L’apprendista

di Felice Muolo
(Ha pubblicato cinque romanzi,  tra cui Il ruolo dei gatti, Azimut, 2008)  

        Scegli il mestiere che vuoi fare da grande, mi dissero i miei, dal momento che avevo deciso di non andare più a scuola. Per settimane sostai sugli ingressi dei laboratori degli artigiani del mio paese, indeciso. Il lavoro manuale mi affascinava, le misere condizioni di chi lo praticava mi lasciavano perplesso. Stufi di aspettare, i miei mi consigliarono di fare il sarto. Attività che si svolge al fresco e senza insudiciarsi, dicevano. Respingevo il suggerimento. Per me, cucire e stirare erano mansioni da donne.
        Non ricordo cosa combinai: cinghia dei pantaloni in mano, mio padre mi offrì l’alternativa.
        Il mio unico collega e coetaneo che aveva il compito di tirare a lucido il cesso della sartoria, pensò subito di dividere il compito con me. Non trovandomi d’accordo, smise di svolgere l’opera in elusiva. Il maestro minacciò di romperci la riga in testa, se non cambiavamo atteggiamento, e ci proibì di usare il cesso.
        Per un certo periodo, lo ripulì da sé. Poi, a mia insaputa, convinse il mio collega a riprendere la sua vecchia abitudine, consentendogli di usarlo di nascosto. Scoprii l’accordo mentre lo raccontava tra i denti a un suo amico che parcheggiava in sartoria. Mi stava bene. Il bisogno leggero lo soddisfacevo nei pressi della sartoria, all’aperto, contro il campanile di un vecchio convento adibito a scuola. Per quello grande correvo a casa. Anche il mio collega per questo.
        Spesso il maestro mi mandava a riempire una bottiglia d’acqua alla fontana pubblica. Se c’erano dei ragazzi a spruzzarsi, partecipavo al gioco. Quando ruppi la bottiglia, assaggiai la riga per la prima volta e scappai di bottega. Vi ritornai accompagnato da mia madre, che fece promettere al maestro che non mi avrebbe più picchiato.
        Ogni giorno, il maestro spediva me o il mio collega da sua moglie, che chiamavamo maestra. Questa, tappata in casa fino al tramonto del sole, aveva bisogno che qualcuno completasse la spesa che suo marito compiva frettolosamente di primo mattino. Esigeva che gli acquisti venissero effettuati nei soli negozi in cui ti mandava. La prima cosa che mi domandò un giorno, dopo aver annusato il cacio che le avevo appena comprato e consegnato, fu:
        “L’hai preso da dove ti ho detto?”
        “Giuro,” risposi, mettendomi una mano sul petto.
        “E’ rancido. Riportalo indietro e chiedine la sostituzione.”
       Una volta mi aveva chiesto di acquistarle un gelato di granita di caffè. Mancava e glielo presi di crema al caffè. Lo rifiutò e m’impose di cambiarlo con uno di granita di limone. Il barista non mi sputò in un occhio per poco, mentre cercava di recuperare il gelato scioltosi.
        “Cosa c’è che non va?” Mi chiese il commesso dell’alimentari, rigirandosi nelle mani il cacio.
        “Puzza,” risposi.
        “I morti che hai al camposanto, puzzano,” mi disse, consegnandomi una nuova forma di cacio.
        Dopo averla esaminata meticolosamente, la maestra sbottò:
        “E’ rosicchiata. Chi ti ha servito?”
        “Il commesso.”
        “Al titolare in persona, dovevi rivolgerti.”
        “Era occupato.”
        “Dovevi aspettare che si liberasse.”
        Ritornai indietro. Per strada, incontravo ragazzini stravaccati sui marciapiedi che si scambiavano figurine e giornalini e mi sentivo fregato.
        All’alimentari, mi rivolsi direttamente al titolare. Con l’aria scocciata dal continuo duellare con clienti pignoli, mi sostituì il cacio senza tante storie. La maestra disse, dopo averlo esaminato sull’ingresso della sua abitazione, ch’era il medesimo che le avevo portato la prima volta, quello rancido. Lo respinse di nuovo e mi chiuse la porta in faccia.
        La mia prima reazione fu quella di tirarglielo dietro. Lo posai davanti alla porta di casa sua, suonai e me la diedi a gambe. All’alimentari non avevo più intenzione di andarci.
        Arrivato in sartoria, il maestro mi chiese conto del troppo tempo impiegato. Gli raccontai l’accaduto, mentendo sul finale. Sedetti e presi a cucire.
        Il maestro apprezzava e lodava i miei progressi lavorativi. Ciononostante, un giorno mi aveva detto, impugnando il ferro da stiro in attesa che scaldasse, che non avrei svolto la professione del sarto da grande. Il mio collega si, anche se era meno bravo di me. Gli chiesi la motivazione ma non volle darmela.
        Nel pomeriggio, con naturalezza, resuscitò la faccenda del cacio. Le donne sono incontentabili, cominciò, e mi chiese di raccontargliela di nuovo, mentre lisciava la riga. Riferii tutta la verità, infervorandomi a spiegare le ragioni del mio comportamento, convinto che le condividesse. Invece mi appioppò una sonora botta in testa. Lo stupore di essere caduto in trappola mi distolse dal recepire prontamente il dolore, che seguì. Compresi allora ché non ero tagliato per quella vita.

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Commenti

2 risposte a “L’apprendista”

  1. Avatar Gian Gabriele Benedetti
    Gian Gabriele Benedetti

    Altri tempi. Tempi duri per tutti. Educazione severa e senza sconti per i giovani. Pochi potevano continuare gli studi. Molti quelli avviati al lavoro. Le esigenze delle famiglie non permettevano “divagazioni”.
    Ed in questo racconto la disciplina ferrea e, non di rado, certe fisime, specie della signora, avviliscono ancor più l’apprendista. Ma così era e ci si doveva abituare. Eppure anche quei tempi avevano un loro valore ed un loro significato.
    Realismo acceso, ricordo vivo, fresca ironia scorrono attraverso immagini fortemente evocative ed incisive ed un linguaggio diretto, che fa presa. Ed è ancora vita che scorre attraverso gli occhi del cuore e della mente
    Gian Gabriele Benedetti

  2. Avatar Felice Muolo
    Felice Muolo

    Grazie, Gian Gabriele: sei sempre gentile.