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LETTERATURA: Ehi, Signore!

9 Marzo 2008

di Fabio Fracas

[Fabio Fracas è autore, editor e sceneggiatore. Oltre a racconti, libri e poesie scrive per il cinema, per il teatro e per i fumetti. Suoi brani e suoi lavori sono stati rappresentati in vari festival e da diverse compagnie. Ha ricevuto una serie di riconoscimenti letterari e nel 2004, assieme alla poetessa Federica Castellini, ha fondato MacAdam – MacAdemia di Scritture e Letture.]

Comunque, quella era una di quelle mattine in cui mi sentivo particolarmente stanco e nelle quali, solo pensando alla giornata che mi si prospettava davanti, sarei volentieri emigrato in un corpo lontano dal mio. Era un giovedì, non che fosse importante, è che era un giovedì e quindi seguiva il lunedì, il martedì e il mercoledì di quella stessa settimana che, in realtà, non era cominciata la domenica appena trascorsa, bensì ben due domeniche prima; e quindi quello era il terzo giovedì della stessa settimana che attendevo con ansia terminasse almeno prima della fine del mese. In quattro parole: non ne potevo più. Inoltre, in quel particolare momento, erano appena le 11.30 e io stavo scendendo a Venezia.

È ovvio che mi trovavo in stazione, ma se non è ovvio, posso tranquillamente affermarlo: mi trovavo in stazione, appena sceso dal regionale in partenza da Padova alle 10.55 e stranamente puntuale; e comunque quella era già la terza volta che scendevo dal treno. Non la terza volta durante la settimana, dato che, poiché era sempre giovedì, a rigore, sarebbe dovuta essere almeno la quarta (o, per le considerazioni di cui prima, la diciottesima), bensì la terza volta in quella mattinata, cominciata circa sei ore prima. La prima volta, erano le otto, ero sceso a Mestre (la stazione di partenza era sempre quella di Padova, abitando io da quelle parti) poi, verso le 9.40 ero ridisceso, la seconda volta, a Padova perché ritenevo stupido riuscire a fissare tre appuntamenti consecutivi uno a Mestre, uno a Padova e uno a Venezia, in un ordine tale, che so, da permettermi di svegliarmi un po’ dopo le 5.40, di sbrigare il primo lavoro a Padova, salire sul treno e arrivare a Mestre, per il secondo e, infine, comodamente, forse, prendere l’autobus fino a Venezia, per il terzo. Così avevo fissato il primo appuntamento – perché sa, proprio non mi è possibile – a Mestre, il secondo – guardi, non dipende da me: gli orari non li decido io – a Padova e il terzo – non si preoccupi: a me basta che arrivi per le 11.30, massimo 12.00 – a Venezia. Se mi fossi realmente impegnato, immagino che sarei riuscito anche a combinarli in maniera tale da dover essere al Lido di Venezia (sono altre due ore di viaggio, fra andata e ritorno) per le 5.40, a Padova per le sette e a Mestre, con comodo, per le 11.30; magari passando da Ferrara, che non c’entra niente ma è lo stesso, tra le nove e le 9.30. Sfortunatamente non ci ero riuscito.

Dicevo: stavo scendendo a Venezia alle 11.30 con la stanchezza di diciotto giorni e sei ore sulle spalle e con la certezza che le rimanenti ore di lavoro sarebbero trascorse, inesorabilmente, solo grazie a un tremendo sforzo di volontà quando alzai gli occhi al cielo; o almeno, nel luogo nel quale, a rigore, il cielo avrebbe dovuto trovarsi. Solo che non c’era. Al suo posto un muro compatto e minaccioso, di un accecante grigio plumbeo, si estendeva da oriente a occidente solcato qua e la da lunghe strisce antracite. Minuscoli punti lattiginosi lasciavano filtrare isolati raggi di luce biancastra e, nel complesso, se mi fossi trovato nel calduccio domestico, magari appena svegliato, e avessi aperto gli occhi su un analogo meraviglioso spettacolo, molto probabilmente li avrei prontamente richiusi.

Ora, per quei pochi sfortunati che non sanno assolutamente nulla di Venezia, vorrei aprire una breve parentesi: Venezia è un’isola. O meglio: quello che generalmente prende il nome di Venezia è un piccolo arcipelago formato da alcune isolette di diverse dimensioni. La più grande, o le più grandi, relativamente – se si considera il Canal Grande non tanto , come dice il nome, un semplice canale, quanto, come suggerisce la visione aerea della città riprodotta su tutti i manifesti e su tutte le piantine esposte sugli innumerevoli chioschi, all’interno dei locali e, occasionalmente nelle chiese, una profonda ferita, un taglio netto e insanabile che divide irrimediabilmente due universi contigui ma non continui che si affacciano sulle opposte sponde di un piccolo microcosmo acqueo serpentiforme – costituisce, oppure costituiscono, la città vera e propria. Una città galleggiante irreale e fuori dal tempo, meravigliosa nel suo isolamento, ancora troppo legata al mondo terrestre rispetto a quanto meriterebbe. Simbolicamente e materialmente dipendente dalla madre terra, e a essa legata, grazie al lungo cordone ombelicale che prende il nome di Ponte della Libertà; che, a ragione, rappresenta la libertà non per chi a Venezia ci arriva, e così facendo rimane prigioniero della sua atmosfera, dei suoi ritmi, del fascino delle sue attese, ma per chi da Venezia si allontana, riprendendo così contatto con quella realtà che già a Mestre, a Porto Marghera, lo attende. Bene, quell’atmosfera sospesa, cangiante di riflessi, si rispecchiava anche nel cielo di quella giornata e, nell’insie-me, contribuiva a concretizzare un’impressione di sogno lucido, di onirismo latente, che mi circondava e mi cullava come una nebbia troppo spessa.

Alzai il bavero del cappotto blu che indossavo, per ripararmi dal freddo e dalla pioggia; controllai che la sciarpa non lasciasse filtrare il minimo alito di vento tra il bavero stesso e il colletto della camicia, e di conseguenza fra quest’ultimo e il mio collo, e mi preparai per attraversare velocemente il tratto di marciapiede scoperto che correva parallelo al binario.

So che può sembrare inutile ma ci tengo a spiegare un qualcosa che, a una lettura frettolosa, potrebbe passare facilmente inosservato: a Venezia, ma la mia esperienza vale anche per altre grandi città, non tutti i binari sono serviti da pensiline atte al riparo dei passeggeri in caso di pioggia. Solo alcuni, fino al binario quattordici, ne dispongono; gli altri, dal quindicesimo in poi, ne sono vergognosamente sprovvisti. Vergognoso è l’aggettivo proprio perché il suo significato è duplice e univoco al contempo: così come chiunque si trovasse in mezzo alla folla e, improvvisamente, per una qualsiasi ragione, rimanesse completamente svestito – a patto che, naturalmente, non lo facesse abitualmente per professione e per gusto personale – così i binari a cui prima accennavo si sentono, o si sentirebbero se potessero farlo, nei confronti dei viaggiatori, dei turisti o anche dei piccioni, dei gabbiani e degli altri volatili che li fanno oggetto delle proprie attenzioni. E vergognoso è anche il fatto che ciò accada proprio a Venezia, nella stazione di Venezia, una delle città più visitate e trafficate d’Italia, non altrimenti raggiungibile a parte il minimo bacino automobilistico di Piazzale Roma, e quindi soggetta a un flusso ininterrotto di persone che cercano, nelle giornate come quella, di schivare inschivabili gocce color ruggine, accalcandosi, urtandosi e spingendosi l’un l’altro, in direzione della tettoia più vicina. Comunque, mi trovavo anch’io in quella situazione e, fra l’altro, dovevo arrivare al vaporetto che sarebbe partito da li a pochi minuti.

Mi adeguai automaticamente all’andatura degli altri passeggeri e, dopo aver mentalmente ripassato una lunga giaculatoria di improperi, mentre, infine, camminavo speditamente al sicuro della pensilina e poi lungo lo stretto budello che congiunge la parte estrema della stazione, quella, per intenderci, nella quale ero appena giunto, all’altra, quella centrale, dove invece sarei ragionevolmente dovuto arrivare, sentii quella voce. Era un suono al contempo dolce e acuto, ancora non pienamente formato, eppure squillante e deciso. Sembrava un trillo: un trillo lieto e modulato, in quelle circostanze decisamente fuori luogo eppure, proprio per questo, piacevole all’ascolto. La voce ripeteva, la stessa frase – Ehi signore! – ad intervalli di qualche secondo.

Ora, io non mi reputo particolarmente perspicace, eppure, così come io la stavo ascoltando, credo che la sentisse più di qualcun altro. Ciononostante, nessuno dava segni visibili al riguardo e tutti procedevano spediti per la propria strada fingendo di non udire quello strano richiamo. Così, io mi girai.

Mi girai e la vidi: era una bambina. Una piccola bambina bionda con i capelli corti e lisci e con un lungo soprabito marrone, stile Cappuccetto Rosso, che le lasciava scoperto solo il volto e, all’estremità opposta, un paio di minuscole scarpette, anch’esse marroni, vecchio stile. La piccola era sola, appena appena spaurita in quel flusso caotico di persone indifferenti che la avvicinavano e se ne allontanavano velocemente e, mentre ripeteva per l’ennesima volta – Ehi signore! – guardava nella mia direzione. Anzi, più precisamente, guardava me, che la stavo osservano un po’ smarrito.

Paradossalmente, infatti, ero sicuramente io quello dei due più disorientato: in un oscuro passaggio di una grande ferrovia, racchiuso fra due strati d’acqua sovrapposti, mi trovavo improvvisamente richiamato a qualche astrusa realtà da una piccola bambina sola, dotata di una voce disarmante e di uno sguardo troppo ingenuo, che mi agitava sotto gli occhi una rivista patinata. Per un attimo mi sentii catapultato in una favola surreale i cui personaggi sono convinti di essere persone reali mentre palesemente non lo sono.

– Ehi signore! – Disse ancora – è sua questa? – Realizzai che parlava del giornale. Il suo sorriso e l’aspetto esile contrastavano con l’utorevolezza della domanda e, nel contesto, le conferivano una dignità che avevo già visto altre volte in persone che, come lei, a volte etichettiamo come ‘sfortunate’ e che forse effettivamente lo sono. Non capivo: era impossibile che quella bambina viaggiasse da sola. O, almeno, speravo che così fosse.

Speravo, tra un – Ehi signore! – e un altro – Ehi signore! È sua questa? -, che non fosse da sola per almeno due motivi. E uno di questi, nel mio intimo, mi spaventava. Il primo, quello giusto, quello eticamente corretto, era che era indegno, e quindi teoricamente impossibile, che una bambina di quella età e in quelle condizioni fosse stata abbandonata a se stessa e spedita in treno a Venezia; a patto che, eventualmente, non ci fosse qualcuno a riceverla. In realtà, non era proprio possibile che qualcuno la stesse aspettando, visto che ci eravamo già allontanati parecchio dal treno e nel frattempo, non ne erano sopraggiunti altri. L’altro motivo, l’altro, era molto personale: se effettivamente la ragazzina – Ehi signore! – fosse stata sola, magari abbandonata, io, che cosa avrei dovuto fare?

Meglio non pensarci: agire d’impulso, a volte, può evitare problemi peggiori. – Ciao – Le dissi. Nient’altro che: – Ciao – La bambina piegò la testa sul lato destro, come se sentisse meglio con l’altro orecchio, e con gli occhi sorridenti rispose al mio saluto. – Signore, è sua questa? Era in treno – Il suo sguardo si era fatto più profondo. Semplice e profondo. Uno sguardo di quelli che ti scavano dentro e che ti costringono a fare altrettanto. Osservai la rivista: era effettivamente una tipica rivista da treno. Anche se era tenuta arrotolata, la lucida patina della copertina era chiaramente riconoscibile e anche l’augusto locomotore immortalato, con il muso siamese ammiccante, non lasciava più di tanto adito a dubbi. Certo, poteva anche trattarsi di una fanzine autoprodotta da un gruppo di fotografi appassionati e spendaccioni ma le probabilità erano davvero molto basse.

Mi ha sempre impressionato quel tipo di riviste: sarà perché, a tempo limitato e con mille difficoltà mi sono occupato, così come faccio tutt’ora, di piccole produzioni ‘letterarie’ analogamente destinate a gruppi scelti e limitati di lettori (riviste di computer, o di giochi di ruolo, la cui diffusione, nel secondo caso, è talmente scelta da sconfinare nell’invenduto) ma l’inutilità e l’opulenza di periodici come quelli comunemente rintracciabili all’interno delle carrozze ferroviarie di prima e seconda classe dei treni delle nostre ferrovie ha sempre sollevato la mia curiosità. Perché le fanno? L’ovvia risposta è: per farsi pubblicità. La naturale contro domanda è: perché? Per fare pubblicità alle ferrovie basterebbe che i treni arrivassero in orario e fossero tenuti in condizioni ‘umane’. La conclusiva contro risposta è: è vero. Ma in quel modo non spenderebbero così tanti soldi. Un coro greco, in un’ipotetica tragedia sofoclea, aggiungerebbe soltanto il silenzio.

Silenzio. Solo io e la bambina, un braccio sollevato, una rivista sui treni e la speranza di un etereo accompagnatore. – No, non è mia – Dissi. Ancora uno sguardo a destra, uno a sinistra e poi la consapevolezza che l’avrei aiutata.

Di preciso non sapevo cosa avrei fatto: forse l’avrei accompagnata al sicuro in sala d’attesa, poi mi sarei messo a cercare un uomo, una donna, una persona qualunque smarrita con l’espressione di uno o di una a cui è scomparsa una bambina. Oppure, con lei al fianco, ipotesi più ragionevole, sarei andato all’ufficio del Capostazione – tutti i Capistazione ne hanno uno da qualche parte – e lo avrei obbligato a diffondere un annuncio tipo balneare: Si avvisano i signori viaggiatori che è stata trovata una bambina, evidentemente non autonoma, con un lungo mantello marrone e gli occhi da cerbiatto, vicino al binario 14; chi l’avesse perduta è pregato di passare a recuperarla presso l’ufficio del Capostazione. Un pacco. Quella piccola, deliziosa bambina era diventata un pacco del quale qualcuno, nella mia immaginazione, si era distrattamente o volutamente dimenticato. E io l’avevo trovato.

Bene, cioè, male. Un passo ancora nella sua direzione, un abbozzo di idea nella mente, un urlo, lungo e preoccupato dalla destra. – Anna! – C’era. Finalmente era arrivata. Una donna minuta, di mezz’età, un viso ruvido sporcato da capelli color cenere. Una donna che, si intuiva, aveva dedicato più della sua vita a qualcun altro e che ora lottava, ringhiava e si dibatteva avanzando in mezzo agli altri viaggiatori come un cane che cerchi di recuperare il proprio osso. La propria bambina.

La ammirai; provai nei suoi confronti un arcobaleno di sentimenti che, non lo nego, sconfinarono nell’amore; non l’amore vero, sensuale, carnale, ma l’amore di specie: la sconfinata tenerezza che affratella tutti gli esseri viventi e che spinge alcuni animali a farsi carico dei piccoli orfani di altre razze. In un istante ripensai alle, alle mie titubanze, alle mie paure e mi sentii sprofondare dentro me stesso e poi nel passaggio ancora in ombra in quel giorno senza sole.

Sorrisi e mi avvicinai alla bambina che continuava a fissarmi. – Anna! – Ancora la donna. – Allontanati, vieni qui. Gente cattiva! –

La odiai. È difficile dire quello che provai realmente, ma credo che esternamente sviluppai un calore pari solo al turbinio delle mie diverse emozioni. Gente Cattiva! E mi indicava. Non era un’offesa nei miei confronti: io per lei non esistevo; era una difesa costruita con tenacia e con disperazione nei confronti del mondo. Di tutto il mondo, al quale però an-ch’io appartenevo. Mi sentii solo, tradito; tutti i miei propositi e le mie certezze mi caddero ai piedi. Non solo avevo perso il vaporetto, avevo perso la mia umanità. Rimasi imbambolato un secondo di troppo senza riuscire a scuotermi o a capire cosa avrei dovuto fare.

– Anna, vieni qui! – Ripeté – Dai la manina! – Allora successe. Una cosa normale. La bambina sollevò sì la mano, come le aveva detto la donna, ma la tese nella mia direzione con un gesto di tranquillo abbandono.

Adesso non ero più io che dovevo preoccuparmi per lei, era come se lei si stesse preoccupando per me. Il mio viso doveva aver tradito le mie vere emozioni e la tristezza per le parole della donna, probabilmente sua madre, era affiorata talmente in superficie da essere palesemente notata. Notata da quella stessa bambina che credevo di dover aiutare e che invece mi stava incitando a scuotermi e lo faceva con la semplicità e la forza che solo i più piccoli sanno dimostrare.

Non ci misi molto, allungai a mia volta la mano e strinsi le sue dita infreddolite mentre, per tranquillizzare la madre, mi giravo nella sua direzione e cominciavo a camminarle incontro. Erano pochi metri ma ci volle un’eternità per percorrerli. Io non dissi niente e nessun ulteriore – Ehi signore! – accompagnò il nostro tragitto. Quando gliela riconsegnai – o meglio: la piccola mi lasciò andare – quella donna minuta che mi aveva urlato contro non trovò il coraggio di sollevare la testa dal fagottino marrone che stava abbracciando e io, sinceramente, smisi di odiarla e cominciai a capirla. – Anna – Dissi mentre la bambina mi osservava curiosa con il braccio ancora sollevato – Il giornale non è mio. Puoi tenerlo – Anna non rispose ma una piccola immensa felicità le nacque sul viso e, così come dopo aver appena terminato un libro, solitamente, lo si torna a riporre sullo scaffale, così lei archiviò nel suo cuore il nostro incontro e tornò a concentrarsi solo sulla madre.

Oggi non è più giovedì, io mi sono appena svegliato e forse ho dormito anche un po’ più del solito. Sto preparandomi per uscire e fuori, sul terrazzo di casa, un piccolo terrazzo qualunque ornato da qualche pianta ingombrante, il sole sta giocando a rimpiattino con le ombre dei fiori. Tra poco andrò in stazione, come quasi ogni giorno prenderò un treno diretto a Venezia, rientrerò in quell’isola di luce e silenzio e come quasi ogni giorno scenderò dal treno già stanco. Però, come già da qualche mese mi accade, mentre camminerò nel passaggio mi sembrerà di sentire quella strana sirena che ripete – Ehi, signore! – E, come sempre, sorriderò. Tra parentesi, l’ultima, ogni volta che capita c’è qualcuno di quelli ex-distratti che mi guarda male.

[Il racconto “Ehi, signore!” è stato portato in teatro, per la prima volta, nel 2005 nell’ambito della rassegna “Suoni e Narrazioni” inserita nel calendario delle manifestazioni del “Maggio thienese”.]

Letto 1855 volte.


2 Comments

  1. Commento by Carlo Capone — 9 Marzo 2008 @ 10:09

    Hei, Fabio, ti ricordi di me?
    Un saluto e un bravo per questo racconto che ti prende a poco a poco.

    Carlo

  2. Commento by Fabio Fracas — 9 Marzo 2008 @ 18:01

    Ciao Carlo, certo che mi ricordo di te! Mi fa molto piacere ritrovarti anche fra queste pagine e ti ringrazio per il tuo commento a questo mio piccolo lavoro di qualche anno fa. Un caro saluto e a presto,

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