LETTERATURA: L’uovo bucato
5 Giugno 2009
di Gian Gabriele Benedetti
Quando un insegnante di ruolo, agli inizi di carriera, è chiamato alla scelta della sede provvisoria o definitiva, si trova di fronte ad un elenco di nomi di paesi e di località relativi ai vari “posti” vacanti. Sull’elenco ogni docente opera, ovviamente, una selezione, mettendo in ordine di preferenza le varie sedi, dopo un attento esame, anche dal “vivo”.
Vi sono dei “posti” che incutono timore solo a sentirli nominare per la loro distanza, per la difficoltà nel raggiungerli, per la mancanza di strade carrozzabili, per l’impossibilità di trovare una stanza dove alloggiare, per il rischio non infrequente di lasciarci l’intero stipendio per sopperire alle spese alle quali si va incontro. Certamente alcuni anni fa era notevole il numero di tali sedi; al momento molte di queste, se non tutte, sono state soppresse, altre ora si trovano collegate da strade addirittura asfaltate.
Quell’anno, il secondo della mia nomina in ruolo, mi trovai di fronte ad una scelta non certo entusiasmante, essendo costretto ad optare per dei “posti”, per i quali noi giovani di allora dicevamo: “Basta la parola!”. Così tra i vari Ritrogoli, Valsegone, Pian dei Biagetti (che di piano non aveva proprio nulla), Coste di Porciglia, Capanne di Careggine…, scelsi Piastroso, sede che mi parve la meno scomoda, si fa per dire.
Piastroso è una piccola frazione del Comune di Coreglia Antelminelli, che dista dal capoluogo circa cinque chilometri e si trova sulla riva sinistra del torrente Ania, quasi alla sorgente di questo.
Certamente definire Piastroso un paese ci vuole un grande sforzo della fantasia: non è paragonabile neppure al paesino di “Rio Bo”, in quanto non ha tre tetti insieme e non ha il cipresso, cui fa l’occhiolino la stella; non ha neppure il campanile e rare volte vede la luna, essendo stretto fra i monti. Le sue case, una decina in tutto, sono sparse qua e là a distanza di cento e più metri l’una dall’altra, come pecore al pascolo sulle pendici inferiori di un monte, e quasi tutte mostrano i segni del tempo. Vi sono pochissimi campi terrazzati e tutto intorno boschi meravigliosi di secolari castagni, un tempo il principale sostegno degli abitanti del luogo, unitamente alla pastorizia.
Al momento la zona, che in passato contava su una nutrita popolazione, costituita da famiglie patriarcali, risulta quasi abbandonata. L’esodo verso i centri industriali, la fuga dall’isolamento continuano tuttora inesorabili e non è riuscita ad arrestarli la costruzione di una strada asfaltata, che collega, al momento, la zona a Coreglia. Sono rimasti gli anziani, che diminuiscono inesorabilmente per legge di natura, e pochissimi giovani. La loro attuale risorsa, forse l’unica, dopo il graduale abbandono della raccolta delle castagne e della pastorizia, è costituita dai funghi, spesso abbondanti e di qualità pregiata in quei luoghi.
Al tempo della mia esperienza di maestro in quella zona la strada carrozzabile non c’era: si raggiungeva Piastroso attraverso una mulattiera, che, da Coreglia, serpeggiava lungo diverse gobbe del monte e, per questo, dava l’illusione che la distanza da percorrere fosse breve. Gli abitanti del luogo, a tal proposito, ammaestrati dai non infrequenti faticosi viaggi, solevano commentare: “Ogni volta, che durante il tragitto, Coreglia appare ai nostri occhi, sembra quasi di poterla toccare con la mano, invece ce n’è di strada da percorrere prima di arrivarci!”.
Non c’era nemmeno la scuola, cioè l’edificio scolastico. La scolaresca, una pluriclasse, aveva la sua aula in una casa del posto, in cui i proprietari gestivano una specie di negozio di generi alimentari (anche qui bisogna lavorare molto di fantasia per dare una tale definizione), dove si poteva rinvenire ben poca merce e alquanto stagionata.
La stanza che fungeva da aula era enorme, con tre finestre malandate, dalle quali entrava vento da tutte le parti, e due usci: uno di ingresso ed uno che dava in quella riservata come camera del maestro, sede stabile di un branco di topi agguerriti e rumorosi, che di notte tenevano compagnia con le loro continue scorribande e con i loro incessanti squittii. Il pavimento era di legno e, siccome le tavole non sempre combaciavano bene tra di loro, dalle fessure spifferava un venticello maligno che più volte mi ha fatto ringraziare la Provvidenza di essere un uomo e di non dover indossare le sottane, indumento allora abituale per l’altro sesso. In questa stanza, durante i mesi freddi, che lassù cominciano ad ottobre e finiscono a maggio, si tentava di far caldo con una stufa a legna, ma il combustibile (chiamiamolo così) spesse volte era verde ed umido, sicché era più il friggio ed il fumo che si ottenevano che il calore necessario. Noi chiamavamo quel mezzo di riscaldamento “la voce nel deserto”. Si vede che il Signore proteggeva il maestro e che i ragazzi erano robusti e temprati, il fatto sta che abbiamo superato indenni i rischi non indifferenti del freddo di quei luoghi.
Eppure, nonostante certe situazioni da definirsi “pioneristiche”, credo di aver trascorso lassù uno degli anni più felici della mia carriera di insegnante.
La pluriclasse assegnatami era composta di otto ragazzi (tre femmine e cinque maschi) distribuiti nelle varie classi del corso elementare. Quasi tutti dovevano percorrere a piedi un buon tratto di strada attraverso i boschi prima di raggiungere la scuola. Qualcuno, addirittura, camminava per più di mezz’ora in andata ed altrettanto per il ritorno.
Ricordo quei ragazzi ad uno ad uno perfettamente, con simpatia, affetto e tanta nostalgia; rivedo come allora quei piacevoli visi rubicondi, propri di coloro i quali sono abituati a vivere spesso all’aria aperta in ogni stagione; ancor oggi e, forse ora più che mai, apprezzo le genuine qualità spirituali che emergevano sistematicamente dalla loro apparente ruvidità. Erano ragazzi ricchi di tanta bontà e generosità d’animo; manifestavano una semplicità sana ed una timidezza composta, che, talvolta, li metteva a disagio di fronte agli estranei, ma che denotava anche una certa diffidenza in chi voleva sottovalutarli, commiserarli, od incantarli con i discorsi.
È vero che la cosiddetta civiltà moderna in quei luoghi sembrava non essere penetrata. Che esistesse, ce lo ricordava, di tanto in tanto, il volo di un aeroplano od il racconto di qualche emigrato che ritornava in famiglia per le feste. Tuttavia quei ragazzi, pur vivendo ai margini della civiltà stessa, possedevano una notevole dose di buonsenso e di capacità pratiche tali che furono per me, spesse volte, maestri più di quanto non riuscissi ad esserlo io per loro. Dimostravano di aver acquisito conoscenze vivissime ed approfondite sugli animali e sul loro comportamento, sulle piante, sul torrente, sul duro lavoro dei campi e dei boschi, sul funzionamento della teleferica, sui funghi, sull’andamento atmosferico… tali che le loro esperienze avrebbero potuto essere preziose anche per i compilatori di una enciclopedia. Ricordo con piacere ed interesse le lezioni vive che scaturivano dai racconti o dai testi di Doria sulle pecore, che quasi tutti i giorni soleva condurre al pascolo; mi tornano a mente le sagge esperienze del nonno di Giovanni, sul tempo, sull’influenza della luna nell’agricoltura, sull’importanza attribuita ai “calendi”, esperienze riferiteci con puntualità dal ragazzo; rivivo ancor oggi le divertenti serate trascorse a veglio da Santino, serate allietate dal suono della fisarmonica, strumento del quale era innamorato (nei suoi testi scriveva che ne desiderava uno di ottanta bassi); provocano ancora in me meraviglia le storie di serpi innamorate, che manifestavano il loro “sentimento” unendosi in flessuosi grovigli, storie narrate con calore da Serafino; mi sono d’esempio e di stimolo le fatiche sopportate quotidianamente dal babbo di Silvia e di Silvano, il quale lavorava alla teleferica o con i muli per il trasporto della legna, fatiche che i due fratelli ben conoscevano e delle quali sovente parlavano; rivivo tuttora il dramma di Dario, un bimbo di prima classe, che abitualmente calzava un paio di scarponi quasi più pesanti di lui. Li calzava anche nella stagione calda per evitare le insidie non infrequenti delle vipere. Egli durante l’inverno non poteva frequentare con la dovuta regolarità le lezioni, in quanto doveva attraversare ogni giorno l’Ania su un’unica passerella piuttosto fragile e malsicura, che congiungeva le due rive. Siccome con le frequenti piogge della brutta stagione il torrente ingrossava paurosamente, la passerella veniva spazzata via sistematicamente e Dario era costretto, suo malgrado, a rimanere assente da scuola per intere settimane, finché la furia delle acque non si fosse placata.
In questa “carrellata”, per mezzo della quale ho rivisto rapidamente e piacevolmente gli alunni di allora, metto per ultima Francesca, la bimba che ha lasciato, forse, in me il ricordo più sentito, più vivo, più sincero, più incisivo… Frequentava, durante quell’anno scolastico, la seconda classe e, nonostante fosse costretta per i tanti bisogni della sua numerosa famiglia a lavorare quasi come un adulto, ce la metteva tutta nelle attività scolastiche. Mi ripeteva spesso: “Sai, maestro? Voglio essere brava a scuola!”. E brava era, ma soprattutto ricca di affetto e generosità. Era una bimba (ora, chissà, sarà sposata con i figli già grandi e, forse, anche nonna) dal fisico gracile e non molto alta per la sua età. Nel viso magrissimo risaltavano gli occhi grandi, neri, profondi che sembravano parlarti. Aveva uno sguardo dolce da paragonarlo a quello di un timido cerbiatto. La rivedo perfettamente, quando sbucava dalla curva nei pressi della scuola, venirmi incontro di corsa lungo il viottolo sassoso, facendo mulinare le sue fragili gambe, che sembravano reggerla in piedi a stento. Ci si meravigliava vederla correre con tanta agilità. Nella corsa, la vecchia logora cartella di cartone le danzava dietro la schiena ed, insieme con l’astuccio di legno, che rimbalzava all’interno con tutto il suo contenuto, provocava un rumore infernale.
Ebbene Francesca (come del resto gli altri ragazzi della scuola di Piastroso) è la protagonista di questo episodio (uno dei tanti per me piacevoli, simpatici, significativi…), che voglio ricordare; un episodio per qualcuno insignificante, ma per me con un suo fascino, con un suo valore, dovuti, chissà, a nostalgia, definita oggi romantica e sorpassata; un episodio sicuramente irripetibili ai nostri tempi, che hanno registrato cambiamenti tali, anche nelle zone più remote, da rendere la vita ben diversa e rivolta alla ricerca di altri beni, di valori differenti e da aprire la mente a nuovi e più ampi orizzonti, non scevri tuttavia di errori e pericoli.
Eravamo in marzo, a circa un mese dalle vacanze pasquali. La cassa della scuola, frutto della vendita dei nostri “prodotti” scolastici, unica risorsa per non costringere il maestro a mettere sempre mano al portafogli per l’acquisto di materiale didattico e di consumo, era ridotta al lumicino. Il “cassiere” del momento, Serafino, allarmato, ci avvertì, mostrando la cassetta quasi vuota: “Maestro!” quasi gridò “Nella cassetta ci sono soltanto centoventi lire! Cosa facciamo?”.
Intervenne Doria, sempre pratica e decisa: “Mi metterò subito a fare dei disegni e li venderemo”.
E Giovanni: “Io preparerò altri lavoretti con le vetrice”.
Serafino, un po’ avvilito, ci richiamò alla realtà: “I miei genitori” disse “non vogliono comprare più niente, perché dappertutto in casa nostra si trovano disegni, pitture, giornalini ed altri nostri lavori”.
Era giusto: avevamo quasi costretto le poche famiglie del luogo a comprare un sacco di “prodotti” della scuola ed ora ne avevano assai per davvero.
All’osservazione di Serafino, rimanemmo per un po’ silenziosi: ciascuno pensava al modo diverso di procurare del denaro per sopperire alle nostre esigenze. La soluzione del problema venne da Silvia. Ella, interrompendo il pensoso silenzio, disse: “Perché non organizziamo una lotteria come quella dell’anno scorso, quando c’era la maestra, in occasione della Giornata del Patronato Scolastico?”.
La proposta fu accolta da tutti con un certo entusiasmo: era veramente una via diversa e stimolante per racimolare dei soldi. Fu messa subito in discussione la maniera di allestire tale lotteria e parlammo, in particolar modo, dell’oggetto da allottare: doveva risultare non molto costoso ma attraente. I maschi suggerirono un pallone o un organino a bocca, le bimbe più grandi una bambola.
Francesca, che fino ad allora era rimasta silenziosa, pur manifestando con l’espressione del volto la propria approvazione per la nuova iniziativa, si decise a parlare: “Io, maestro” disse con calore “io per Pasqua desidererei tanto un uovo di cioccolata come quello che vidi lo scorso anno in una vetrina di un negozio di Fornaci, quando ci andai col babbo a fare le spese. Perché non allottiamo un uovo di Pasqua bello grande, che lo voglio vincere. Sarei contentissima, perché un uovo grosso non l’ho mai avuto”.
Ci parve un’ ottima idea, data anche l’imminenza della festività pasquale, e la proposta fu accettata all’unanimità: l’uovo accontentava i maschi e le femmine, i più grandicelli ed i più piccini. Fu stabilito che a comprare l’uovo pensasse il maestro stesso, purché lo scegliesse grosso ed avvolto nella carta dorata, insomma che fosse bello e facesse “colpo”.
Approfittai del giorno di riposo infrasettimanale, che spettava a chi insegnava nelle pluriclassi con orario spezzato, e mi diressi con la mia “Vespa 125” a Lucca, sicuro di realizzare in città un “affare” migliore: bisognava fare economia, spendere, cioè, bene i soldi per realizzare il maggior profitto possibile. Visitai diversi negozi, ma non trovai ciò che faceva al caso mio: un uovo grosso ed a buon prezzo.
Passando di fronte al supermercato “UPIM”, ne vidi uno posto su un piedistallo dentro la vetrina: era un uovo che faceva davvero figura e rispondeva ai requisiti suggeriti dai ragazzi. Di grandezza discreta, era avvolto nella stagnola dorata e contenuto in una rete quadrettata di nylon rosso. In basso, a caratteri grossi, stava scritto il prezzo: duemilacinquecento lire (cifra che oggi fa sorridere). Era ciò che ci voleva e così, feci l’acquisto, felice anch’io come un bimbetto.
L’indomani, di buon’ora, mi diressi verso Piastroso, portando con me, oltre alla consueta valigetta con gli oggetti personali, l’uovo di cioccolata. Camminavo spedito lungo il viottolo, nella fredda mattinata di marzo, cercando di non danneggiare il mio acquisto.
Intorno, nonostante le cime dei monti fossero ancora assediate dal muto candore della neve ed una leggera brezza scendesse a far rabbrividire la pelle, si avvertivano ovunque timidi segni dell’imminente primavera. Qua e là fiori coraggiosi attendevano a corolle chiuse la carezza del sole, al suo risveglio, per aprirsi in un sorriso teneramente colorato di giovane speranza, preludio di festa futura. Anche gli alberi, pur sempre scheletriti, erano percorsi da un fremito inquieto ed erano pronti ad esplodere nel loro tripudio di verde. E gli uccelli, rimasti a svernare nel lungo tormento della cruda stagione, parevano ormai consapevoli dell’agonia dell’inverno e si affannavano in voli più intensi, spensierati, generosi, mentre intonavano le prime melodie d’amore.
Non mi distraeva, in quel momento, questo brivido di primavera: l’ansia di arrivare lassù tra i bimbi affrettava il passo.
Mi trovavo ancora piuttosto lontano dalla scuola, quando mi vidi venire incontro, correndo e gridando di gioia, la scolaresca al completo. In testa a tutti Francesca. Un “Oh!” di meraviglia si levò quasi unanime, non appena i ragazzi si accorsero dell’uovo che portavo con me. In un attimo fui circondato e tutti volevano vederlo da vicino e toccarlo, ciascuno apprezzando ed esaltando le sue qualità. Francesca affermò con decisione che era più bello di quello che aveva visto a Fornaci.
Arrivammo a scuola in un clima di entusiasmo e di eccitazione. Decidemmo di porre l’uovo sopra un vecchio traballante armadio, che, insieme con un’enorme cattedra “tarmolita” e con dei banchi in legno, sbertucciati e poco funzionali, faceva parte dell’arredamento dell’aula. Quindi ci impegnammo subito a preparare i biglietti, con i numeri da uno a novanta, che avremmo dovuto vendere, dopo avervi scritto il nome del rispettivo acquirente, a cento lire l’uno, secondo gli accordi. I ragazzi si divisero i biglietti ed iniziò, così, la loro distribuzione.
Durante le lezioni dei giorni successivi spesse volte parlavamo della nostra lotteria e dell’andamento della vendita dei biglietti. Soprattutto coglievo sovente lo sguardo dei bimbi rivolto all’uovo, che, dall’alto dell’armadio, sembrava emanare un fascino irresistibile. Francesca, più d’ogni altro, veniva sorpresa continuamente, come incantata, a guardare in su, sopra l’armadio stesso. Ella mi diceva: “Lo vincerò, maestro? Ho comprato tre biglietti, scegliendo bene i numeri!…”.
Eravamo in attesa ansiosa del giorno in cui il sorteggio sarebbe stato effettuato. E questo non si fece attendere molto, in quanto, in men che non si dica, i biglietti furono rapidamente piazzati tutti, permettendoci, così, di realizzare un apprezzabile guadagno. Fu stabilito, allora, di procedere all’estrazione del numero. Invitammo, per quella circostanza, anche alcuni genitori degli alunni. che abitavano nei pressi della scuola, per verificare la regolarità dell’operazione.
La mattina del sorteggio (un sabato) i ragazzi erano piuttosto emozionati ed agitati. I biglietti, arrotolati con cura, furono deposti in una scatola di cartone, appositamente preparata, e ben mischiati. Ad estrarre il numero fu invitata la bimba di quattro anni, figlia dei proprietari della casa, dove si trovava la scuola. Il biglietto fu pescato dalla manina incerta della piccola ed io, con molta curiosità, lo srotolai lentamente e, nel silenzio generale, lessi a voce alta il nome del vincitore: “Francesca S.!”.
Le mie parole furono seguite da un mormorio che manifestava la delusione di coloro i quali non erano stati prescelti dalla sorte. Io guardai in direzione della bimba che tanto aveva desiderato possedere un uovo di Pasqua così grande e che, finalmente, l’aveva ottenuto col favore della fortuna. Francesca rimase immobile, a bocca spalancata, incredula. Il suo viso a poco a poco si infiammò, ma la bambina sembrava incapace di esprimere a parola la sua sorpresa e la sua immensa gioia. Per un po’ rimase ancora immobile, quasi non convinta che la sorte avesse scelto, fra tanti, proprio lei. Alfine si avvicinò a me, balbettando qualche parola incomprensibile, ma che voleva di sicuro esternare la sua soddisfazione.
Fu allora che presi l’uovo dall’alto dell’armadio per consegnarlo alla vincitrice. Nell’afferrarlo con entrambe le mani, i pollici mi entrarono in una cavità che, ovviamente, al suo acquisto non figurava. Guardai meravigliato che cosa fosse accaduto e (ahimè!) mi accorsi solo allora che l’uovo portava in basso un buco piuttosto consistente: persino la stagnola e la rete di nylon erano state rotte in quel punto. I topi, i miei amici topi, che durante le notti insonni mi avevano tenuto compagnia, ci avevano giocato un brutto tiro, mangiandosi una parte dell’uovo.
Amareggiato, un po’ titubante, misi al corrente i presenti dello spiacevole imprevisto. Alcuni tra gli adulti si misero a ridere; altri ed i bimbi manifestarono il loro disappunto.
Francesca non se la prese per niente: l’uovo bucato o non era suo; l’aveva desiderato, sognato e vinto! Ed anche se i topi le avevano arrecato una brutta sorpresa, non erano riusciti a scalfire minimamente la sua gioia.
All’uscita della scuola, la bimba, tutta trionfante, fu circondata dai compagni, ugualmente festanti, anche se meno fortunati di lei, in quell’occasione. Poi, col viso radioso e con i grandi occhi un po’ lucidi, si allontanò di corsa, con la cartella che le saltellava rumorosamente dietro la schiena ed il suo uovo bucato, che ella con gran cura teneva in mano per mezzo della rete. Sparì ben presto dietro la curva.
Io rimasi a lungo, pensoso, a guardare in quella direzione…
Non so se i ragazzi di oggi avranno la fortuna di assaporare gioie simili a quella di Francesca. Il benessere dei nostri giorni ed un’educazione familiare non di rado troppo permissiva li hanno abituati ad ottenere (tutto o quasi) ciò che desiderano, talvolta anche il superfluo. Forse per loro un uovo di cioccolata e per di più bucato dai topi conterebbe ben poco; li lascerebbe, credo, indifferenti. Invece per Francesca, per i bimbi di Piastroso, in quel tempo, un tale dono era in grado di suscitare sentimenti genuini di grande gioia, la gioia di coloro che erano abituati ad avere poco, forse, talora, nemmeno il necessario.
Ciò ci spinge ad una breve riflessione. L’anelito, avvertito un po’ dovunque dalla maggior parte delle persone verso lo spirito progressista della società industrializzata e consumistica ed il relativo, continuo concretizzarsi di tale anelito, anche a costo di non indifferenti sacrifici, ha portato molti ad inserirsi in una vita forse più comoda, ma programmata in maniera pesante. Soprattutto li ha costretti a dimenticare la primitiva semplicità e la propria spontaneità, limitando notevolmente la loro libertà e portando ad inaridire, non di rado, gli animi. E così, parafrasando il Rousseau, si impone l’antico dilemma: se il progresso tecnico arrechi sempre oppure no un parallelo progresso spirituale.
(dalla raccolta di racconti “Paese”)
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Commento by Carlo Capone — 5 Giugno 2009 @ 16:44
Si respira profumo di buona Italia in questo scritto. E’ così stridente il contrasto con il lezzo odierno che si fatica a immaginare un’età non dico felice – secondo me non ne esistono, sono invenzioni a posteriori – ma almeno pregna di umori genuini. Il tempo in questione, che presumo essere la fine degli anni 50, l’ho vissuto da bambino. La sera mia madre friggeva le pizzelle con la ricotta mentre mio padre studiava Keynes in vista di un concorso.
L’odore di quel fritto ce l’ho ancora nel cuore.
Carlo Capone
Commento by Felice Muolo — 5 Giugno 2009 @ 17:54
Racconto di vita vera che fa espodere il cuore dalla commozione. Avrei messo radici a Piastroso.
Si parla tanto di ricerca letteraria. Qui se ne può fare comprensibilmente a meno.
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 5 Giugno 2009 @ 18:40
Grazie a te, Felice, ed a te, Carlo, per il vostro sentito interessamento. Sono anch’io con voi nel considerare certi momenti del passato e certi luoghi di vita, capaci di farsi rimpiangere. Forse perché, come qualcuno sosteneva, ciò che è passato è sempre buono? Ma io credo che certi valori, certi rapporti, certi sentimenti, anche i più semplici, siano lentamente ed inesorabilmente svaniti, dando posto ad un arido tempo, ad un tempo distratto, ad un tempo che a me pare sempre più vuoto. Ed il poco bene che c’è, raramente emerge. Non si tratta di voler conservare il passato ad ogni costo, ma la mia constatazione pare fondata. E poi, lasciatemi dire con Marziale “Hoc est / vivere bis, vita posse priore frui”.
Un abbraccio ad entrambi
Gian Gabriele
Commento by enzo ferrari — 14 Giugno 2009 @ 15:49
Tra cartelle di cartone, scarpe più grandi e pesanti del necessario, cattedre ed armadi traballanti, ecco la storia di un uovo di cioccolato di un tempo lontano.
Al giorno d’oggi l’ASL impedirebbe la distribuzione e la somministrazione della cioccolata rimasta. Ora ci si potrebbe ammalare, all’epoca non moriva nessuno.
Tutto qui finisce in una gran risata liberatoria.
Divertente e simpatico l’aneddoto.
Enzo Ferrari
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 14 Giugno 2009 @ 17:02
Altri tempi, davvero, anche se, in fondo in fondo, non così lontani. Ciò testimonia la rapidità dei cambiamenti che si registrano nella società e nel mondo. Eppure, forse, avevamo più serenità e meno problemi allora che oggi. Non si può negare il progresso, ovviamente, ma uno sguardo all’indietro, ogni tanto, non fa male, specie per chi è avanti negli anni e per chi si dovrebbe dare… una “regolata”.
Grazie, Enzo! A risentirci
Gian Gabriele
Commento by claudio grosset — 15 Giugno 2009 @ 14:21
Definirei questo scritto un reportage autobiografico, del cui valore hanno già giustamente elogiato i precedenti commenti.
E mi lusinga condividere con l’autore il “rimpianto” di un passato di “… sentimenti genuini … primitiva semplicità …spontaneità” etc., che emerge in quel contesto di gente semplice della provincia ancor più remota che ‘vive’ in Montagna. Ho usato il verbo presente perché sono convinto, o almeno lo spero, che un barlume di quella cultura resiste ancora in quei luoghi, a dispetto dell’ambiente eletto e riconosciuto da sempre come fulcro della moderna civiltà, “La Città”, nella quale emergono, specie negli ultimi tempi, alcuni suoi limiti e contraddizioni. A chi obietta questa riscoperta, rispondo che il trascorso è l’unico tempo storicamente certo e quindi confrontabile. Il tempo odierno è gia proiettato verso il futuro, di giuste speranze anche per un mondo migliore ma, spesso di una programmazione in termini prevalentemente quantitativi ed economici a scapito di quelli qualitativi e sociali.
Per altro verso, la lettura è piacevole e coinvolgente, come sempre. E mi piace citare alcuni accostamenti tra aggettivo e sostantivo, originali come “apparente ruvidità… semplicità sana… timidezza composta…” oppure l’aver colto espressioni improbabili e commoventi come “Sai maestro? Voglio essere brava a scuola!”.
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 15 Giugno 2009 @ 16:30
Grazie, Claudio, per l’ampio, articolato, profondo e ben puntualizzato commento. Fa sempre piacere ricevere apprezzamenti e rilievi sul proprio “lavoro” e consola riscontrare convincimenti comuni.
Sono ancora, a distanza di anni, con il cuore nostalgico legato a quei “bimbi” di allora e alla purezza, in ogni senso, alla genuinità, alla serenità, nonostante tutto, di quei luoghi.
Un grazie ancora ed caro saluto. A… ritrovarci presto
Gian Gabriele
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 15 Giugno 2009 @ 23:29
Nella fretta di scrivere, ho “saltato” l’articolo un davanti a “caro saluto”. Me ne scuso. Se Bartolomeo fosse stato in sede, gli avrei fatto correggere la dimenticanza
Gian Gabriele