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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: LOOP

3 Settembre 2011

di Antonio Squadrone

I.
Il sole allo zenit era uno sfolgorante disco d’oro, il mare, una prateria di smeraldo vivo. La grande spiaggia sembrava brillare di luce propria.
La giovane donna era accoccolata su un enorme asciugamano colorato, all’ombra frastagliata delle grandi foglie di un palmizio. Attorno a lei c’erano poche persone, qua e là, come inevitabili elementi della coreografia, del tutto fuori dalla sua attenzione. Si scosse i lunghi capelli corvini. Nonostante la temperatura torrida amava tenerli sciolti. Le unghie affilate ticchettavano lievi sul notebook posato sulle gambe incrociate, saltellando precise sulla plastica rossa.
Chiara lavorava come creativa di software. Realizzare programmi era la sua passione da sempre. Eccitante come concepire. Emozionante come partorire. Ma senza dolore, senza strascichi. Ed era la migliore.
Il vento soffiava lieve, saturo di odori tropicali. Chiara osservò l’infuocata superficie del mare. I suoi occhi, per pochi istanti, scintillarono come piccole stelle color dell’erba. Dovette socchiuderli subito. Troppo intenso il riverbero. Pensò al bikini. Il minuscolo costume lasciava in mostra così tanta pelle da sembrare vano come una nuvola sul deserto, ma le dava fastidio. Si slacciò il reggipetto e i seni scesero di pochi millimetri, rimanendo sospesi come due palloncini dorati: sodi, veri, imperlati di goccioline di sudore come pioggia finissima, impreziositi da due perfette corolle brune. Si accorse degli sguardi maschili che immediatamente si posarono su di essi, con compiacimento ben nascosto, come solo una donna sa fare. Continuò a provare col computer ma, incredibilmente, il lavoro non le riusciva facile come il solito.
Fu in quel momento che lo vide. Nell’istante in cui si scosse per farsi un po’ di fresco e, forse inconsciamente, mostrarsi meglio a quegli occhi di uomini. Stava seduto alla base di una palma una decina di metri più in là, guardandola intensamente, senza compromessi. Sulle gambe, come un tendaggio sceso, sventolava piano un giornale. Un ragazzo particolare: corti capelli d’oro, viso giovane ma segnato. Interessante. Occhi cobalto su pelle color del cuoio, torso nudo, spalle larghe, pelle come bronzo, jeans strappati al ginocchio che rivelavano gambe muscolose. Come aveva potuto non notarlo prima?
Di colpo, per Chiara, tutto divenne sfocato. Nitido, solo lui. L’isola divenne cornice attorno all’uomo capolavoro.

II.
La montagna s’innalzava nel cielo grigio come una smisurata piramide d’ebano. La vetta si affondava nel ventre delle nuvole in corsa come la prua di una nave in un mare in tempesta. Franco s’inerpicava faticosamente lungo un sentiero scosceso sulla parete est, sferzato da un vento freddo che gli spezzava il respiro. Nubi gravide d’acqua strisciavano veloci sulla rotta superficie piombandogli addosso l’una dopo l’altra, ingoiandolo nella loro piovigginosa essenza. Il maltempo l’aveva sorpreso lungo la salita e l’aveva rallentato molto, mettendo a dura prova la sua vigoria.
Franco scriveva. I libri erano la sua passione da sempre. E per scrivere amava isolarsi. Sceglieva luoghi particolari e per raggiungerli non badava a spese. Ormai era affermato, ricco, poteva tranquillamente permetterselo. Le recensioni delle sue opere non erano mai meno che entusiastiche, i diritti piovevano come temporali nelle sue tasche. Non si ricordava più in quanti paesi era tradotto e dove l’avevano definito il migliore autore horror di sempre. Soprattutto, gli piaceva ricordare che era anche considerato uno degli scrittori più sexy del momento. Lui, maschio di trentanove anni, alto e prestante, con gli occhi d’ossidiana e i capelli lunghi sempre raccolti in una coda che era diventata un’icona.

L’uomo era molto stanco. Marciava da quasi cinque ore e lo zaino pesava sempre di più. Tergendosi la fronte si fece coraggio. Era quasi sera e la bufera sembrava aumentare la sua forza, ma sapeva che il rifugio era vicino. Una densa nuvola lo avvolse ancora. Dovette fermarsi. Troppo rischioso camminare quasi alla cieca. Aspettò che l’enorme fantasma scivolasse via, sentendosi lambire dalla sua lingua umida. Rabbrividì convulsamente.
Quando la foschia si diradò, vide una tenue luce poco più in alto. Finalmente! Doveva essere il faro del rifugio. Rincuorato, accelerò con tutte le forze e lo raggiunse in pochi minuti. Il ricovero era un parallelepipedo di cemento scuro incastonato nella parete della montagna.
In quel momento Franco si chiese se, tutto sommato, non avesse sbagliato nello scegliere quel posto. Sapeva che dentro era pieno di provviste, che sarebbe potuto rimanere lì per almeno un mese, che era quello di cui aveva bisogno. Ma, ora che si trovava di fronte alla porta, dubitò.
La luce che aveva visto non era il faro. Filtrava tremolando da una delle due piccole finestre e il fumo che usciva dal comignolo, subito portato via dal vento, non lasciava dubbi. Era fuoco di legna. Dunque, c’era qualcuno dentro. Non se lo aspettava. L’agenzia gli aveva garantito che in quel periodo il rifugio sarebbe stato solo per lui. Questo gli scombussolava i progetti. Improvvisamente sentì la fatica trasformarsi in rabbia. Odiava che le cose non andassero come voleva. Ansimando pesantemente, afferrò la maniglia ma si fermò un istante prima di aprire. Chi diavolo c’era dentro? E se fosse stato qualcuno non proprio… benintenzionato? Franco restò qualche istante a pensare. Poi, sfilò dal fodero il minaccioso coltello militare che portava sempre alla cintura quando andava per monti. Inspirò profondamente e socchiuse la pesante porta di metallo. Cauto infilò la testa nel rifugio.
Dentro c’erano caldo e penombra. Il locale era unico, a pianta rettangolare, interamente rivestito di legno di pino. Di fronte all’ingresso c’era un caminetto in cui ardeva il fuoco. Poco più a sinistra stavano un piccolo box doccia e un angolo servizi. Subito a destra del focolare c’era una cucina economica sovrastata da mensole ingombre di barattoli. Appese a una rastrelliera, pentole e padelle tintinnavano fesse come campane stonate. Franco esitò qualche istante in bilico sull’ingresso. Poi, si decise. Entrò e chiuse la porta. Il rabbioso sibilo del vento fu improvvisamente zittito lasciando il posto a un confortante silenzio. Cercò l’intruso. Lo vide. A sinistra, in fondo alla stanza.
Sussultò.
Era una donna. Una giovane donna.
Subito notò i suoi capelli, lunghi e neri. Poi il viso. Era bella. No, bellissima.
Sedeva a un tavolino rischiarato da un lume a gas. Stava scrivendo. Con un’enorme penna stilografica.
Tra lei e la stretta parete alla sua destra, c’era una brandina. Da uno zaino emergeva la manica di uno spesso maglione bianco.
La ragazza non disse niente. Smise di scrivere e si limitò a guardarlo senza cambiare espressione. Poi i suoi occhi si posarono sul coltello. Franco rimase come inebetito. Si sentì un perfetto idiota con quella lunga lama ancora stretta nel pugno. Impacciato, la infilò maldestramente nel fodero sbagliando due volte la manovra, catturato da quegli occhi che ora erano di nuovo fissi nei suoi. Dopo lunghi secondi, lei tornò ai suoi fogli liberandolo.
Franco era imbarazzato come mai si era sentito. Non sapeva cosa dire, non riusciva nemmeno ad aprire bocca, e si sentiva un deficiente a starsene così impalato. Alla fine si diresse verso il lato opposto del rifugio, dove c’erano un’altra branda e un altro tavolino. Lì posò il suo sacco e, senza nemmeno togliersi il giaccone, si sdraiò. Pochi minuti dopo era addormentato.

III.
Chiara tremava. Nonostante il caldo, brividi violenti la percorrevano ovunque. Quel ragazzo non staccava gli occhi da lei, ed era il più bell’uomo che avesse mai visto. Non un bellone da spiaggia, un vuoto manichino depilato gonfio di muscoli ipertrofici e lucido d’olio. Bensì un maschio, fino al midollo, fino alla più piccola molecola. Non aveva mai provato sensazioni come quelle, eppure ne aveva avuti di uomini. Ma quello era diverso.
Le dita premevano tasti a casaccio. Non riusciva a liberarsi dalla magia di quello sguardo che la carezzava dappertutto avvolgendola in un torbido bozzolo, accendendo liquidi fuochi in parti di lei che mai aveva percepito così vive e sensibili.
Doveva conoscerlo. E non sembrava una cosa difficile. Chiuse gli occhi e alzò il viso verso il sole, sperando che lui cogliesse la grazia del suo profilo, la morbida curva del mento e il suo perfetto raccordarsi col collo esile. Poi inarcò la schiena inspirando profondamente e spingendo in fuori i seni. Un rumore di carta strapazzata. L’uomo stava alzandosi. Il cuore le invase la testa rimbombando accelerato. Si sentì sfiorare il corpo da qualcosa di caldo e nel contempo fresco, come se labbra sfacciate le lambissero la pelle soffiando lievemente. Rabbrividì. Mentre nel suo ventre un sole si accendeva pulsando.
Chiara poteva quasi sentire l’odore del giovane che si avvicinava; era ormai presso di lei, a pochi centimetri. Fremeva, aspettando di udire la sua voce, che già sapeva com’era. Trepidava aspettando un suo tocco.
Che non arrivò. Sentì improvvisamente freddo. Aprì gli occhi. L’uomo non c’era più.

IV.
Franco si destò che era notte fonda. Il fuoco si era spento e timidi occhietti arancioni ammiccavano dalla cenere scura. Fuori il vento era morto. Il silenzio assoluto.
Faticò un po’ a capire dove si trovava, ma poi realizzò. Subito, gli venne in mente la ragazza dall’altra parte del rifugio. Cercando di fare poco rumore si alzò sui gomiti. Da fuori penetrava un certo chiarore ma non bastava a permettergli di distinguere bene le forme là in fondo. Aspettò che gli occhi si adattassero. Infine, la intravide. Dormiva, completamente avvolta in una pesante coperta.
Udiva perfettamente il respiro della donna, lieve e ritmico. Gli era parso ben strano il suo modo di fare. Al suo ingresso non aveva aperto bocca, non aveva accennato ad alcuna reazione… nonostante il coltello. A quel pensiero una vampa di rossore gli balenò sul viso. Rimuginò per lunghi minuti e i pensieri che presero forma non gli piacquero per niente. Innanzitutto, pareva che lei non l’avesse riconosciuto. L’orgoglio sanguinava. E molto.
E poi, anche peggio, sembrava proprio che la giovane l’avesse valutato e, in pochi istanti, collocato nella scenografia. Come un banale oggetto.
Franco era disorientato. Disagio e rancore facevano a gara nel suo intimo.
Però… scriveva.
Forse anche lei cercava solitudine. Forse, anche lei si era seccata della sua presenza. Forse, anche a lei avevano detto che il rifugio sarebbe stato libero. Franco si distese e cercò di rilassarsi. Ponderò a lungo fissando il soffitto, con la mente via via più leggera. Alla fine decise di non andarsene, contrariamente a quanto aveva ipotizzato. Sarebbe rimasto dov’era, nella sua parte di rifugio, senza interferire con la ragazza. Decise di imitarne l’atteggiamento. Pian piano scivolò nel sonno e i pensieri si dissolsero in un piacevole oblio.

Due prismi di sole trafilavano dalle piccole finestre. Risoluti e splendenti, penetravano obliqui la penombra del rifugio scaldando intensamente il pavimento di legno. Franco si svegliò riposato e guardò la giovane. Era già all’opera. Scriveva assorta, col sole che le accendeva un’aura dorata attorno al profilo. Sorrise tra sé. Anche lui amava scrivere con la penna. Gli piaceva il contatto della pelle sulla carta, vedere i suoi pensieri scaturire dal pennino. Non gli piaceva scrivere al computer. Troppo freddo, troppo artificiale. Si alzò cercando di non disturbarla in alcun modo. Mentre si lavava, faceva colazione e, infine, si metteva a sua volta al tavolino, non cessò comunque di lanciarle rapidi sguardi: per studiarla e, sì, anche ammirarla. La ragazza non fece alcun accenno a voler comunicare. Solo per un attimo gli parve di coglierne gli occhi, verdi e grandi, su di lui. Franco scrisse fino in tarda mattinata, continuando anche mentre lei si faceva da mangiare e consumava il pasto, aspettando che ritornasse al suo posto prima di alzarsi a sua volta. E la donna non interferì in alcun modo mentre anche lui pranzava. Lavorarono fino a sera. Smisero quando la luce esterna, arrampicatasi lentamente sulla parete opposta alle finestre, vi dipingeva due sbiadite losanghe virate al rosa. L’uomo si accorse solo allora che la penna aveva volato: pagine su pagine, rapidamente come mai gli era capitato. Sorrise incredulo, carezzando i fogli.
Franco aspettò che la ragazza finisse di lavarsi, senza poter resistere comunque dallo spiarla mentre faceva la doccia. I pannelli non coprivano del tutto il piccolo box e sprazzi di pelle umida facevano spesso capolino, incendiandosi dell’arancione del fuoco. Ciò che intravedeva, ma soprattutto immaginava, completava il quadro: era tutta bella. Franco si lavò a sua volta cercando inconsciamente ma non troppo di tendere i muscoli, di lasciare intravedere qualcosa di sé sperando che la donna lo guardasse come lui aveva fatto prima con lei. Raggiunse il proprio letto quando lei si era già coricata. Leggeva, e niente lasciava pensare che fosse almeno incuriosita da lui. Si sdraiò un po’ deluso. Ma, proprio mentre stava per rassegnarsi al sonno, sentì i propri occhi svincolarsi dal controllo e girarsi sulla ragazza per un’ultima occhiata.
Stava fissandolo. Franco sussultò. E, per la prima volta, intravide un sorriso. Solo un attimo. Lei tornò subito alla sua lettura. Ma a Franco era bastato. Si addormentò più sereno.

V.
Chiara, nella penombra della sua camera, giaceva confusa e senza quiete.
L’uomo era sparito quando era certa che sarebbe venuto da lei. Aveva ignorato i messaggi che gli aveva lanciato. Inviti che riteneva inequivocabili. Perché?
Quando, all’imbrunire, lui non era ricomparso e l’aria non era più così calda e profumata, se n’era dovuta andare. Sola e turbata come mai.
A questo pensava sdraiata sul letto, nuda, girandosi e rigirandosi come una piccola duna maltrattata dal vento, col cuore che cercava vanamente riparo da quella corrente implacabile.
Passò molto tempo prima che il tiepido lenzuolo del sonno si posasse su di lei.

Alla mattina, tutto era come nella precedente. Sole, mare, profumi.
Chiara si era seduta nello stesso posto. Svestita come il giorno prima. Il piccolo computer era ancora sulle sue gambe ma le dita si posavano sui tasti come cade la pioggia, senza alcun criterio.
Il lavoro era l’ultimo dei suoi pensieri. Quell’uomo le riempiva la mente, primo su tutto. Perché non arrivava? L’aria intorno a lei era pregna dei muti richiami che lanciava senza controllo. Effluvi di desiderio sbocciavano, si staccavano dalla sua pelle e volavano in ogni direzione come polline nel vento. Ma lui non c’era e quei messaggi raggiungevano sensi sbagliati. Altri corpi rispondevano indesiderati, scagliando verso di lei rozze frecce.
E, improvvisamente, era lì. E, anche questa volta, non si era accorta di quando il giovane si fosse seduto sotto lo stesso albero di ieri. E ancora la fissava, le grandi mani posate sulle ginocchia. Chiara, questa volta, non intendeva rischiare. Si alzò lasciando cadere il computer, avvertendo da lontanissimo il tonfo attutito sulla sabbia. Non gliene importava niente. Con le labbra socchiuse sui denti bianchissimi, tutti i muscoli del corpo in languida tensione, si scosse i capelli sentendoli come una morbida onda attorno al viso, un soffio tiepido sul collo. Si sentiva bella, desiderabile, femmina come mai.
Chiuse gli occhi, trascinata nell’estasi di un torbido pensiero. Ma li riaprì subito, obbedendo a un’improvvisa paura: che lui fosse sparito in quei pochi attimi di cecità? No, era ancora lì, seduto, a guardarla con un sorriso nuovo sulle labbra scolpite. Denti brillanti come perle.
Chiara sapeva che l’uomo le stava parlando. In silenzio.
Le diceva che voleva stringerla a sé affondando le lunghe dita nella sua pelle calda, per poi baciarla sulle labbra, sul collo. Le diceva che voleva carezzarla, dapprima dolcemente, con tenerezza, per poi …
Chiara si mosse verso di lui. L’altro si alzò. Era alto, la pelle lucida di un velo di sudore virile. La donna tremò come un petalo nella tempesta.

VI.
Franco e la ragazza scrivevano.
Passarono i giorni, silenziosi ma densi di lievi rumori. Come gli scricchiolii che si sprigionavano dalle loro scrivanie improvvisate, così simili ai gemiti degli antichi scrittoi degli amanuensi. Come i mormorii delle loro penne in corsa su fogli sempre nuovi. Soprattutto, quel tempo fu fecondo d’idee, ricamate sulla carta in lunghe trine di parole che si sarebbero poi magicamente trasformate in immagini, suoni, odori, luci, ombre, vita.
Un pomeriggio Franco non resistette oltre. Il bisogno di contatto si era fatto irresistibile. In realtà c’era già andato vicino diverse volte ma si era sempre frenato, rimanendo zitto con le parole a premere vane appena dietro la barriera dei denti. In parte perché gli doleva spezzare quello strano, dolce equilibrio che aveva permesso loro di convivere pacificamente in così poco spazio. Di più perché, riportando tutto alla consueta dimensione dei rapporti tra adulti, aveva temuto di vedere dissolversi i sogni che su di lei aveva fatto e nei quali aveva gioito come un ritrovato bambino.
Ma lei l’aveva stregato. Senza dire niente, senza una moina, senza una promessa o una bugia, né di bocca né di corpo. L’aveva catturato e lui non poteva più fare a meno di rischiare, di mutare al concreto ciò che, fino a quel momento, era stato solo struggente fantasia.
Franco, per la prima volta, violò l’invisibile confine che li separava. La ragazza si volse a guardarlo. Lui, tremando come un bimbo, si fermò a un metro dal tavolino e la fissò negli occhi. La giovane si alzò mentre un sorriso le illuminava il volto.
L’uomo sentì il proprio cuore balzare dal petto in una mano, pronto per essere offerto alla donna.

VII.
Chiara era davanti all’uomo, a pochi centimetri dalla curva piena dei suoi pettorali. Respirava il suo odore, sapendo che, a sua volta, lui stava assaporando il suo aroma di donna eccitata. Percepiva languidamente che, tutto ciò che in loro poteva inturgidirsi, era già bollente e pronto. Il deliquio cresceva oleoso e profumato. Finalmente avrebbe udito la sua voce sfiorarle la pelle e, finalmente, avrebbe potuto carezzarlo con la propria.

VIII.
Franco era davanti alla ragazza, a pochi centimetri dalle ampie curve del suo seno. Lei sorrideva. Un bellissimo sorriso: dolce, aperto. La sua bocca era una morbida rosa che si schiudeva umida su denti candidi. Franco ebbe l’improvvisa e confortante certezza che non avrebbe avuto nessuna importanza cosa si sarebbero detti; loro, in realtà, stavano già comunicando da molto tempo, ma con un linguaggio che non lasciava spazio agli equivoci, ai tranelli del mero verbale.

IX.
Chiara parlò. Udì la sua voce superare a mala pena il fracasso del locale. Un piccolo bar affollato a pochi minuti a piedi dalla fabbrica.

X.
Franco si protese verso di lei e parlò a sua volta. Tutto intorno, gli schiamazzi di decine di avventori, fuori il traffico della strada nell’ora di punta.

XI.
Chiara e Franco uscirono per incamminarsi verso la fabbrica.
Lavoravano nella stessa vetreria, negli stessi turni. Si erano notati da qualche tempo e nelle ultime settimane si erano occhieggiati sempre più spesso, anche in quel bar.
E avevano sognato.
Chiara aveva trentasei anni, era piccola, piuttosto paffuta. I suoi capelli erano biondicci ma li colorava di nero perché così si sentiva più graziosa. Il suo viso, piuttosto pallido, non era né bello né brutto. Un volto tra tanti, senza sussulti, di quelli che ne vedi passare a decine senza ricordarne uno in particolare. Franco era di media statura, un po’ sovrappeso e con una calvizie in metastasi dall’apice del cranio. Il suo viso equino e la postura un po’ china, tradivano i quasi quarant’anni di poca serenità e tante frustrazioni.

Camminavano vicini, lentamente, con gli sguardi verso il marciapiede, senza riuscire né a guardarsi né a parlare per paura di fare o dire qualcosa che potesse rovinare tutto.

Nelle loro fantasie era diverso.
In quei sogni a occhi aperti i loro mondi e loro stessi trasfiguravano. Erano belli, di successo, e provavano emozioni straordinarie, parlavano senza aprire bocca, amavano ed erano riamati.
Lottavano, soffrivano ma, alla fine, vincevano sempre. E volavano.

Chiara e Franco procedevano affianco, ma lo spettro del dubbio si era già insinuato tra loro, ripetendo maligno la sua condanna: che anche questa non sarebbe stata la volta buona.
Passo dopo passo si avvicinavano alla fabbrica, sentendosi precipitare lungo traiettorie note e senza appigli possibili. Tragicamente impotenti. Presagendo l’immancabile dolore.
Il loro cammino era parallelo, apparentemente, ma in realtà già divergeva.

E in entrambi c’era quella visione… forse la più insopportabile.
La polvere della vetreria. Che, entro pochi minuti, si sarebbe posata sui corpi, sulle menti, sui cuori.
Coprendo, cancellando, soffocando.
Tutto uguale a ieri, all’altro ieri, a sempre. Fino al prossimo sogno.

Come in un loop.


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Bart