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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Ora è Edmond Goncourt che scrive (dal “Journal”)

20 Marzo 2020

di Bartolomeo Di Monaco

Flaubert grida: “Non c’è una categoria che io disprezzi più di quella dei medici! Proprio io che appartengo a una famiglia di medici, di padre in figlio, compresi i cugini, dal momento che sono l’unico dei Flaubert a non fare il medico… Ma quando parlo del mio disprezzo per la categoria, escludo il mio papà. L’ho visto tendere il pugno, alle spalle di mio fratello, che si era appena laureato, dicendo: ‘Se fossi stato al suo posto, alla sua età, con i soldi che possiede, che uomo sarei stato!’. Da ciò potete capire il suo disprezzo per l’esercizio rapace della medicina. ”
E Flaubert va avanti mostrandoci suo padre ha sessant’anni che, nelle belle domeniche di estate, diceva alla moglie che andava a fare due passi in campagna, e poi scappava fuori della porta posteriore per correre all’obitorio a fare delle dissezioni come uno studente di medicina. Una volta, continua Flaubert, suo padre sborsò duecento franchi per recarsi, con una carrozza da posta, in uno dei cantucci più lontani del dipartimento a compiere un’operazione importante per la scienza, un’operazione a una pescivendola, che lo pagò con una dozzina di aringhe.

Stasera a cena da Flaubert, Alphonse Daudet racconta la sua infanzia, un’infanzia torbida e precoce, trascorsa in una casa poverissima dove il padre cambiava ogni giorno professione e commercio, in mezzo alla nebbia eterna di Lione, già odiata da questo giovane innamorato del sole. Allora fece letture sconfinate – non aveva che dodici anni – , letture di poeti, di libri fantastici che gli esaltavano il cervello, letture recitate dalle ubriacature che prendeva rubando dei liquori, letture che duravano intere giornate su dei battelli che disancorava dalla banchina. E nel riverbero bruciante dei due fiumi, ebbro di letture e di alcool e miope com’era, arrivava a vivere in una specie di sogno di allucinazione dove non percepiva nulla della realtà circostante.

Ieri ho trascorso il giorno nello studio di un pittore bizzarro, di nome Degas. Dopo una serie di tentativi, disagi, di esperimenti in tutte le direzioni si è innamorato della vita moderna e ha messo gli occhi sulle lavandaie sulle ballerine. Dopo tutto, la scelta non è troppo infelice. Bianchi, rosa, carnagioni femminili avvolte di cotoni e di garze, offrono il più affascinante pretesto per l’uso di tonalità bionde e tenere.
Il pittore mostrandomi i quadri commenta di tanto in tanto le sue spiegazioni con la mimica di uno sviluppo coreografico, oppure, per usare il gergo delle ballerine, con l’imitazione di un ‘arabesco’. Ed è davvero divertente guardarlo in punta di piedi, con le braccia in cerchio, fondere l’estetica del maestro di ballo con quella pittorica, parlando della ‘pastosità tenera’ di Velasquez o delle ‘sagomature’ di Mantegna.
Uno strano tipo questo Degas, malaticcio, nervoso, oftalmico tanto che teme di perdere la vista, ma, proprio per questo, estremamente ricettivo e sensibile al carattere delle cose. Fino ad oggi non ho visto nessuno che cogliesse meglio di lui l’anima della vita moderna.

Ieri, alla rappresentazione del ‘Candidat’, è stata una cosa funebre il gelo che calava poco a poco sulla sala piena di simpatia, sulla sala che attendeva in buona fede delle tirate sublimi, delle battute straordinarie, delle parole in grado di sollevare discussioni e contrasti, e che si trovava di fronte al vuoto assoluto! Dapprima su tutti i volti è comparsa una pietosa tristezza; poi, la delusione degli spettatori, a lungo contenuta dal rispetto per la persona e il talento di Flaubert, si è sfogata con una specie di mutismo canzonatorio, con una sorridente presa in giro di tutto il patetico del lavoro.
Dopo lo spettacolo vado a stringere la mano a Flaubert. Lo trovo sul palcoscenico già vuoto, in mezzo a due o tre normanni, che hanno l’aspetto costernato delle guardie di Ippolito (un personaggio della “Phèdre” di Racine. Ndr). Non c’è più né un attore, né un’attrice. è una specie di fuga, di diserzione generale. I macchinisti, che non hanno ancora finito il loro lavoro, si affrettano con movimenti smarriti tenendo gli occhi fissi sulla porta di servizio. La turba delle comparse si precipita in silenzio, lungo le scale… È uno spettacolo triste, un po’ fantastico, come uno sbandamento, una rotta nella luce crepuscolare di un diorama.
Vedendomi, Flaubert ha un sussulto, come se si risvegliasse, come se volesse riprendere la sua maschera ufficiale da uomo forte. “Ebbene, ecco!” esclama agitando le braccia con collera e con un riso sprezzante, che finge malamente il ‘me ne frego!’ E siccome gli dico che il suo lavoro si riprenderà alla seconda rappresentazione, si scaglia contro la sala, contro il pubblico schernitore delle prime, ecc.

Qualcuno parla di una lettera che egli (Gioacchino Rossini) scrisse a Paganini, dopo averlo sentito suonare per la prima volta: in questa lettera c’è tutto il ‘maestro’. Gli diceva che aveva pianto solo tre volte nella sua vita: la prima quando avevano fischiato l’opera con cui aveva debuttato; la seconda, quando, durante una gita con i suoi amici aveva lasciato cadere nel lago di Garda una tacchina tartufata che portava in braccio; infine, l’ultima volta, quando lo aveva sentito suonare.

Paul Lacroix mi conferma nella confidenza che mi aveva fatto Gavarni sulle economie di Balzac nel consumo del suo sperma. Gli accessori e i trastulli dell’amore fino alle soglie dell’eiaculazione: benissimo! Ma niente di più! Lo sperma era per lui una emissione di pura sostanza cerebrale e una specie di dispendio, di perdita, attraverso il pene, di una creazione; e una volta, in seguito a un colpo sfortunato che gli aveva fatto dimenticare le sue teorie, arrivò da Latouche gridando: “Stamattina ho buttato via un libro!”

(Flaubert) Ci confessa anche alcune disposizioni nervose della sua persona relativamente ai rapporti sessuali. Due o tre anni fa, quando aveva appena cominciato il ciclo dei ‘Rougon’, dopo una notte di effusioni coniugali, non si sedeva neppure al suo tavolo da lavoro, sapendo in anticipo che non sarebbe riuscito a costruire una frase, né a scrivere una riga. Ora gli accade il contrario: dopo otto o dieci giorni di lavoro mediocre, il coito gli mette addosso, il giorno dopo, una certa eccitazione molto propizia.
Ci parla infine di uno strano fenomeno che risale agli inizi della sua carriera. Al tempo in cui incontrava tremende difficoltà a scrivere, gli capitava, dopo una mezz’ora di rifinitura intorno a una frase, di eiaculare senza erezione.

Flaubert raccontava che, durante i due mesi in cui è rimasto chiuso in una stanza, il calore gli aveva comunicato una specie di ebbrezza di lavoro, e che aveva lavorato quindici ore tutti i giorni. Si coricava alle quattro del mattino e si stupiva, volte, nel trovarsi ancora seduto alla scrivania, quando suonavano nove. Una serie di rifiniture interrotte soltanto da un bagno, alla sera, nelle acque della Senna.
E il prodotto di queste novecento ore di lavoro è un racconto di 30 pagine. (“Un cuore semplice”. Ndr)

Ieri i Charpentier mi hanno parlato di uno Zola che non conoscevo, di uno Zola ingordo, ghiotto, buongustaio, frequentatore assiduo di tutti i negozi di commestibili e di tutte le drogherie più famose, sempre a caccia di primizie. Mi mostrano quest’uomo nervoso che a Piriac, quando gli veniva servito un piatto di vongole, prima di mangiarle doveva aspettare che le dita smettessero di tremargli per la felicità.
E questa ghiottoneria si aggiunge in lui a una grande scienza culinaria che gli fa identificare subito i difetti di un piatto: la mancanza di un particolare condimento o il numero dei minuti che sono mancati alla sua perfetta cottura. Gli basta esaminare il guscio di un uovo alla coque, per dirvi, con esattezza professionale, di quanti giorni, di quante ore è quell’uovo.
A quanto pare tutte le distrazioni, tutti i vizi dello scrittore consistono in piattini cucinati da sua moglie, cucinati come in provincia, con la fede e la religiosità di una cuoca illuminata dal genio del maestro. E il maestro non disdegna i consigli culinari, le occhiate incoraggianti e, talvolta, anche il colpo di mano con cui scuote una casseruola per staccarne il fondo.
È buffa questa preoccupazione quotidiana del mangiare in un uomo di pensiero. Capisco il capriccio di gola che un giorno vi spinge a fare un pasto fine, delicato e originale. Ma mangiare bene tutti i giorni mi sarebbe insopportabile. Davvero tutti meridionali sono ghiotti


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Bart