicino al negozio, cosicché ritornarci a piedi da sole, anche quando era molto tardi, divenne più facile. Si erano dette: tra donne è più facile e avevano acquistato un letto matrimoniale king size. S’era ormai in piena pandemia, in pieno trionfo commerciale, in piena simbiosi, quando, tornate la sera a casa, l’enorme letto si riempiva di pezze, lettere d’ordine, bollette, fatture e bozzetti arrotolati. S’urlavano frasi buffe da una stanza all’altra del loro bilocale e ridevano. Prendevano in giro sarte, fornitori e clienti. Rita ne faceva le imitazioni, mentre Eva s’avvolgeva di velluto, vi s’arrotolava per tutta la lunghezza e in un attimo aveva già in testa un intero palcoscenico. Ed era così perfetta, avvolta in spire, con gli occhi fuori come le civette e la camminata statuaria, da sembrare un’attrice navigata, buona per un film di Bergman. Rita abbracciava cugina e velluti, di qualunque colore fossero, e nell’abbraccio ci perdeva la testa. L’amava assai, come mai l’era parso d’amare prima.   Non c’era altra vita oltre quella per lei. Nulla che le sembrasse comprensibile, se non per i canali del desiderio. Tutto era confusione e vittoria. Anche il cinema faceva la sua parte e, con una buona video cassetta, riuscivano persino a baciarsi sulla bocca. Funzionava anche se il film era noioso e non ci si capiva un tubo. Un periodo bellissimo, quello, in cui era lieve lamentarsi: oh, come siamo stanche, oh, che strazio, oh che gran fatica, oh non se ne può più. Davvero splendido. Nonostante tutto il tempo che seguì, non ci fu nella loro esistenza mai più niente di così morbido e contraddittorio di quei velluti serali.
Eva rimase incinta che era maggio, qualche anno dopo.
 Rita diceva che bisognava fare attenzione. A cosa esattamente? un figlio non è un temporale. Eva proprio non lo capiva a cosa si dovesse fare attenzione. Il laboratorio stava andando bene: i teatri di danza chiamavano, lo stesso facevano la maggior parte dei negozi sportivi della zona, le maestre di danza, le mamme delle ballerine seienni, le amiche delle seienni. I bilanci lievitavano. Eva ingrassava nonostante tutta quella gran fatica, il ginecologo era contento, e alla fine una soluzione nuova per loro si sarebbe trovata. Ma, se Rita faceva fingeva che fosse tutto normale e comprava il prosciutto senza grasso, era solo perché voleva sapere di chi era il bambino. Non era tranquilla affatto. E che diamine: una donna, al sud, pure nel terzo millennio, lo sa sempre di chi è. Se non fa la puttana di professione, lo sa. Ma Eva s’era impuntata: va bene l’adolescenza prolungata, il negozio, i soldi, la casa e i debiti da condividere, ma il resto era roba sua. Non aveva fatto promesse lei. Come, quando e con chi, era roba solo sua. Così Eva taceva ingrassando, mentre Rita borbottava più oscura di una pentola a pressione messa sul fornello basso.
A contrastare ancor più ogni malumore, in una sfilata estiva, una di quelle organizzate nell’androne dell’Ipercoop, un complesso di cemento e cartongesso, posto poco fuori città, dei tipi che lavoravano sull’asse Milano- NewYork avevano buttato l’occhio su una delle ultime collezioni di Eva. Da una parte le modelle, i fotografi intorno, gli addetti ai lavoro; dall’altra le commesse assonnate e le famiglie che al sabato compravano provole, detersivi sotto prezzo e frise d’orzo in ciabatte. I milanesi, attempati designer, amici di produttori e fashion maker, erano venuti da turisti, con tanto di moglie al seguito, e, tra un B&B e l’altro, passavano giusto di là. S’erano ritrovati davanti a Marzapane e la sua dea bionda ed erano rimasti a bocca spalancata. Indi, a fine sfilata, avevano cercato la dea. Trovatala nel bagno pubblico che si struccava, le avevano consigliato caldamente di concentrarsi sulla linea mare, la parte più originale del progetto, la perla che risaltava come dentro un retino di cozze. Avevano detto: ragazza: tu hai un tesoro per le mani. Quindi le avevano suggerito di depositare il marchio subito. Di dare un nome, un’identità forte al suo pensiero creativo, al suo immaginario esplodente, alle sue figurazioni d’arte lussureggianti. Eva, per ringraziarli, aveva offerto loro i suoi racconti di paese. Visto che sono vecchi come il cucco, meglio puntare sul senso paterno, s’era detta. E s’era lasciata andare, che sembrava sua nonna la sera di Natale. Aveva raccontato per ore dei tempi in cui aveva fatto danza, delle prime sartine che cucivano i costumi per lei sui loro letti a baldacchino. Di suo padre che l’aspettava in auto per ore davanti alla palestra, insieme ad un tizio, suo compare in officina da una vita, con il quale faceva i ricci al porto tutte le domeniche. Di quando sua madre vedendola con indosso il tutù, piangeva. Di come piangeva. Della scelta di passare al jazz. Delle differenze. Del fatto che la sua insegnante americana di nome Inge faceva lezione in un vecchio garage muffito e ad ogni piroetta gridava joy, joy, joy. Di come era bella e bianca questa donna, dalla testa alle scarpine. Infine aveva anche fatto cenno alla sua antica vocazione per le forbici, puntualizzando che il suo genio s’era manifestato in tenera età allorquando aveva scelto di cesellare le tende di lino di sua madre, appese alle finestre di casa. Il mio genio è carnale, aveva detto. La moda è carnale. E’ la carne che si fa vestito. Tutta una serie di cretinate di questo tono, che però avevano fatto un certo effetto sugli stranieri, in un lungo e articolato amplesso commerciale.

Dopo il monologo e gli applausi, Eva se ne era ritornata al negozio in auto, là dove Rita l’aspettava come ogni sera. Quindici chilometri in sei minuti, col finestrino spalancato e gonfio di vento, lo stereo sparato al massimo. Una volta messo piede nel laboratorio, aveva urlato, alzando le braccia al cielo: belle ballerine: stavolta è fatta!!!  Poi era rimasta ferma, con le braccia in alto e la bocca aperta, nel brusio delle macchine da cucire, aspettando chissà quale reazione. Rita l’aveva guardata e, in tono monocorde, le aveva elencato gli appuntamenti per l’indomani. Infine aveva abbassato la testa e, ripreso in mano il contante, s’era rimessa a pigiar tasti sulla calcolatrice. Restava irrisolta la questione della felicità. Del pancione e quindi della felicità. Le donne ci pensano spesso. E la loro felicità è nascosta nell’addome, piatto, pizzuto, muscoloso o rotondo. Rita aveva paura della pancia dell’amica. Paura che finisse per assorbire tutto l’amore a disposizione, invece che accrescerlo. Paura che con la pancia Eva non potesse continuare a salvare il mondo con le sue invenzioni e i saltelli biondi; paura che, se un padre fosse venuto fuori all’improvviso, ci sarebbe dispersa nell’aria la loro abitudine ad amare.
Ecco perché la felicità rappresentava un grosso problema di manutenzione.
Si sa, ci sono tanti modi per tenere sotto controllo la felicità.
La cocaina per esempio, che costava sempre meno. Una bustina: settanta euro. Più la cena o un cinema, o un’altra cosa. Rita lo aveva scoperto da sola e questa novità le era sembrata un segno tangibile della modernità. Anche la droga è un’abitudine, proprio come la felicità, s’era detta, anche se dopo i trentacinque anni è una cosa un po’ più imbarazzante. Come farsi una scopata col demonio in mutande. Le avevano spiegato le differenze: non era come l’eroina anni 80, che ti fa diventare matta e sola come un cavallone viola. No. La coca era strumento collettivo. Ma una come lei, col suo passato, lo sapeva bene che la droga è il male. Una come Rita, o lo impara subito o mai più, cosa è il male. Una che viene dalle sue parti, è come il frutto della fame caduto da un albero prima del tempo: sa riconoscere tutti gli altri frutti, sfatti, spiaccicati in terra o ancora acerbi, ma è sempre dello stesso albero che ha paura, della radice; è sempre dalla stessa fame che fugge, anche se è sazia. Una come Rita, posta di fronte all’urgenza del figlio di Eva che, nascendo avrebbe cambiato le carte in gioco, non poteva perdere tempo a far schemi e differenze. E poi non era la coca in sé. Per Rita, in quel certo momento storico, contava quello che c’era intorno. Più della coca, per Rita, potevano essere di una qualche utilità i cocainomani, anzi in particolare un vecchio cocainomane, conosciuto ai tempi del liceo e ritrovato dopo un pozzo di tempo, non per caso, ma per romitaggio. La incuriosiva quel particolare   frutto dell’albero, le sue abitudini. Per utilizzarlo al meglio
Una sera a cena Rita aveva preso il viso di Eva tra le due mani, come si prende una scodella calda. Cosa vuoi? le aveva chiesto Eva, incuriosita. Rita avrebbe voluto dirle che ormai erano rimaste una coppia fissa solo su quella insegna al centro storico, che così non si poteva continuare, che dovevano capirsi, trovare un compromesso. Invece le disse soltanto, guardandola: te, ti vuoi mettere da sola. S’erano guardate tante altre volte: la mattina appena sveglie, davanti ad estranei, a camminare per strada o a far la spesa, in giro per casa in pigiama, in auto al rientro dal negozio la sera, sotto le lenzuola quando faceva freddo. Tante volte s’erano guardate sentendosi uguali. Invece adesso i capelli di Eva sembravano riempire ovunque la stanza, solo i suoi, i suoi di madre, capricciosi e incomprensibili, e Rita avrebbe quasi voluto mangiarseli.
Quando la cugina bruna comunicò ad Eva le sue intenzioni era ormai passato un anno da allora. Lo fece che era agosto e s’andava al mare. In spiaggia, quel giorno di sole, c’era con loro anche il cucciolo di Eva, sdraiato all’ombra di un asciugamano di spugna a nido d’ape, che non piangeva e neppure dormiva.          

  • – Mò basta.

Rita non aggiunse che aveva rivisto Mimmo Licane, il napoletano esperto di chimica alternativa e narcotraffico, che l’aveva invitata a cena in trattoria, né che quello aveva ancora alcuni affari in sospeso e vecchi amici da ritrovare, soprattutto in Calabria. Non le disse se era cambiato o meno ora che era diventato più ricco, se era più bello o più brutto. A sentirle pronunciare quella frase catastrofica e insulsa, Eva, che, ignara, era stesa supina, vicina al suo cucciolo, si sollevò sui gomiti. E guardò la cugina come si guarda il cielo.      

  • –  Dividiamo quello che c’è da dividere. Facciamo presto. Tanto sei stanca pure tu, no? magari prima o poi ti sposi. Io mi sono stufata, te lo dico chiaro, chiaro, pure che mi guardi con quella faccia. Ho già un contatto mio per i costumi al San Carlo.
  • –  Ma che c’entri tu con Napoli?
  • –  C’entro coi napoletani.
  • –   Con chi?
  • –   Coi napoletani.
  • –    Ah, i napoletani.

Proprio a quel punto il cucciolo che bolliva al sole cominciò a strillare.
Nel giro di tre mesi esatti, a partire da quel giorno infausto e soleggiato, Rita le sfilò di mano ogni cosa. Le rubò tutto quello che c’era da rubare. Tutto. E lo fece sotto la luce del sole.

I commercialisti, sono strana gente. Ad Eva ne fu presentato uno da Antonio Mimola, stimato figlio di Achille Mimola, commercialista notissimo in città, ma precocemente deceduto. L’unico figlio aveva seguito le inevitabili orme paterne controvoglia, e quando si era ritrovato di fronte alla ferita sanguinante di Eva, aveva preferito metterla nella mani di una ragazza che aveva preso da poco il patentino e faceva pratica con lui, e togliersi così dall’impiccio. La praticante, da parte sua, sembrava piena di buone intenzioni. Quando Eva le spiegò quello che le stava accadendo, non poté che rassicurarla. La legge era dalla sua parte. Avrebbero di certo trovato un accordo equo.   Fu quasi convincente nel suo tailleur di lino e il cerchietto d’osso. Negli incontri che seguirono al primo, però, il suo ottimismo da neo laureata andò scemando. La praticante prese a dare ad Eva appuntamenti serali sempre più cupi e più brevi. Parlava citando i codici, lasciava intuire che la situazione era grave, che avrebbe dovuto accontentarsi, che non c’era molto da dire, molto da fare, che la sua quota partecipativa nella società era ridicola. Che c’erano stati degli errori iniziali e adesso bisogna subirne le conseguenze, che c’erano elementi poco chiari che giocavano a suo sfavore, che era meglio, che era opportuno, che era necessario. Alla fine le presentò un’ipotesi di compromesso ancora in bozza che era un’autentica beffa. Sembrava aver paura. Si era nelle mani di san Gennaro, ché proteggesse Napoli e tutto il resto d’Italia dai pazzi criminali? Erano tutti pazzi furiosi? Ad Eva sarebbe così toccata una liquidazione miserrima, mentre tutto il resto: negozio, avviamento, sarte, tecnici vari, macchinari, compreso l’originario marchio, sarebbe finito nelle mani di Rita? Era questa la cura della legge?
In verità la giovane commercialista aveva subito tutta una serie di piccoli fastidi. Le ruote della fiat forate, una ventiquattrore sventrata, delle scritte rosse sul prospetto condominiale del suo bilocale. Modi da guerriglia anni settanta, da picchiatori neri, che avrebbero gettato nel panico anche l’anima più entusiasta. Persino il vecchio fidanzato di Eva s’era dato. Quando si toccava il territorio, i suoi confini armati, il circo amministrativo, le catene invisibili della politica locale, si toccava il suo futuro. Quindi quello aveva preso le distanze da Eva, dal negozio e dai napoletani. E pure dal pargolo, ché alla fine non s’era mai capito davvero chi fosse il padre e la loro relazione stava diventando simile ad una di quelle foto di famiglia sovresposte, in cui i visi riprodotti risultano irriconoscibili a causa di un flash sparato a sproposito. E più ci si sforzava di capire, più la luce cresceva.
Le due cugine invece, irriducibili, restavano nella stessa casa, ma si limitavano ad incrociarsi nei corridoi come due vecchi coniugi in attesa di definizione. E avevano separato i letti.
 Fino all’ultimo giorno.
L’ultimo trascorso al negozio e in un appartamento a metà.

In attesa di chiudere la controversia, le due donne di Marzapane si erano imposte una turnazione rigorosa, al fine di non incrociarsi mai sul luogo di lavoro: la cugina apriva al mattino, Eva chiudeva alla sera. Per comunicare tra loro, quando era assolutamente necessario, le due donne usavano la capo sarta, la più riservata, quella con la faccia impassibile da sarcofago, l’unica tra le altre che sapeva usare bene la famigerata Singer Due Aghi (la migliore per le rifiniture, che richiedeva dita d’angelo per raggiungere le prestazioni migliori). Quella volta, tirata su la saracinesca elettrica con la chiavetta, sotto la luce viola della lampada da tavolo, Eva trovò ad accoglierla le bollette luce/gas/telefono. Ancora chiuse.
Più di mille euro in due mesi, solo per l’uso del telefono fisso. La prima che Eva aprì. Da infarto. Nel prospetto riassuntivo di fine bimestre figuravano numeri mai visti prima, telefonate fiume in piena notte, prefissi telefonici del napoletano e in più, Eva aveva controllato bene sulle pagine bianche, quelli di Crotone e Palmi. Le sarte, rientrando accaldate dalla controra, trovarono Eva seduta precaria, con le gambe larghe e con sulla faccia una enorme O di stupore. Vabbè, si sa, azzardarono le sarte premurose, le disgrazie non vengono mai da sole. Magari quella bolletta stratosferica e inspiegabile era stato un errore, dissero le sartine con sguardo sfuggente, non era mica la prima volta che le aziende telefoniche facevano casino.
Eva sul tardi volle provare al numero verde.
Pur sentendosi povera e stupida, non poté fare a meno di telefonare. La tennero in pausa per alcuni secondi, finché rispose una tipa con un mal celato accento siciliano.

  • – Buonasera, sono Erika, come posso esserle utile?
  • – Mi avete mandato una bolletta errata.
  • – Mi dia il suo numero, per favore. A chi è intestato?
  • – Rita Verdesca… sì.
  • – Resti in linea. Grazie.

Un click seguito da un sibilo lesto, sospeso in un brusio come di sega elettrica in funzione. Dopo pochi istanti arrivò, ma da più lontano, di nuovo la voce di Erika Telecom, ma con più marcato accento.

  • – Miii, e mò questa, a dieci minuti dalla fine del turno, mi deve scassare la minchia a me??

La linea non era stata interrotta e si sentiva distintamente ogni parola.

  • – Sai che ci faccio? Io mò questa la lascio a siccare per dieci minuti e poi stacco.

Eva sentì una scossa friggerle le scarpe. Che fai tu, brutta troia? Come ti permetti, bastarda palermitana? Strabuzzò gli occhi e si morse la lingua.
Come dopo un viaggio impervio nel tempo, attraversando a ritroso generazioni su generazioni, Eva esplose con un urlo nella cornetta del telefono. Lanciò fuori con uno scaracchio tutto il livore cumulato fino a quella telefonata. Avrebbe voluto uccidere questa tal Erika subito, lì, seduta stante, ma finì soltanto per disarticolarsi le tonsille nel tentativo di farsi sentire. Brutta troia e ladra di una telefonista di merda, sei pazza o cosa? Ma io ti sento, eh? Io ti sto sentendo, lo sai o non lo sai che io ti sto sentendo? non si è mica staccata ‘sta linea del cazzo, come ti credevi te, no, non si è staccata manco per niente; io non ti dovevo sentire invece ti sento, ti sento e ti denuncio. Ti faccio perdere quel lavoro di merda che c’hai. Io. Quella sera stessa, fino a notte fonda e poi il giorno dopo e l’altro ancora, Eva riprovò al numero verde. Rispondevano voci diverse: Marcella, Elisa, Marco. Mai più Erika; nessuno sapeva darle informazioni sulla fantomatica siciliana. Questione di turni, le spiegavano i colleghi in evidente disagio. Contro i turni non c’era nulla da fare. Bisognava accettarlo: i turni erano i turni. Farsi gonfiare le vene del collo come fossero paraspifferi per le finestre, urlando in un telefono muto, non poteva servire a cambiare le cose. Nulla poteva servire. Né strepiti né denuncie. Nessun rimedio. Erika persa. Persa pure ogni dignità. Persa la pancia e la sua forma cangiante. Perso il sogno, sparito il coraggio, perduta Rita, infranto l’orgoglio e le immagini note. Tutto perduto per sempre.
Fu quindi a causa di una bolletta stratosferica che Eva firmò l’accordo capestro che Rita aveva elaborato per lei. E quando Rita ebbe fatto le valige, come per incanto, la loro vecchia casa di 60 metri quadri si riempì di pezze colorate in grandi rotoli di cartone, avanzi di una vita da svendere in particelle multiple, coi quali il figlio di Eva prese a giocare, tutti i pomeriggi dopo il nido. Il giorno che poi lasciò quella casa per tornare a vivere dai suoi, Eva si stava ancora facendo la stessa domanda che s’era fatta vent’anni prima: di che stoffa siamo fatte: seta, feltro, velluto? E dopo quella brutta storia, Eva non c’ha provato più. Dice che l’amore e il commercio sono cose da ragazzini o da delinquenti e, nonostante sia ancora così bionda, ha deciso di cercarsi un posto da diplomata in una Asl o presso il comune, magari sperando in una buona raccomandazione.


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Bart