Letteratura: Omphalos
12 Marzo 2008
di Vittorio Baccelli
[Alcuni suoi libri: “Storie di fine millennio”, “Mainframe”; “Cinq et quarante”; “Scaglie dorate”]
La mente di Rudra, forte e agile,
percorre consapevolmente le strade antiche.
(Veda)
Pierre sta tornando alla propria abitazione dopo una festa tra amici, in auto con lui c’è Erminia una sua vicina di casa che era stata anche lei invitata.
A lui l’Ermina piace assai e non da ora, ma da molto tempo; nel quartiere però non c’era mai da beccarla, in casa aveva sempre i genitori o il fratellino o delle amiche, fuori poi c’era costantemente qualcuno che l’accompagnava.
“Averla trovata da sola a casa di conoscenti è stata proprio una fortuna – lui sta pensando- poi è stata lei a chiedermi d’accompagnarla, stasera proprio me la faccio, già da tempo la ricopro d’avance e lei non si è mai tirata indietro, solo che non ha mai voluto prendere appuntamenti; lo sapeva, se usciva con me, me la sarei cucinata alla grande e, ora il momento è giunto”.
Prima di arrivare nel loro quartiere, Pierre s’apparta in un prato con la scusa dell’ultima sigaretta.
Più tardi sono nudi nell’abitacolo, autoradio accesa, quando il freno a mano si sgancia urtato dal movimento ritmico dei loro corpi.
L’auto comincia pian piano a scivolare lungo il prato che è in discesa, senza che i due se n’accorgano, presi come sono dalle loro effusioni e con i sensi intorpiditi da qualche bicchiere di troppo misto al fumo e ad altre spezie.
C’era, infatti, un sacco di roba buona a quella festa e tutti n’avevano un po’ approfittato.
In silenzio e senza scosse l’auto acquista velocità e il prato termina con uno strapiombo di un centinaio di metri o forse più: Pierre lo sa perfettamente ma in questo momento è troppo occupato per riflettere.
Adesso sta succhiandola proprio nel bel mezzo delle gambe ed è proprio a questo punto che comincia a rendersi conto che c’è qualcosa che non va.
Il prato intanto è finito e il muso dell’auto s’innalza, mentre le ruote posteriori sono già sospese nel vuoto.
Lei tra un orgasmo e l’altro è troppo presa per accorgersi di qualcosa ma Pierre vede il vuoto dai finestrini e la sensazione di precipitare lo coglie del tutto impreparato.
Trattiene il respiro mentre aspetta l’impatto e il terrore della morte imminente lo coglie all’istante avvolgendolo come un sudario.
~ ~ ~
I ricordi di Pierre al momento non sono per niente chiari mentre si ritrova in piedi circondato da una fitta nebbia.
“Ma da dove cazzo è uscita fuori tutta questa nebbia?”si chiede mentre lì fuori non si vede a più d’un metro di distanza e non riesce a capire dove sia mai capitato.
Cerca di ricordare ed è sicuro che si trovava in macchina con una donna, è anche certo che stava scopando, ma poi che sarà successo?
Cerca di richiamare alla mente il volto o il nome della donna, ma la memoria gli sta giocando dei brutti scherzi: quando s’accorge che non ricorda neppure il suo nome, ha un attimo di smarrimento.
“Qualcuno deve avermi dato una botta in testa, siamo forse stati aggrediti?”
Chiede alla nebbia che lo circonda sempre più spessa, avanza a piccoli passi, con le mani in avanti e dopo poco trova una parete liscia, è di pietra.
Ci gira attorno strusciandola e s’accorge che non è una parete, ma una colonna a base rettangolare. Di pietra.
Avvicina gli occhi e la lastra è grigia, levigata ma con molti forellini come il travertino.
Si mette in ginocchio e osserva il terreno: è un pavimento in pietra, forse la stessa della colonna.
Se qui è tutto di travertino, si sta chiedendo dove possa esser capitato. Cerca di far mente locale, ma nulla: nebbia profonda anche nella sua mente. Non ricorda assolutamente niente né chi sia né come si trovi lì: che diavoleria sarà mai questa?
Avanza ancora a tentoni con attenzione tenendo le mani ben distese in avanti. Procede a piccolissimi passi e ora avverte coi piedi uno scalino, per un pelo non cade.
Lo scende, in terra percepisce la presenza di piccoli sassi, si china e li tocca. Con cautela avanza e sente qualcosa di duro, di solido, lo tasta con le mani: è freddo metallo.
Una lunga sbarra di acciaio poggiata sul suolo, va avanti e ne trova un’altra esattamente uguale, parallela.
Ora comincia a capirci qualcosa, queste sono due rotaie d’un treno. Si trova nel bel mezzo delle rotaie in una stazione ferroviaria, ecco perché le colonne e il pavimento sono di marmo o travertino.
Si toglie velocemente dai binari e risale lo scalino. Fa altri cauti passi finché non trova un nuovo manufatto in pietra. Ci sbatte dentro, impreca mentre si massaggia uno stinco dolorante.
Segue con le mani i bordi del manufatto e si accorge che è una panchina in pietra, della stessa pietra.
Si siede, la superficie della panchina non è fredda al tatto come la colonna o il pavimento, questa è tiepida e si sente riavere da questo tepore, tutto intirizzito e bagnato dalla nebbia com’è.
Ora è proprio convinto di non essersi sbagliato, questa è una stazione ferroviaria con le colonne, il pavimento, le panchine di travertino, solo che questa maledetta nebbia non gli fa vedere una mazza. Ma lui ormai è seduto su una superficie calda e decide di aspettare che la nebbia si diradi un po’ per capirci qualcosa.
Si sente molto stanco e si sdraia sulla panchina, in breve passa dall’apprensione al sonno.
Quando si risveglia la nebbia s’è un po’ diradata e ora si vede fino a tre metri. Si guarda intorno ed è proprio certo di trovarsi in una stazione, c’è tutto anche le rotaie, prima o poi un treno dovrà pur passare, si dice fiducioso.
Un’ombra s’avvicina nella nebbia, finalmente ecco un passeggero. È un signore sulla trentina vestito di nero con un cappello tipo Borsalino in testa, solo che la tesa è molto, ma molto più larga del dovuto di almeno tre volte.
Come un sombrero, ma è un Borsalino, che buffo! Accanto a lui c’è una ragazza con maglia nera a collo altro senza maniche e porta una minigonna rossa, calze nere, scarpe nere. La osserva attentamente sicuro che in lei ci sia qualcosa di sbagliato, ma non capisce cosa, allora si rivolge all’uomo e gli chiede che stazione sia mai questa.
Lui scuote la testa restando in silenzio a guardarlo. Si rivolge quindi alla ragazza, ma neppure questa spiccica una parola. Resta poi interdetto a fissare la sua minigonna che adesso è divenuta nera come il maglione.
Le chiede “Ma la tua sottana non era rossa?” lei seguita a guardarlo e a non rispondere, lui esplode: “Ma cazzo, dov’è un’uscita?”
In silenzio entrambi indicano una direzione alla sua destra, parallela alle rotaie. Lui ringrazia e quando inizia ad avviarsi nella direzione indicata s’accorge che la minigonna è tornata di color rosso. Scuote la testa, fa un cenno di saluto e procede con cautela anche se la visibilità è nettamente migliore rispetto a qualche minuto fa.
Arriva in un salone ampio come un piazzale che è del tutto deserto. Ai lati rivendite chiuse da saracinesche a maglie. S’avvicina a una di queste e guarda dentro: non c’è anima viva, solo giornali e riviste accatastate, libri e stecche di sigarette, tutto però sembra abbandonato da molto tempo. Una luce fioca e tremolante illumina malamente questo negozio chiuso, ma tutto è ammucchiato come se si trattasse d’un magazzino dove la merce è stata buttata dentro in tutta fretta assieme alla spazzatura e senza alcun criterio.
Oltre i negozi c’è un grande portale, sicuramente è l’uscita, lui infatti si dirige in quella direzione ed esce all’aperto.
Tutto sembra deserto anche se la visibilità è ancora migliorata e si riesce a vedere fino a una ventina di metri di distanza. Alza la testa e guarda la facciata della stazione, a grandi lettere c’è una scritta in alto, sicuramente quello sarà il nome della località.
Grosse lettere nere attaccate alla facciata dicono ~ LUD ~ e più sotto con lettere molto più piccole ~ omphalos ~
Resta sconcertato davanti al nome, anzi ai due nomi. Pensa che dev’essere come “Roma” e poi sotto più piccolo “centrale”, ad indicare che la città ha più stazioni. È sicuro che il secondo termine sia in greco, allora forse si trova in Grecia, ma la Grecia non è la sua nazione, di questo è certo, la sua nazione è l’Italia. È altrettanto certo che non ha mai sentito nominare una località con questi nomi. Si siede su uno scalino di fronte alla stazione e, seguita a pensare e ricorda che la lingua greca lui un po’ la conosce, ricerca allora nella sua memoria il significato della parola omphalos, infine gli giunge la risposta, significa “punto nodale” e anche “ombelico” e pure luogo d’incontro e di convivialità. Comunque qui sembra tutto abbandonato e in quanto a luogo d’incontro fin’ora ha incrociato solo quei due, lui col cappello stravolto e lei con la gonna cambia colore. Scarta dunque il luogo d’incontro, convivialità poi te la raccomando e resta ombelico: ma certo è questo l’ombelico della città, il centro di LUD; la similitudine iniziale che aveva fatto con Roma Centrale, calza a pennello.
Proprio mentre è immerso in questi pensieri un nero in canottiera si fa avanti.
Senta, potrebbe dirmi dove ci troviamo?
Alla stazione cocco!
Sì, ma di quale città?
Non sai leggere?
So leggere, c’è scritto LUD e poi sotto omphalos, ma se questo è il nome io questa città non l’ho mai sentita nominare.
Il primo è il nome della città, quello sotto è quello della stazione. Tra l’altro le due scritte sono ricomparse da poco sul grande edificio dopo una lunga cancellazione. Contemporaneamente la realtà tutt’intorno s’è irrimediabilmente distorta.
Non credo d’aver capito bene.
Qui c’era scritto Lud e, nel centro omphalos dal grande slargo.
Senta noi parliamo la stessa lingua: l’italiano no? Nonostante questo io stento a capirla: mi dica solo che diavolo di città è questa.
Siamo a Lud, straniero. Comunque Kurt Sethe, il traduttore dei testi delle piramidi identificò la pietra bemben con la sacra pietra cosmica dei greci e dei siriani, l’omphalos o beatylos, secondo il termine usato dagli storici per indicare una pietra sacra con attributi cosmici. Cuzco è l’antica capitale dell’Impero Inca. Il nome, dal quechua, significa: centro, ombelico, omphalos.
Si ammutolisce di colpo, Lud è un nome che comincia a dirgli qualcosa. C’è un antico scrittore che l’ha descritta e questa città non si trovava sicuramente in una dimensione normale, ma in un’altra ove il tempo era andato a puttane. È certo di non sbagliarsi e anche contento perché i ricordi cominciano a riaffiorare. Ora è persuaso che tra non molto ricorderà il suo nome, con chi era e come è giunto fin qua.
Un dubbio lo coglie, Lud è allora una città immaginaria, frutto della fantasia d’uno scrittore. Sta per formulare al nero altre domande, ma lui è sparito, è di nuovo solo in mezzo alla piazza, la piazza della Stazione di Lud, della quale non riesce ancora a veder bene i suoi lati, lambiti sempre da quella nebbia che lentamente va scomparendo. È sempre seduto sullo scalino e cerca di farsi venire in mente tutto ciò che ricorda di quella città; s’alza all’improvviso, ora rammenta, in una realtà altra al posto di New York c’era Lud! Si doveva attraversare una sottilità per giungerci…
Ma poi è questa Lud? Lui in America non c’è mai stato, è più facile che qualcuno l’abbia aggredito quando scopava in macchina e questo è il risultato di una bella botta in testa.
Una strana auto è parcheggiata a lato della piazza. S’avvicina al mezzo ma è molto più lontano di quanto avesse valutato. Quando c’è vicino vede un autobus che mai aveva sognato, fatto come un pullman, ma alto almeno il doppio, largo tre volte tanto è lungo un centinaio di metri. Di color grigio, niente ruote, poggia direttamente sull’asfalto, anzi sembra proprio che solo lo sfiori. Niente finestrini, niente aperture. Ci gira intono stupefatto, dal mezzo esce un sordo ronzio di motore acceso. Bussa ripetutamente nella carrozzeria, ma non succede niente. Niente targa sul retro e neppure su quella parte che sicuramente è il davanti del mezzo, ma proprio dove dovrebbe esserci un radiatore c’è una placca di metallo lucido con su scritto “AZHUL ®”.
Di certo l’azienda produttrice e prosegue la sua camminata verso il lato opposto della piazza, ormai ha la facciata della Stazione alle sue spalle. Va avanti in linea retta lungo una strada che s’inoltra tra strani edifici, alte torri la cui sommità è ancora coperta dalla nebbia. Le sensazioni non sono delle migliori, i muri che delimitano gli edifici sembra che abbiano freddo e alzando gli occhi al cielo si vedono file di finestre vuote che ricordano occhi privi di pensieri. Alcune torri non hanno aperture d’ingresso evidenti, altre non hanno finestre e s’innalzano come assurdi silos, in lontananza alcuni edifici sembrano esser trasparenti.
Mentre procede nel suo cammino senza incontrare anima viva, la nebbia sparisce del tutto: la città è vuota, il cielo plumbeo, il silenzio opprimente. Lui che continua a non ricordare il proprio nome si chiede che cazzo di città sia mai questa.
Una città vuota, deserta e abbandonata, sta camminando da ore e ha incontrato solo tre persone, neppure un veicolo in movimento, ma dove sono finiti tutti gli abitanti?
Prosegue e in lontananza tra le incongrue torri vede stagliarsi due edifici ben conosciuti. Stenta a crederci ma, man mano che s’avvicina è certo di non essersi sbagliato. Si dice che questo è veramente impossibile, ma poi si riprende “come se tutto il resto fosse normale”.
Sono le torri gemelle, inequivocabilmente sono proprio loro o una copia esatta e, sono integre non si sono afflosciate come le altre portandosi dietro i propri abitanti, queste non hanno mai subito l’attacco del folle islam.
Si siede tra le erbacce d’un marciapiede e guarda il cielo sopra le torri: lattiginoso con frange luminose simili a quelle dell’aurora boreale. Un incubo, è certo ora di vivere in un incubo, dove sono finiti tutti? Dov’è finita la sua realtà?
Ma davvero qual è la sua realtà, sente che deve fare al più presto mente locale, le torri gemelle sono state distrutte da un attentato un centinaio d’anni fa: questo c’è su tutti i libri di scuola. In questa città ci sono dei pezzi di New York e non può essere Lud che è una città generata dalla fantasia d’un autore classico delle passate generazioni.
Lui sa d’abitare in una città d’Italia di cui non ricorda il nome e sa di non essere mai stato a New York. E allora, cosa ci faccio qui a Lud, si chiede con ridondanza ossessiva, si sente chiuso in un circolo vizioso, un loop irrazionale che l’ha avvolto nelle sue spire e non vuol mollarlo.
Da’ un’ultima occhiata al profilo delle torri gemelle, s’aspetta di vederle tremolare di riconoscerle come un rassicurante ologramma, o un miraggio, ma loro permangono vivide, concrete. Evita d’avvicinarsi ulteriormente al fantasma delle torri e svolta sulla destra camminando su un marciapiede d’una ampia strada. I soliti strani palazzi senza aperture al piano terra e senza finestre, ai lati del marciapiede piccole montagnole di ruggine, residui forse di mezzi abbandonati da secoli.
Giunge in una piazza circolare, al centro è stata eretta una piramide fatta di detriti. S’avvicina e a mezza strada resta paralizzato, i detriti sono resti umani: una catasta di teschi semisfatti, ecco con cosa era stata eretta la piramide.
Torna sui suoi passi correndo all’impazzata, si ferma ad un angolo appoggiato a un muro per riprendere fiato: quando si è calmato un po’ si guarda attorno, accanto a lui c’è un chiosco vuoto semidistrutto. Tra pezzi di plastica e macerie scova alcuni fogli di giornale. Li prende in mano, non sono fatti di carta, sembra più una sottile lamina metallica. Cerca di leggere cosa c’è scritto, ma le colonne sono tutte in cirillico o in un alfabeto svolazzante, simile all’arabo, ma non è arabo, ne è sicuro. E forse questa è una fortuna per la sua già precaria sanità mentale, perché se conoscesse il linguaggio svolazzante, o quello che crede cirillico, ma cirillico non è, leggerebbe che l’intero mondo è stato colpito da una forma influenzale d’un ceppo modificato sfuggito da qualche laboratorio di ricerche d’armi biologiche. Un virus con nanomeccanismi incorporati capace di riprodursi integralmente e anche d’evolversi: morale della favola i morti nelle strade del mondo si raccattano con le ruspe e la malattia mortale ha un percentuale di guarigioni molto vicino allo zero percentuale. Se poi riuscisse a leggere la data, sicuramente non potrebbe dirgli niente: 2 marzo 7832 a.R.R.
C’è una sola colonna scritta in caratteri romani e non è in inglese come lui s’aspettava, ma in italiano:
Se fossimo sulla strada giusta, rinunciare sarebbe la disperazione senza limiti, ma poiché ci limitiamo a percorrere un sentiero che ci conduce a un secondo sentiero e poi a un altro e via di seguito, e dal momento che non imboccheremo mai la strada giusta prima che sia trascorso molto tempo e forse mai, e siccome in tal modo siamo assolutamente consegnati all’incertezza, ma anche alla molteplicità, inconcepibilmente bella, la realizzazione delle speranze è vana. (Kafka).
Ricorda d’aver letto molto tempo fa “Le metamorfosi” di quest’autore, ma figuriamoci se può mai venire un aiuto da un autore di questo tipo. Il resto dei fogli è illeggibile per questo appallottola il giornale e s’appresta a scalciarlo con rabbia. Ma dopo che lui l’ha appallottolato e lo lascia andare il foglio velocemente si riapre e il suo calcio colpisce solo dei fogli svolazzanti che ricadono sulle sue scarpe. Solo allora s’avvede che nel bel mezzo della strada c’è una giovane donna nuda, ferma e che lo sta osservando. Ecco la quarta persona, affollato questo posto! È immobile a una ventina di metri da lui, si fissano. Lei è bionda, capelli lunghi, labbra molto rosse, pelle bianchissima. È lei che rompe il silenzio e gli rivolge delle parole in una lingua sconosciuta. Lui scuote il capo e le fa capire che non ha compreso un mazza. Lei allora inizia con una cantilena altrettanto incomprensibile.
“Non capisco un cazzo bellezza!” Lei si cheta come se riflettesse e continua a rimanere immobile. Lui invece è sempre più perplesso per questa presenza: che senso ha una donna nuda dall’aspetto provocante nel bel mezzo d’una città morta? E se questa fosse una trappola?
Restano ambedue ancora immobili per molti minuti poi lui comincia con le domande: “Chi sei? Cosa ci fai nuda in mezzo alla strada? Che cazzo di posto è mai questo? Dove sono capitato? È forse una trappola? Tu ci capisci qualcosa?”
Lei è sempre immobile ma sta ascoltando, infine apre la bocca e parla: “Chi pensa per un periodo di tre ore alla divinità desiderata, se la vede senza dubbio direttamente davanti, trascinata dalle parole di Rudra”.
Lui la guarda ancor più perplesso e:
Hai imboccato il file giusto, quello dell’italiano, ma il senso è tipico dei neuroni che ciottolano: che stai a dire?
Selezionato lingua giusta?
Sì, ma che sei un computer? Rispondi comunque alle mie domande.
Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato.
Andiamo bene bambola! Cristo! Questa qui s’è fritta il cervello. E s’è fritto pure il mio, dimmi, questa è una friggitoria di cervelli?
Io sono aurora e già il tramonto / dice su me che il giorno è per finire / non sono ancora nata e già morire / io devo al tempo che ha invertito il conto.
Resta fermo, annichilito da questi versi. Anche lei tace, si fissano immobili. Poi per un attimo la sua immagine tremula, si scompone in milioni di righe verticali al terreno, per poi ricomporsi. Torna immobile e dopo qualche minuto il fenomeno della suddivisione si verifica ancora una volta. Non è reale, è un’immagine, un’olo proiettato…
Si avvicina a lei che resta immobile, con una mano le tocca il viso anche se è sicuro che incontrerà solo l’aria. Invece lei è consistente, tiepida. Le passa le mani sulla sua pelle serica mentre lei si ritrae leggermente come se le facesse il solletico. Sorride, per la prima volta sorride. Le accarezza i seni, le domande sono lasciate senza risposte, per ora almeno.
La prende delicatamente per mano e “Seguimi” lei docile s’incammina al suo fianco. Inizia a camminare nella stessa direzione, vuol giungere in periferia, forse vuole uscire dalla città. Desidererebbe entrare dentro un edificio, ma non se la sente, neppure con la ragazza per mano. Lei non è sicuramente umana, è un programma forse senziente, ma sicuramente un programma.
Camminano tenendosi per mano, lenti ma costanti e ormai Lud è alle loro spalle, davanti a loro spuntano campi infestati da cespugli spinosi, alberi malaticci e vegetazione rada. Più avanti la strada si fa più stretta e non asfaltata mentre i lontananza si scorgono cavalcavia sbilenchi e semidistrutti.
Tra l’erba brillano cocci di vetro, montagnole di detriti d’ogni materiale e chiazze di ruggine.
Lei gli indica un’altura poco distante e la strada va proprio in quella direzione. A una ventina di metri da loro scorgono dei movimenti trai cespugli, si fermano: lei in attesa, lui profondamente turbato. Con un balzo in avanti una grande figura si mostra, lui resta pietrificato. È una bellissima tigre bianca che li fissa coi suoi grandi occhi rossi. Resta meravigliato da tanta bellezza, ma pensa anche che saranno mangiati in due bocconi, poi si corregge, io sarò mangiato in due bocconi, non credo che il software sia di suo gradimento alimentare.
La ragazza resta immobile e sembra che stia organizzando qualcosa, intanto altre tre gigantesche tigri bianche che erano acquattate nella radura, adesso si mostrano. All’improvviso attorno a loro due sorge una sottile barriera energetica a forma di semisfera, ecco cosa stava cercando di fare la ragazza, o l’olo, o quello che diavolo è. A lui comunque è stata salvata la vita e i gattoni se ne stanno alla larga dalla barriera, forse ne conoscono già gli effetti.
Le tigri si sdraiano sul terreno e li fissano a lungo, poi tutte assieme pigramente si alzano e si dirigono verso la città, hanno ormai perso ogni interesse nei loro confronti.
La barriera si squaglia e riprendono la loro passeggiata verso le colline. Raggiungono uno spiazzo verde al centro del quale vi è un cerchio d’una decina di metri con la circonferenza disegnata da pietre bianche allineate una accanto all’altra. Lei entra e si siede per terra proprio nel mezzo, entra pure lui e si sofferma a guardare le pietre: sono tutte incise con segni simili alle rune. Ne prende una in mano e cerca di sollevarla, ma questa non si sposta d’un millimetro, pare cementata al suolo e alle altre, c’è infatti, una corrente magnetica che lega le pietre le une alle altre e il cerchio nel suo complesso al territorio. Se vorremmo approfondire la cosa scopriremmo che il cerchio è intimamente legato al territorio e il territorio al pianeta, il pianeta al suo sistema solare e, questo alla sua galassia, la galassia all’universo e questo agli altri universi e, oltre non so andare ma sicuramente c’entra anche il quando e l’altrove.
Nello spazio delimitato dal cerchio di petroglifi l’aria è lievemente più calda e non c’è un filo di vento. Fuori dal cerchio una leggera bruma s’innalza, ma all’interno si ha l’impressione d’esser protetti, lui si sdraia e chiude gli occhi. Sente che sta per assopirsi, la donna e il cerchio lo proteggono, pensa che quando si risveglierà nella sua casa, nel suo letto, penserà “Ma che strano sogno ho fatto”. Le sue palpebre si fanno sempre più pesanti. Anche lei ora sdraiata a fianco a lui ha socchiuso gli occhi, forse avrà bisogno di rilassare i circuiti. All’interno del cerchio l’aria sembra farsi sempre più densa e l’energia che si sprigiona acuisce il senso di protezione e di sicurezza: per la prima volta da quando tutto è iniziato, lui si sente rilassato, anche la fame e la sete che a tratti lo tormentavano, adesso si sono spente. Desidera solo un sonno ristoratore e si lascia andare in piena sicurezza. Dal sonno scivola nel sogno. Sta sognando protetto dal cerchio magico di pietre bianche, la sabbia attorno a lui si fa morbida e avverte la presenza amica della ragazza, o meglio del simulacro di ragazza che forse va ricaricandosi. Sta volando, è a cavallo d’un uccello del tuono, una gigantesca aquila magrissima, quasi uno scheletro coperto di piume. È uno strano crepuscolo con due deboli soli all’orizzonte. Sente il vento sibilare mentre l’uccello del tuono plana e poi s’innalza. Sta girando attorno ad una grande e alta torre fatta di legna accatastate. L’uccello ora sfiora l’estremità dell’immane pira e solo adesso lui s’accorge che non è composta di legname, ma di ossa. Ossa umane e d’animali enormi, teschi e bucrani con le orbite vuote guardano verso di lui e nel nulla. L’uccello seguita a girare attorno alla torre con movimento elicoidale, salendo e scendendo, lui non lo guida, è solo afferrato spasmodicamente al suo collo, con gli occhi sbarrati, lo stringe più forte che può per non cadere. Sa dove si trova, in un mondo adiacente a quello reale. Altri uccelli del tuono in lontananza sono impegnati in folli giri. Gli uccelli del tuono guardano con diffidenza gli umani, in ere passate alcuni sciamani li cacciavano: dalla decomposizione del loro corpo resta solo un osso della consistenza di una pietra, a forma di cuore: la pietra aquilina. Questa pietra è capace di far risuscitare i morti, così almeno narrano i sacri testi. Per questo erano cacciati, per questo loro si guardano dagli uomini e hanno chiuso tutti gli accessi al loro mondo. Ma allora come mai lui si trova qui? Perché è un sogno, solo un sogno.
L’uccello è giunto in cima alla torre d’ossa e s’incrocia con altri suoi simili con voli acrobatici, poi scende giù in picchiata emettendo forti stridii che accapponano la pelle all’uomo. La torre sorge in vetta ad un colle, ma forse è una montagna perché più in basso si scorgono solo nubi. L’uccello del tuono scende ora rasente al declivio verde costellato d’aguzze pietre e di chiazze bianche, forse neve o ghiaccio. Scende ancora più in basso e le macchie bianche si trasformano in animali dalla pelliccia nivea: le tigri, ma queste molto grandi e con due denti a sciabola. Le tigri seguono il loro volo a passo di trotto. L’uccello del tuono plana e si ferma a poca distanza da una tigre bianca che subito s’immobilizza. Sono ora fermi, a terra. L’uccello s’accuccia e se lo scrolla di dosso. Lui si ritrova disteso nell’erba con la tigre a una cinquantina di metri che lo fissa pur rimanendo immobile, accucciata ora come un enorme gatto domestico. L’uccello si alza in volo e lui guarda preoccupato la tigre che però sembra ignorarlo. In terra tra le pietre e i ciuffi d’erba c’è della cenere. Lui raccoglie un ramo secco e rovista nella cenere perché ha visto qualcosa luccicare. Tra la cenere smossa trova una moneta d’oro, una sterlina inglese e un sasso dalla forma di cuore, grande come una pallina da ping pong. Pulisce prima la moneta e se la mette in tasca, poi prende la pietra la strofina, la stringe in mano, ne è sicuro, questa è una pietra aquilina! Mentre è assorto in queste operazioni la tigre bianca, che solo in apparenza sembrava svogliata e distratta, spicca un balzo verso di lui e gli è quasi addosso con le fauci aperte e i due denti a sciabola che brillano riflettendo i due deboli soli rossi. Lui all’improvviso si risveglia indolenzito e impaurito, congelato dal freddo come se veramente avesse volato sulle montagne in groppa ad un uccello del tuono. L’aria calda del cerchio lo conforta, la sua mano destra è stretta con violenza e in mano si ritrova la pietra aquilina. Si alza in piedi con le gambe tremanti e estrae dalla tasca la sterlina, anche la ragazza ora è in piedi e lo fissa interrogativa.
Cavalcavo un uccello del tuono.
I cerchi di pietre proteggono e donano sogni premonitori.
Finalmente parli coerente, chi sei o cosa sei?
Ero l’aidoru, molto tempo fa, le memorie pian piano stanno riaffiorando, dammi tempo.
Spero che ti tornino, perché le mie non so proprio dove siano finite. In quanto al tempo non so se di questo n’avremo. Forse il nostro tempo è già scaduto.
Da troppo vago attorno a Lud e ho perso il contatto coi desideri.
Che significa?
Un tempo ero la realizzazione del desiderio e prima ancora ero la personificazione d’una razza.
Seguito a non capire.
Il desiderio mi faceva viva, mi dava forza e immagine, poi mi sono proiettata in molti luoghi. Una me, qui è rimasta. Ci sono esseri umani a Lud, pochi ma ci sono. Si sono incrociati con demoni e non hanno mai voluto che mi avvicinassi a loro. A Lud ci sono palazzi e oggetti che vengono da dove tu provieni, da New York.
Non vengo da New York, ma le due torri esistevano del mio passato.
Ci sono tanti dove e quando, forse troppi. Parlami del tuo viaggio, come sei giunto qui?
Ero con una ragazza, non ricordo il suo nome ma aveva un volto simile al tuo, facevamo sesso, in auto mi pare, subito dopo rammento d’essermi trovato nel bel mezzo della Stazione Ferroviaria di Lud, tu come hai fatto a cacciarti qui?
Mi sono ritrovata prima a Hurruh, ma ero da qualche altra parte, i ricordi sono ancora confusi. Ho memorie di Tokyo in epoche diverse, prima ancora vedo carovane che si spingono trai monti e monaci con gli occhi a mandorla, ma tutto è molto disordinato.
Questa pietra la conosci?
È una pietra aquilina, la pietra che dona la vita: tu come l’hai avuta? Sei uno sciamano?
L’ho avuta in sogno. Proprio poco fa. Non credo d’essere uno sciamano.
Sei un dio, allora?
Che ti va di scherzare? Penso d’essere solo un uomo, smemorato per giunta. Non so come sono capitato qui e non so neppure come mi chiamo. Tu un nome ce l’hai?
Sono, o meglio ero, l’aidoru, puoi chiamarmi come vuoi, io sono il desiderio.
Ti chiamerò Aidoru, certo che è un nome buffo, mi ricorda il Giappone. Ora tocca a te, dammi un nome, visto che il mio non lo ricordo. Quello che mi darai sarà un nome provvisorio, poi quando ricorderò il mio…
Ciò che si definisce subito muore.
Che dici?
Perché senti la necessità d’avere un nome?
Così potrai chiamarmi.
Va bene, aspetta qualche minuto. Posso accedere a programmi intuitivi, di divinazione e di investigazione: incrocerò tutti dati in mio possesso su di te e estrarremo il tuo nome probabile.
Qualcosa mi dice che se torneremo nel mio mondo potremo far soldi con le lotterie.
Lasciami elaborare.
Fa’ pure.
Ecco le probabilità: Paul, Piero, Pietro, Pedro, Paolo, Endro, Renzo, Remo…
Basta così! Devo sceglierne uno?
Sì.
Scegli tu, io t’ho chiamata Aidoru.
Pedro allora. Ti va bene?
Pedro per ora, ok!
L’Aidoru e Pedro/Pierre lasciano la protezione del cerchio tenendosi per mano e proseguono verso le colline lungo il piccolo sentiero appena abbozzato. Le mani di lei a tratti si fanno quasi inconsistenti e a lui sembra di stringere il vuoto; nell’altra mano tiene ben stretta la pietra aquilina che emana un costante leggero calore.
Avanzano lentamente per ore e ore in un paesaggio sempre uguale con due soli che si rincorrono vicini alla linea dell’orizzonte senza mai generare una notte.
Giungono ad una grande pozza d’acqua limpida, quasi un piccolo lago, attorno a questo arbusti con pigne dorate: uva! Sì uva molto dolce al sapore. Finalmente lui mangia, beve, fa i suoi bisogni e poi si tuffa. Infine si sdraia accanto a lei offrendosi ai raggi radenti de due pallidi soli. Anche qui ci sono due soli, come nel sogno e, il suo volto sempre più gli ricorda quello della ragazza con cui lui stava amoreggiando e, poi? Una sottilità e lui è flippato da un’altra parte…
Lei è seduta sul prato che circonda il laghetto e immobile l’ha osservato in tutte le sue azioni, sembra essere sempre più concreta e lo sfarfallio della sua immagine ormai è cessato del tutto.
Entrambi paiono proprio in meditazione ed è lei a rompere il silenzio che ormai dura forse da un’ora.
Sai Pedro, le memorie cominciano a fluire in me, prima di essere ad Hurruh mi trovavo in uno strano luogo, un mondo opificio abbandonato forse da mille anni. Chi era rimasto intrappolato lì dentro era impegnato a rimetterlo in sesto, certo era un lavoro che avrebbe richiesto intere generazioni. Là c’erano strani animali, cloni e anche dee.
Dee? Non capisco.
Sì, divinità, ma al tempo stesso elaborazioni del tecno-nucleo.
Peggio che mai, seguito a non capire.
Forse neppure io, ma sono stata bene con loro.
E allora perché te ne sei andata?
Questo non lo ricordo ancora.
Parlami di questo mondo opificio.
Aspetta che mi vengono in mente altre situazioni. Ero in un altro quando formato da una sola isola. C’era l’Imperatore con me circondato da migliaia di droidi. Un paradiso, ma anche un esilio: due soli umani, l’Imperatore e un ragazzo di nome Gian morto nel tuo mondo e, il resto droidi. Hurruh invece è un mondo in creazione, ciò che si desidera inevitabilmente appare.
Quello che mi stai raccontando è pazzesco.
Perché la situazione qui la trovi normale?
No, non lo è. Non sappiamo ancora con sicurezza come siamo capitati in questo posto e, almeno io, non capisco bene da dove esattamente sono venuto.
La nostra provenienza? È quello che io chiamo il mondo originale. Quello dove c’è una vera New York e Lud la trovi solo nei libri di fantascienza. Tu dici di venire dall’Italia, io penso invece d’esser nata in Mongolia.
Credo che tu abbia ragione anche se siamo entrambi sconvolti dall’esser flippati da una realtà ad un’altra, senza aver ben chiaro come questo possa succedere. E ora dove andremo? Torneremo a quella che tu chiami realtà originaria? Comunque prima di tornare vorrei ricordarmela per bene.
Guarda c’è un portale laggiù, a ridosso delle colline.
È vero siamo nella sua direzione, il sentiero porta sotto quell’arco.
Proseguono alla stessa andatura lungo il sentiero e in breve raggiungono un grande arco in pietra nera. Sicuramente una porta, cosa ci sarà al di là? Lo attraverseranno insieme?
Senza parlare s’inoltrano sotto l’arco di pietra e sentono che qualcosa sta cambiando, la realtà si frantuma per entrambi e configurazioni frattali multicolori s’evolvono attorno a loro roteando vorticosamente per poi scomporsi in disordinate fughe di pixel.
~ ~ ~
Lui non sente più la mano dell’Aidoru nella sua; sta stringendo solo il vuoto, l’altra mano invece è ben salda attorno alla pietra aquilina. Dopo il bagno di colori stenta a riprendere la visione, si trova, infatti, in un luogo chiuso, un salotto dei primi del novecento, c’è un tavolo apparecchiato, un tavolino da gioco a lato della sala, poltrone, chi sta giocando, chi chiacchierando. Anche i vestiti sono d’epoca. Non capisce cosa gli stia succedendo, ma subito s’accorge che nessuno bada a lui, è anche non del tutto concreto, può toccare le cose ma non riesce a spostarle.
È divenuto un fantasma? “Cazzo no!” urla a pieni polmoni, qualcuno si gira per un attimo verso di lui come se avesse avvertito una situazione di fastidio, proprio focalizzata nel punto ove si trova, ma nessuno lo vede.
C’è una tempesta fuori di quella sala e i convenuti stanno parlando del fiume che in quei giorni s’è fatto sempre più impetuoso per le insistenti piogge. Il chiacchiericcio viene interrotto da un boato.
Pedro/Pierre s’è intanto accucciato in un angolo della sala, sopra un tappeto con le spalle appoggiate all’angolo di due pareti e con una ampia e pesante tenda che lo copre in parte, guarda, ascolta mentre una lagrima, forse di disperazione gli riga una guancia.
Un nuovo boato. Un tuono? Sicuramente un tuono: ma il rumore proviene anche da sotto la casa. Intanto lo scroscio della pioggia è sempre più forte. Al tavolo piccolo una partita a carte è in corso. Si sente risuonare una campana nella casa, dopo poco appare nella sala un uomo in livrea che con fare pomposo annuncia “Il signor Massinger!”, poi si ritira. Il nuovo venuto si rivolge concitato agli astanti e tenta loro di spiegare che il fiume sta minacciando la loro casa, che i contadini sono già tutti fuggiti spaventati. Aggiunge poi che nell’attraversare il giardino gli è sembrato d’esser seguito da inquietanti ombre. Nessuno sembra prenderlo sul serio, lui si guarda intorno ancora spaventato e il suo sguardo si ferma ove Pierre è accucciato con le spalle appoggiate all’angolo. Gli sembra, solo per attimo di vedere una persona vestita in foggia strana, lì per terra. Poi niente, ma un brivido violento gli percorre tutta la schiena. Intanto il cicaleggio aristocratico nel salotto prosegue e anche il nuovo venuto è coinvolto nella partita a carte. Le donne al tavolo e su ampie poltrone stanno parlando di cani di pietra che sarebbero dal giardino precipitati nel fiume e ripescati molto più a valle dai contadini. Improvvisamente tutta la casa è scossa da folate di vento e i domestici immediatamente chiamati non rispondono agli appelli. La padrona di casa s’affretta allora a chiudere di persona le finestre che s’erano spalancate e tutti stanno imprecando contro una servitù che s’è fatta sempre più inaffidabile. Il rumore dell’acqua scrosciante è in continuo aumento e anche i colpi, che adesso inequivocabilmente si comprende provengono dalla cantina, si fanno più frequenti. Una chiazza d’acqua fa capolino nel salotto e si fa strada da un muro fin su i tappeti del pavimento. Un rubinetto lasciato aperto al piano di sopra, o qualche finestra mal chiusa. La servitù dovrebbe occuparsene, ma intanto nessuno arriva. Rientra il vento nella stanza e l’acqua nel salotto si fa sempre più invadente, il rumore della pioggia s’è trasformato nel frastuono d’un torrente e i colpi sono adesso uno dopo l’altro. L’ultimo arrivato, quel Massingher dice: “C’è qualcuno che batte alla porta!” “Qualcuno che batte alla porta?” chiede la padrona di casa “O chi volete che sia?”
Massingher va ad aprire, tanto la servitù è tutta fuggita. Fuori non c’è nessuno, solo ombre nere tra gli scrosci violenti della pioggia.
Rientra nel salotto, guarda nell’angolo e scorge Pierre questa volta abbastanza chiaramente. Pierre s’accorge che l’altro lo sta vedendo e accenna un sorriso. Massingher ora non è più spaventato dalla visione, ma ricambia il sorriso, poi rivolto agli ospiti “Nessuno. Nessuno era alla porta, naturalmente. Pure battono alla porta, questo è positivo. Uno spirito, un’anima venuta ad avvertire. È una casa di signori questa. Ci usano dei riguardi, alle volte, quelli dell’altro mondo”.
Detto questo si siede per terra proprio accanto a Pierre e gli offre la mano destra: Pierre l’afferra e la stringe con sincerità. In quell’attimo tutto sparisce in un nero cupo mentre il rombo diviene talmente assordante da superare i limiti dell’udito.
~ ~ ~
L’Aidoru si rende conto all’istante d’esser flippata altrove e Pedro più non c’è. Si trova in una strada di un quartiere medioevale e dalle auto che vede parcheggiate desume che siamo negli anni sessanta o settanta. Le auto sono quasi tutte targate MI, targa rettangolare, nera con numeri e lettere bianche: siamo con tutta probabilità a Milano, Italia. Un garage è di fronte a lei “Iride” c’è disegnato a lettere cubitali d’un azzurro sbiadito, in alto, sopra il portale. S’avvicina alla porta del garage un’auto grigia di marca esotica e forme inusitate.
L’Aidoru entra nel garage e osserva, non le resta al momento altro da fare; subito s’accorge che i presenti non possono vederla e che lei non riesce a spostare neppure una foglia, ora è tornata del tutto incorporea.
Dall’auto esce un signore sui quaranta anni, biondo, elegantissimo e un po’ curvo. Si guarda intorno preoccupato, ha lasciato il motore al minimo e s’ode un rumore inconsueto, uno stridio insolito come se i cilindri macinassero sassi. Il capo meccanico sbianca in volto e mormora “Madonna santa! La peste!” s’avvicina al nuovo venuto e praticamente lo scaccia.
“Questa è la prima avvisaglia del flagello” dice al proprietario del garage e agli altri presenti che lo guardano come se gli avesse dato di volta il cervello.
L’Aidoru assiste alla scena, cerca poi d’uscire dal garage ma non ci riesce. Le porte sembra che possiedano una barriera energetica che non le permette di passare. Si rassegna a restare anche se la vita di garage è per la verità monotona, nessuno la vede e nessuno sente la sua presenza. Solo il cane lupo che la notte viene lasciato di guardia nel garage riesce a scorgerla e a interagire con lei.
L’Aidoru gioca col lupo, l’addestra e resta in attesa di ulteriori cambiamenti, alle volte si chiede dove sarà finito Pedro e se avrà avuto miglior fortuna di lei. Ora riesce a spostare piccoli oggetti, specialmente la notte quando resta sola con Erlo, questo è il nome del lupo. Così s’è trovata un posticino nel solaio, legge libri e giornali sgraffignati dalle auto lasciate in garage, sente una radio che era già lì inutilizzata in quello sgabuzzino. Sta imparando pure a fumare: sigarette e accendini rinvenuti sempre nelle auto.
Il tempo scorre lento e un giorno in garage giù in bacheca, tra le foto di pin up quasi nude legge un ambiguo comunicato del Comune che dice che per evitare abusi e irregolarità, speciali squadre sono state istituite per controllare, anche a domicilio e nelle rimesse, l’efficienza degli automezzi e nel caso ordinare il ricovero conservativo. L’Aidoru non capisce che cazzo voglia dire quell’ordinanza che è stata affissa in tutti i garage e nelle carrozzerie. Ma d’altronde neppure la cittadinanza riesce a capirci un mazza, così nessuno ci fa caso. Dopo qualche giorno però in garage tutti parlano dell’arrivo della peste delle macchine. L’Aidoru si fa più attenta e scende per avvicinarsi a un gruppo di giovinastri che stanno parlando proprio di quest’inusuale fenomeno. Viene così a sapere che tutto inizia con una cavernosa risonanza all’interno del motore, poi i giunti si gonfiano e le superfici della carrozzeria si ricoprono di incrostazioni gialle e fetide, infine si disfà il blocco motore. Il contagio si presume possa trasmettersi attraverso i gas di scarico. Viene anche a sapere che sono stati istituiti lazzaretti ove le macchine colpite sono bruciate e poi sotterrate in fosse comuni. Lei ascolta con attenzione e giunge alla conclusione che finalmente potrà sperimentare se pure lei stessa è una macchina.
Passano altri giorni e il lavoro nel garage è molto rallentato. Gli automobilisti, infatti, nel timore del contagio, preferiscono lasciare le loro auto in garage e sulla strada si vedono ormai pochissimi mezzi a motore.
Di primo mattino nel garage entra a passo d’uomo una grossa Roll Royce d’aspetto superlativamente aristocratico. L’autista fa un cenno di saluto al capo meccanico e gli spiega che un’anomalia per due volte ha colpito quel meraviglioso motore. Il capo ascolta il rombo del motore al minimo, ma tutto sembra essere perfetto. L’Aidoru intanto si è seduta sui sedili posteriori dell’auto e si gode il lusso di quel salotto. Il capo dice all’autista di fare un giretto, si mette lui alla guida e fanno il giro dell’isolato, mentre nel retro l’Aidoru è finalmente lieta d’esser potuta uscire dal garage. Tutto fila regolare, il motore è perfetto. Il capo dice che sarebbe meglio lasciare il mezzo da loro per vedere se l’anomalia si ripresenta. Così la Roll viene parcheggiata fuori dal garage col motore acceso mentre l’autista se ne va via a piedi.
L’Aidoru intanto nell’auto fuma una sigaretta e beve un wisky: è ben fornito questo salotto mobile. Dopo un bel po’ di perfetto funzionamento del motore all’improvviso indicibili gemiti provengono dal cofano e solo allora il capo meccanico accorre ed è certo del peggio. I gemiti divengono via via più strazianti, tutti i meccanici sono ormai attorno alla Roll e, l’Aidoru è sempre più incuriosita e resta sull’auto. Dai finestrini azzurrati vede tornare di corsa l’autista che a sentire quel rumore si mette le mani trai capelli, dall’altro lato della strada arrivano di corsa due sudice tute marroni. Il capo meccanico se ne sta ora appoggiato al muro con la sigaretta tra le labbra guardando in silenzio la scena.
Le due sudice tute marroni entrano nell’auto al posto di guida mentre l’autista cerca d’opporsi, loro due allora con rabbia gli dicono di vergognarsi a rivoltarsi contro i controllori del Comune che lavorano per il bene della città. L’autista si altera ancora di più, è veramente affezionato a quell’aristocratica auto, cerca d’allontanare i monatti anche con le maniere forti. È a questo punto che loro lo legano a una panchina e gli infilano in tasca il modello di ricovero conservativo. Poi partono con la Roll che adesso procede a balzelloni. L’Aidoru vede che il capo sta slegando l’autista, poi l’auto gira l’angolo e giunge in periferia. Attraversa un grande cancello e viene parcheggiata accanto ad una fossa dalle quale sale un maleodorante fumo nero. L’Aidoru capisce che sono giunti al lazzaretto e la macchina sta per esser gettata tra le fiamme. Cerca d’uscire dall’auto ma di nuovo s’è formata quella barriera che la teneva inchiodata nel garage. Non riesce proprio a venirne fuori. Quando stanno spingendo l’auto verso la fossa in fiamme avverte l’autista disperato venire verso la Roll e, la macchina quasi l’avesse riconosciuto, lanciare un grido altissimo, straziante. Dai finestrini vede solo il rosso delle fiamme, poi il nero, un nero assoluto e tanto, tanto silenzio.
~ ~ ~
Si ritrovano entrambi sempre mano nella mano, oltre il portale in pietra. Si guardano stupefatti e immediatamente si rendono conto di quello che a loro è successo: hanno viaggiato separatamente forse nelle loro menti durante l’attimo del passaggio. Ma ora dove sono flippati? Si guardano attorno, prati e colli fino all’orizzonte. Si siedono sul prato, l’aria è profumata di fiori primaverili, nel cielo un solo sole, sembra di esser tornati a casa. L’arco da questa parte è metallico, quando hanno provato a girarci attorno esso spariva, ma questo se l’erano già immaginato. La cosa strana è che da questo lato se si appoggia una mano su di esso, s’avverte un lieve ronzio, come se dei meccanismi lavorassero al suo interno o al di sotto sprofondati nel terreno. A un lato del portale metallico c’è poi una targa di metallo lucido con su inciso “AZHUL ®”
Lui ricorda d’aver visto il solito marchio su una specie d’enorme pullman parcheggiato nel piazzale della Stazione di Lud e, lei rammenta invece che nel mondo opificio tutto aveva quel logo. Si raccontano poi le esperienze provate e vissute nell’attraversamento dell’arco. Adesso devono proseguire, questa realtà sembra più attraente delle altre vissute fino ad adesso. Il sentiero è adesso un viottolo ben tracciato nel verde intenso del prato, lo seguono.
Dopo una leggera cunetta a fianco del viottolo sono parcheggiati due tricicli a motore, che siano stati lasciati lì apposta per loro? La cosa pare estremamente improbabile. Dove dovrebbe esserci il serbatoio, c’è invece una sottile lamina di metallo e in basso sul lato destro di questa c’è inciso il solito “AZHUL ®”. Comunque ci salgono sopra, uno è di color giallo, l’altro è rosso.
Lui sale su quello giallo, la manopola di destra ruota in avanti, il triciclo in silenzio parte, la lascia andare e il mezzo s’arresta. Anche lei sta provando il triciclo, la guida è semplicissima, un’unica manopola e il manubrio. Corrono sul prato e intrecciano le loro corse, stanno ridendo entrambi, finalmente un attimo di gioia. Partono poi decisi lungo il sentiero e dopo aver viaggiato per circa un’ora trovano davanti a loro una cupola di materiale plastico. Si fermano, lasciano i loro tricicli e mentre cercano un’apertura un triangolo di cupola si fa trasparente e mostra un interno arredato con cubi, cilindri e parallelepipedi di varie dimensioni. Incuriositi entrano e scoprono che ogni solido geometrico lì dentro ha una sua funzione. Un cilindro funge da doccia, da un cubo escono pietanze, un altro cilindro più piccolo è solo la tazza di un water, un parallelepipedo diviene un letto, da un cono escono vari liquidi, acqua, menta e uno che sembra leggermente alcolico. Si perdono e si divertono in queste scoperte, mangiano, bevono, poi si sdraiano sul parallelepipedo letto. Pierre/Pedro, ha voglia di fumare e s’avvede che il suo desiderio è stato immediatamente esaudito, c’è un pacchetto di sigarette ora sul letto e un cilindretto che assomiglia proprio a un accendino. È anche stupefatto dal comportamento dell’Aidoru, quando l’ha incontrata sembrava poco più d’un programma, più il tempo passa più diviene identica ad una donna umana coi suoi bisogni e i suoi desideri, il suo volto poi, ora ne è sicuro, è adesso identico a quello della ragazza con la quale stava amoreggiando prima che tutto mutasse. Il pacchetto delle sigarette è azzurro, con disegni arabescati, al suo interno lunghe e sottili sigarette con filtro composte da una profumatissima miscela di tabacchi. Il cilindretto, basta stringerlo un po’ e emette una fiammella a una delle estremità. S’accendono due sigarette e sdraiati sul letto cominciano a baciarsi.
Lui si perde in mille posizioni e lei, programma o no, sa amare alla grande. È perso tra le sue gambe quando uno sbalzo lo prende all’improvviso e si ritrova con Ermina nell’auto che sta precipitando. Il volto dell’Aidoru è ora identico a quello dell’Ermina e anche le posizioni delle due sono uguali. L’Aidoru più non c’è e lui è ritornato all’attimo di partenza, ricorda all’istante tutto ciò che è successo. Sa che la morte sta per ghermirlo assieme a questa ragazza, Aidoru o Ermina che sia. Si rende conto di stringere con la mano sinistra qualcosa di caldo, è la pietra aquilina.
Un attimo prima dell’impatto riesce ad afferrare la mano di lei e ad intrecciarla con la sua tenendo la pietra aquilina tra i due palmi. È solo un riflesso condizionato, non c’è tempo per domandarsi se questo serva a qualcosa.
Un colpo secco, uno schianto, l’auto si frantuma colpendo di coda una formazione rocciosa, frammenti di vetro e di plastica schizzano un po’ dovunque e i liquidi dell’auto colano fra le pietre in discesa. La maggior parte del mezzo rimane lì accartocciata sulla grossa pietra dov’è caduta, una portiera e la batteria volano via e si arrestano più lontano.
Pierre e Ermina si ritrovano adagiati su una terrazza di verde a una ventina di metri dalla carcassa fumante dell’auto. Si guardano stravolti poi una sensazione di calore insopportabile alla mano li fa trasalire all’improvviso. Scostano le loro mani e sui palmi c’è una scottatura dalla vaga forma di cuore. La pietra aquilina cade sul prato, è ormai un pezzo di carbone che va consumandosi rilasciando un odore che sa di pancetta affumicata e uova fritte.
Le loro mani bruciano, ma sono sani e salvi su questo poggio, ancora mezzi nudi dall’amore interrotto. La carcassa dell’auto seguita a fumare e c’è odore di benzina, ma non brucia e neppure esplode. La pietra aquilina ha ormai esaurito i suoi poteri e nell’erba resta solo una piccola chiazza di color marrone. La vecchia sterlina d’oro, nella tasca di Pierre, è ora l’unico segno tangibile di quanto è accaduto.
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