LETTERATURA: L’Estranea
30 Maggio 2008
di Matteo Ongari
Sono li, davanti al bancone del bar e aspetto il mio momento.
Pazientemente attendo guardandomi attorno: una signora sulla quarantina sta raccogliendo sopra un vassoio diverse cose appena ordinate.
E ‘ chiara di carnagione, evidentemente il sole non l’ha ancora accarezzata, colorandola.
I suoi occhi liquidi seguono ciò che la barista le sta preparando: i capelli tinti di uno rosso sfocato sono raccolti sopra la testa, e, alcuni sbuffi ribelli le scendono sulla fronte.
Parrebbe essere italiana, ma quando paga, parla un idioma non comune dalle nostre parti; che insolita teutonica penso tra me.
Ancor più inconsueto è il contenuto del cabaret che tiene, traballante, tra le braccia albine.
Una teiera, con tazza e fettina di limone, un latte macchiato, un cono gelato e delle patatine fritte.
Sparisce, con passo incerto da equilibrista sul filo, dietro l’angolo della baracca, tra i tavolini di plastica gialla, all’ombra di un gazebo. Anche la mia famiglia attende là , fremente di voglia, la sospirata merenda che io devo procurare.
La schiera di signore, all’interno del piccolo bar, è tutta un fermento.
Si agitano, si sfiorano, si intersecano prendendo oggetti, dolci, gelati e vivande dalle mensole appese alle pareti e nei frigoriferi agli angoli con un ritmo che sembra studiato a tavolino.
Tante formiche che si approvvigionano per il gelido inverno: così mi appaiono.
Insetti veloci dalle capigliature differenti e dagli improbabili grembiulini, con colori fluorescenti di sponsor vari, fremono e corrono, e sembrano avere mille occhi, mille orecchie nel dare ascolto alle richieste degli avventori, grandi e piccini che siano.
Finalmente, nella sgomitante maleducazione estiva, riesco a districarmi.
Quando torno con la roba mi accorgo che la seggiola blu a me riservata non è comoda, ma nemmeno le altre attorno al tavolino sono migliori, in effetti.
Una volta sistemati tutti gli spuntini, come al solito butto lo sguardo in giro.
Tra le tonnellate di divertimento, non so come, ma ho la capacità di trovare la triste melanconia celata dentro un essere umano.
Come avevo fatto a non notarla prima.
Forse perché era già qui dietro, sotto questa tettoia che amplifica la calura pomeridiana o forse perché le donne del chiosco sembravano andare al doppio della velocità normale, ma mi è sfuggita.
Adesso è li, sta pazientemente attendendo che il signore tedesco, marito della bianca valchiria di prima, finisca di tagliuzzare il limone da immergere nel suo tè.
Seccata da quell’attesa inutile, visto che l’operazione sembra un intervento da cardiochirurgo, si affretta a cambiare mansione.
Sneakers blu con cordoni grossi, della stessa tonalità .
Jeans larghi che impediscono di decifrarne le forme, comunque non mastodontiche quanto le braghe, maglietta militare grigia, da cui spuntano appena le forme dei seni, occhiali con montatura di metallo scuro, sottili e ovoidali, sui piccoli occhi grigi.
E’ una ragazza, giovane, che evidentemente aiuta nella gestione del locale.
A lei spettano i lavori più umili.
Con un elastico si è fatta la coda ai lunghi capelli, di una tinta castana scura, e mette in mostra la fronte alta, libera dall’acne che invece le punteggia un viso ancora non abbronzato, come del resto sono nivei gli avambracci che nettano i posacenere, adorni solo di due braccialetti gommosi.
Sul suo volto non c’è ombra di svago, ma neppure di felicità . Solo tristezza si  svela in quelle vacue pupille cineree, nemmeno fossero occhi bovini.
Lo si capisce subito. Pulisce tavoli, sbriga piatti e bicchieri vuoti, porta via a fatica sacchi i sacchi neri d’immondizia, ne inserisce di nuovi nei cassonetti e stancamente si trascina una scopa per rassettare tra i tavoli ed uno straccio per sgombrali dalle briciole, tutto senza vivacità .
Questa sua infelicità è in contrasto con l’universo circostante: milioni di teste in migliaia di chilometri quadrati d’arenile che si divertono, allegramente goduriosi al caldo sole, stuzzicati dall’acqua di mare, e lei non riesce nemmeno a gioirne seppur indirettamente.
La vedo come un pesce d’acqua dolce troppo curioso che, spintosi all’estuario, finisce nell’acqua salmastra del mare che lenta ma inesorabile potrebbe soffocarla. Per rimanere viva dovrà lottare contro la corrente verso l’alveo natio.
Per lei, di cui ignoro il nome, gli interessi e la storia personale, l’estate è come l’atmosfera lunare. Irrespirabile, ostile.
Adesso porta via il vassoio con le giacenze della strana merenda dei tedeschi.
Di colpo, questa presenza malinconica, quest’atmosfera triste ha catturato pure me.
Mi immergo, isolandomi, in un’innaturale mestizia spoglia quanto la cena di un clochard.
L’indomani sono tornato al chiosco da solo e l’ho rivista: aveva cambiato solo la t-shirt, color perla, che tirava sulle sue spalle larghe.
Poggiata contro la parete interna del locale, la solita espressione dipinta in faccia, sembrava non alimentare nessuna curiosità per le miriadi di facce che aveva di fronte, né per la loro contentezza.
Stava, come al solito, immersa nella sua afflizione.
La tristezza è molto difficile da lavare via, non basta una spugnetta umida, è troppo appiccicosa, è un miele di quelli buoni, talmente pastosi che non te ne puoi più liberare.
Lei, la ragazza triste del bar, l’estranea, ha avuto il merito di rimaner impressa nella mia mente, tra tutte le giornate felici trascorse, come miele appiccicato tra le dita.
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Pingback by Graffetta : Oltre l’Argine — 30 Maggio 2008 @ 15:01
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