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LETTERATURA: Nel nulla, senza ritorno.

10 Marzo 2008

di Gian Gabriele Benedetti
[Oltre a numerosi libri di poesia, ha pubblicato la raccolta di racconti “Paese”, Lalli Editore, 1986]

Le accadde quella mattina, quando uscì dal negozio con la borsa della spesa. Ernestina si sentì d’improvviso confusa e smarrita. La sua mente, come svuotatasi, si perse a fluttuare nel nulla più buio: tutto aveva cancellato in un solo momento: chi era? che cosa faceva? dove si trovava?
                    Rimase immobile a guardare intorno: le strade, la piazza, le case del paese le parvero estranee, mai viste, ed estranea la gente che le passava dinanzi e talvolta la salutava.
                    Un’angoscia pesante, un peso opprimente, indicibile, orribile, uno sgomento ossessivo le impedivano anche di muoversi. Eppure doveva andare, ma da quale parte, in quel mondo che più non era suo, che non riconosceva?
                    Udiva, confusi, i rumori del traffico, il discorrere fitto della gente, il gridare dei bimbi persi nei giochi, lo stridio delle rondini da poco arrivate a suffragare la nuova stagione.Tutto per lei, però, non aveva più significato.
                    Provò a fare violenza alla sua immobilità e mosse i passi su per una via che si spalancava dinanzi. Così prese a procedere lentamente, malsicura, a casaccio, ché non le si prospettava alcuna meta. Gli occhi persi nel vuoto sapevano solo di disperazione e di paura.
                    Passò tra i bimbi che giocavano. Si fermò, come in cerca di aiuto. I bimbi interruppero il gioco e la guardarono con curioso stupore e diffidenza.
                    Ernestina tentò, con sforzo indicibile, di parlare. La voce le uscì, metallica, anonima, incerta, interrotta, con frasi prive di senso.
                    Nessuno capì, né osò sul momento risponderle. Poi qualcuno dei piccoli azzardò: “Che vuole quella donna?”. Uno, nel frattempo, puntò l’indice alla tempia, muovendolo un poco col dire: “Ma quella lì è tutta matta!”.
                    Si misero a ridere sguaiatamente e si allontanarono, continuando a sghignazzare ed a schiamazzare più di prima.
                    La donna riprese il suo vagare senza scopo, alla cieca, con dentro la voragine enorme che si era divorata in un istante ricordi, sentimenti, volti, immagini…, una vita intera, e, soprattutto, la consapevolezza di sé, annullando la ragione.
                    Camminò, camminò a lungo e si trovò in aperta campagna, in luoghi prima a lei familiari, ora non più.
                    I campi erano pressoché deserti. Solo qualche merlo si posava lucido sull’erba tenera. L’aria tiepida ed irrequieta portava il sapore della terra in fermento e le scompigliava i capelli. Lontano qualche casolare sparso con i vecchi tetti che si imbevevano di cielo e s’impigliavano nel sole. Più lontano i monti con le cime ancora argentate e con l’eco delle loro gole profonde. Una chiostra d’alberi rigonfi d’umore corteggiava il serpeggiare del fosso. Un cane singhiozzava ad intermittenza.
                    Continuò a peregrinare come se si trovasse in una realtà completamente nuova, strana, fuori del tempo. Il suo procedere si faceva sempre più fiacco ed affannoso. Di tanto in tanto inciampava dolorosamente nei sassi della via fattasi sconnessa, mentre il suo sguardo perso errava disperato alla ricerca di ciò che non sapeva più trovare.
                    Per un momento si arrestò. Dinanzi la strada prendeva a restringersi ed a trasformarsi in un viottolo ripido e lubrico, che nel suo inerpicarsi lungo il colle, era sepolto dal fitto bosco di querce e cerri con le foglie ancora di ruggine, ma pronte a lasciare il posto al verzicare lussureggiante. Qua e là ginestre solari tatuavano di macchie dorate l’intera costa.
Col passo affaticato delle vecchie, si rimise in cammino simile ad   un automa, vacillando, nel salire, come se le avessero tagliato le caviglie. Più volte cadde, ma riuscì a rialzarsi, seppure con difficoltà crescente.
                    Sotto, intanto, si allargava la campagna luminosa e quieta. Distante il paese si raccoglieva in un fazzoletto ed i vetri delle finestre scintillavano al sole. Il fosso strisciava tranquillo, con gli alberi a corona, e a tratti mandava bagliori iridescenti.
                    Ma il panorama, pur nel suo fascino, non mandava messaggi amici. La donna era incapace di appropriarsene e farne motivo di reazione a ciò che stava subendo. E neppure si rendeva conto della stanchezza, né del dolore, nè del pericolo che la minacciavano. Nel suo comportamento irrazionale, in questa fuga dal tutto, aveva cancellato completamente la sua testa ed il suo intimo, ed anche il fisico non era più lo stesso: pareva non avesse più ossa, né carne, né gambe, né braccia e tanto meno occhi per discernere. Solo il respiro affannoso, in questo vano andare, le strozzava la gola.
                    La brezza, che seminava folate affabili, intinte di aromi, quasi carezze di velluto, si posava sul viso madido e pareva l’alito rinfrescante di un ventaglio di fronde. Ernestina beveva d’istinto quell’aria così buona, ma che non riusciva a darle la benché minima lucidità. E così continuò a spingersi sempre più su, nel vago cercare qualcosa di impossibile, finché non sentì sfuggirle il terreno sbrecciato sotto i piedi. Precipitò nel dirupo e quello scomposto rotolare e quello strisciare del corpo sembravano non finire mai. Ogni cosa le roteava intorno confusamente: cielo, alberi, rocce, cespugli… E la pelle prese a bruciarle dappertutto, mentre si lacerava e si tingeva di rubino.
                    Un grosso ciuffo di prunalbo, nella sua bianca veste intricata, dal profumo dolce-amaro, la trattenne, infliggendole con i suoi aculei nascosti altro dolore. Non le uscì dalla bocca, sporca di terra e sangue, alcun grido. Si accovacciò al “calcio”, raccogliendo le sue membra straziate.
Intorno il silenzio quasi assoluto era attraversato a tratti dal canto d’amore dell’allodola e, lontano, dal richiamo ossessivo del cùculo vagabondo. Qualche farfalla tremula delineava ricami colorati, divagando di fiore in fiore. L’aria continuava a giocare, bisbigliando attraverso il brivido dei rami, ed a chiamare a raccolta i mille odori della terra.
                    Ernestina, racchiusa nella sua voragine di confusione e di vacuità, non provò più a muoversi, quasi avesse trovato il punto di arrivo inconsciamente cercato.
                    E rimase lì a lungo, tanto che le ore, pur affaticate, se ne andarono ed il sole nel suo itinerare nell’etreo palcoscenico, cominciò a calare, stendendo un drappo rossastro sulla campagna, sulle case, sugli alberi, e si divertì a tratteggiare di tenerezza i contorni. Là, verso i monti del tramonto, pareva divampare un incendio immenso, fiammeggiante, incontenibile.
                    Poco dopo il cielo cominciò a sbiadire, divenendo azzurrastro e lattiginoso. L’aria si fece più chiacchierina nel suo arpeggiare tra le piante ed i cespugli. Ben presto il primo buio s’impadronì delle cose, lasciando un lontano chiarore sulle montagne ad occidente, lento a dileguarsi. Allora il firmamento non tardò a lacrimare di stelle, mentre una fetta di luna, un po’ erosa da un assolo di nuvoletta distratta, s’affacciò sulla terra ormai spenta.
                    Nell’oscurità immobile scese il silenzio più profondo, che durò fino al sopraggiungere quasi improvviso di voci concitate, di passi affrettati e di un abbaiare insistente di un cane: dapprima distanti e confusi, poi sempre più vicini.
                    Ernestina avvertiva questi rumori, che per lei erano insignificanti, mentre se ne stava rannicchiata ed ora invasa da un tremito incontrollato ai piedi del prunalbo.
                    Ad un tratto la luce violenta di una torcia l’abbagliò, il fiato tiepido e umido di un cane le scaldò il viso.
Qualcuno gridò: “E’ qui!… L’abbiamo trovata!… Venite!… E’ malconcia, ma viva”.
                    “Sia ringraziato il Signore…” si levò una voce nel buio.
                    Le furono appresso. Ella non si mosse e parve insensibile ed indifferente a ciò che le accadeva intorno. Borbottò alcune frasi sconnesse, nel frattempo che la sollevavano e la portavano in salvo.
Da allora rimase serrata nel suo nero ed aggrovigliato isolamento, nel suo recinto fatto di niente e di caos delirante, nel suo mare inesplorato, sconvolto, allucinante, lontana dalla realtà che prima le apparteneva, con un compagno, un solo compagno inseparabile a tenerla per mano ed a guidarla in questo viaggio nel nulla: Alzheimer.  


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Bart