LETTERATURA: Passato e presente, rifiuto delle ragioni del male nella produzione letteraria di Guglielmo Petroni
16 Febbraio 2008
di Marisa Cecchetti
[I suoi ultimi libri: “La bici al cancello”, Mauro Baroni, 2002; “Straniero tu che non mi accogli l’anima”, Edizioni Del Cerro, 2005; “Cantieri”, Edizioni Del Cerro, 2007]
G. Petroni – Lucca 1911 – Roma 1993
Il nome delle parole Rizzoli 1984
Questo romanzo è totalmente autobiografico, ragione per cui è stato preso in considerazione per primo, perché vi possiamo trovare ogni sorta di informazione sulla vita di Petroni e sulla sua crescita culturale, qui l’autore non si cela dietro nessun personaggio.
Chiare emergono subito le ragioni del suo difficile rapporto col padre, elemento ricorrente nella sua produzione. Lui lo ha conosciuto quando è tornato dall’Argentina, fino ad allora è vissuto con la madre, sorda che tirava avanti due figli facendo la sarta, con l’aiuto del nonno. Il padre ha iniziato una attività familiare calzaturiera, poi ingrandita, e a tredici anni ha tolto il figlio da scuola, per farlo lavorare in negozio, in centro città, via S. Lucia, “Sei più utile in bottega”. Non è riuscito tuttavia a garantire sicurezza alla famiglia, perché buttava soldi in donne e gioco. Il figlio ha conosciuto la sofferenza della madre, vittima della insensibilità e grossolanità di lui. Di carattere mite, spesso vittima del bullismo di coetanei, già affascinato dalle bellezze della sua città e della sua terra, fa proprio ogni stimolo ogni suggerimento per allargare le sue conoscenze e poter capire il mondo: “ora sapevo soffrire soltanto delle cose a cui potevo dare un nome“. Conosce Gaetano Scapecchi, scultore e Beppe Ardinghi, pittore, che lo inizia all’impressionismo. Cezanne lo sconvolge: “come se una grande esplosione sfondasse un muraglione al di là del quale ci sarebbe stata la verità“. Trova in Leopardi l’autore che sa dare risposte alla sua ricerca e sente che incomincia a impossessarsi “del nome delle parole”. La sua crescita culturale ormai è nelle sue mani. Mite e critico nei confronti della retorica fascista, antieroe per natura, attraversa gli anni della Milizia riuscendo a evitare il grottesco delle divise e delle adunate: “levatemelo davanti- urla un gerarca parlando di lui -altrimenti lo riduco in polpette…nella Milizia non c’è posto per gli imbecilli”. Abile ai servizi sedentari“.
Studia Francese, Latino, Inglese. Come scrittore inizia con la poesia; è vicino all’ambiente fiorentino di Solaria, rivista letteraria aperta alle novità straniere. Collabora anche ad altre riviste del tempo, come Il Selvaggio, L’Italiano, più orientate alla autarchia della cultura nazionale. Quando chiude Solaria nel 36, è tra i primi ad aderire a Letteratura, che ne continua la linea esterofila. Pubblica le prime poesie su L’Italia letteraria di Corrado Pavolini e Enrico Falqui, e poi su Il selvaggio.
Riceve solo disprezzo da parte del padre che non vede guadagno nella letteratura: “vivevo lì, obbedivo alle esigenze di quella convivenza; ma non appartenevo più a loro”. Da Pisa intanto vengono studenti in bicicletta per conoscerlo: sono Mario Manacorda, Walter Binni, Giuseppe Dessì, tra gli altri. E a Forte dei Marmi, sotto il quarto platano, al caffè Roma, siede a fianco di pittori e scrittori: Carrà, De Chirico, Sironi, Carena, Tosi; De Robertis, Angioletti, Soffici, Papini, Pannunzio, talvolta Moravia, Pea. Poi inizia a frequentare Firenze, su invito di Silvio Guarnieri, e il caffè delle Giubbe Rosse diventa il suo punto di ritrovo con letterati come Sebastiano Timpanaro. Montale, Vittorini (ha sposato la sorella di Quasimodo), Quasimodo, Gadda. A Firenze il linguaggio delle immagini si dilata ancora di più, ora non riceve solo emozioni dalle pietre e dai monumenti, ma ne sa decodificare la bellezza. Gli si aprono anche le case lucchesi degli strati sociali diversi dal suo, ed entra nelle case ricche, e capisce che “gli oggetti della casa ricca erano strumenti necessari per capire molte parole che hanno un doppio nome, quello vasto del dominio dei poveri e quello deglialtri, la cui conoscenza nasconde il segreto del potere“. Intanto collabora a Letteratura e percepisce i primi compensi, ma tutto finisce nel calderone di famiglia, anche se sono premi letterari, come le mille lire vinte per il premio Cabala. Le visite dei suoi amici letterati a Lucca insospettiscono il padre: “quando invece arrivava Montale con qualche amico e la Mosca, su una grande automobile nera, il loro aspetto di signori lo insospettiva. Spesso con loro c’erano anche Adriano Olivetti e Bobi Bazlen“. Sandro Bonsanti gli dà le cento lire con cui affrontare il viaggio per Roma: “i legami che ci vengono imposti fin dalla nascita sono fardelli crudeli, perché appartengono agli altri, a chi ci accoglie. Le ragioni del sangue sono leggi oppressive…in verità gli unici legami legittimi sono quelli scelti, le amicizie, gli amori, si formano soltanto attraverso i propri sentimenti, perché sono valori spirituali, corrispondono ad uno stato di libertà”. A Roma lo aspetta Curzio Malaparte, che lo accoglie nella redazione di Prospettive. I contatti si allargano, vive come in un’atmosfera di attesa, e il ricordo delle Giubbe Rosse è legato al suo primo affinamento intellettuale e indipendenza culturale. Dirige la rivista La ruota insieme a Mario Alicata, Antonello Trombadori, Giuliano Briganti. Anche qui è presente l’esperienza della prigione, di via Tasso e Regina Coeli, da lui trattata nel romanzo “Il mondo è una prigione”, che lui definisce tre appuntamenti mancati con la morte. Riflettendoci su, le tre attese diventano ” tre doni, squillanti, tre corazze impenetrabili contro le possibili e prevedibili offese del mondo“. Ora gli occhi sono diventati più attenti a “ravvisare ogni piccolo suggerimento che potesse aiutare a comprendere perché il mondo esiste”. La violenza di quel momento vissuto gli fa percepire che, possa avere di fronte a sé una settimana o un’altra intera vita, tutto sarà ugualmente un dono. “Non ho mai capito bene che cosa significasse stare al mondo; ma ho cercato di capire quando possibile qual è il modo più giusto di stare nel mondo con gli altri: è una ricerca che non finisce mai”: Per uscire da quella che lui continua a definire “la prigione del mondo” è necessario trovare modi e luoghi con i quali stare con gli altri, e insieme la pace dell’anima. Lui dice che dobbiamo “essere il sarto di noi stessi. Magari anche il cappellaio”
Fin da bambino Petroni sente un forte desiderio di spazi aperti, di libertà.
Quando a 13 anni lavora nel negozio del padre ed è costretto ad abbandonare la scuola, di lì a poco si mette a dipingere, a modello prende Cezanne, Manet, Soffici, Rosai, Morandi. I temi preferiti sono il paesaggio e la natura morta, con una “toscanità più dolce che vigorosa”.
Come scrittore inizia con la poesia.
Le 24 poesie raccolte ne I versi e la memoria sono apparse su riviste tra il 32 e il 34. Sono versi leggeri, con un lieve alone di fiaba, con una sottile malinconia, con il predominare della campagna ed un atteggiamento che ricorda un po’ Leopardi, che a qualche critico ha fatto pensare ad un “Saba toscano, asciutto…ben cadenzato e netto”: O casa di campagna/riluttante nel tuo fondo scendo/al tuo disagio ed al tuo pan duro./Nelle tue notti l’alte luci accendo/delle cortesi stelle dell’estate/ e senza sonno alla finestra attendo/al grillo, che tagliente fischia, amico/e vibra come vibrano le stelle/e come l’alte punte dei cipressi./Un lume solo nel tuo mondo mostri/Alto, lontano e desolato;/richiamo delle case in fondo ai monti/opache, spente, quasi sommerse dalla terra (La mia campagna).
Dalle scelte lessicali traspare un contrasto di fondo, luci ed ombre. C’è la negatività di parole come riluttante, disagio, pan duro, tagliente, lontano, desolato, opache, spente, quasi sommerse dalla terra; e l’apertura di alte luci, cortesi stelle, grillo, amico, vibrano le stelle, alte punte di cipressi.
Il contrasto, che corrisponde alla personalità di Petroni, diviso tra rifiuto della sua terra, in quanto legata alla figura paterna, e amore per la bellezza di quella stessa terra e per gli affetti che comunque lo legano ad essa, torna chiaro anche ne “La casa”: La casa dove nacqui/era chiusa come un autunno/tiepido che s’attarda./Il vento ci portava le foglie,/la caserma gli squilli/e il rumore di tanti cavalli;/le prigioni dal muro grandissimo/ogni tramonto rosso, una paura./Stavo solo negli anni/un po’ spaurito/come il falco che avevo nutrito/di topi morti./Nacqui là dov’è il geranio,/il muschio nel pozzo/il sole impoverito sui muri sporchi./Erano i giorni buoni che penso ancora,/tracce di solitudine/che non cancello mai/tiepidezza materna, come/il primo amore ricordi.
Forte l’opposizione tra autunno tiepido, tramonto rosso, geranio, muschio nel pozzo, tiepidezza materna, primo amore e prigioni, solo, spaurito, falco nutrito di topi morti, sole impoverito sui muri sporchi, tracce di solitudine.
Nel 37 esce a Firenze, in Letteratura, Lettere da Santa Margherita, tentativo di romanzo epistolare, che ha come protagonisti gli amanti Alfa e Renato, che scrive alla sua donna dalla località ligure nella quale è andato a trovare un po’ di tranquillità interiore, lettere che Alfa rivela più tardi, quando ormai Renato è morto da tempo nel naufragio del Titanic del 1912. E’ un racconto intimista, che non parla di fatti ma di sentimenti.
C’è anche una ricca produzione di racconti (Bambino di anni fa, Il grillo, Il toscano e la sua terra, Giuochi…) raccolti in Personaggi d’elezione, dove compare la noia per il provincialismo della sua terra, i difficili rapporti con il padre, la corrispondenza tra l’uomo e la natura. Qui Petroni esce dal suo intimismo, alla ricerca di valori etici.
Il mondo è una prigione Mondadori 1949
Alla fine del 44 esce una prima parte del suo romanzo Il mondo è una prigione, sulla rivista Mercurio, a Roma, sotto il nome di Gli ultimi dodici giorni; un’altra appare nell’48 su Botteghe Oscure, quella definitiva nel 49, integrata dall’autore nella seconda edizione del ‘60. Era stato rifiutato da Einaudi, con la bocciatura di Pavese e Ginzburg.
E’ la sua esperienza di via Tasso e del terzo braccio di Regina Coeli, quello dei condannati politici, da cui esce vivo per miracolo, per l’arrivo degli alleati il 4 giugno 44. C’è un no deciso alle ragioni del male, c’è la consapevolezza della esperienza comune, del dolore collettivo, in cui confluisce l’esperienza individuale. E contemporaneamente il senso di una solitudine immensa, in mezzo agli uomini che sono lupi contro i loro simili, chiusi nel bozzolo di paura e di egoismo. Ciò che ha vissuto ed ha visto intorno a sé, sofferenze e violenze, lo portano ad un esame di coscienza, alla ricerca di valori fondamentali della vita, ad un vicinanza e partecipazione delle sofferenze altrui, senza tuttavia rinunciare alla propria individualità.
Via Tasso gli segna la vita e lo porta ad una profonda capacità critica e di giudizio morale. Il ricordo di certi interrogatori non si cancella né dal corpo né dalla mente: “si tornava in cella qualche volta non con le proprie gambe, ma trascinati per la testa e per i piedi da due soldati e buttati nella cella come un sacco, magari seguiti da un secchio d’acqua ghiacciata se le ferite erano tali da sporcare il pavimento di sangue”.
Perché il mondo è una prigione? Quando esce dal carcere, pur nel ricordo doloroso dell’esperienza vissuta, percepisce fuori dalle mura un mondo egoista ed immutabile. E’ come una protesta morale.
” Fuori della porta della prigione mi ero fermato un attimo, aspettando da me quel tal respiro che allarga il petto quando si ritorna alla vita, quando si rivede il cielo e gli uomini dopo averli quasi per sempre perduti: avevo alzato gli occhi verso i tetti della città; il cielo era quello di Roma, perfetto; ma fu soltanto un profondo rammarico ad ingigantirmisi nel petto, uno strano rammarico forse complicato. Mi accorsi che rimpiangevo violentemente le ore in cui la mia vita era incerta, insidiata ogni momento; rimpiangevo la fame, il buio e l’incertezza che questa volta lasciavo definitivamente dietro le mie spalle…sentivo ingigantire nel mio cuore il fastidio di tornare tra gli uomini; sentivo una fortissima attrazione per i giorni trascorsi nelle luride celle delle prigioni che avevo conosciuto in quelle poche settimane che parevano anni.
Dunque la prigione, la libertà, non sono vera prigione, vera libertà? E’ forse il mondo stesso una prigione? Siam forse noi stessi la nostra prigione oppure è soltanto in noi la nostra libertà? Gli altri son forse una prigione? Una prigione che potrai amare forse, come ora ami quella concreta che lasci dietro te con questo oscuro rimpianto?”
Appena liberato torna a Lucca, il viaggio di ritorno avviene in mezzo a difficoltà enormi e crudeltà umana indicibile, tra gente che non si fida di nessuno e non aiuta. Stremato da un viaggio a piedi e dalla fame, non c’è posto per lui nemmeno sotto la tettoia di una casa colonica, ed è costretto a dormire in una buca scavata nella terra, per ripararsi dal ghiaccio di una notte di Natale, con la presenza di un animale che scorrazza e che nel buio non sa distinguere.
Ad ogni ritorno nella sua città lui si sente diviso tra l’amore per le proprie radici e il rifiuto di aspetti del suo passato, che lui odia. Lucca, ancora nelle retrovie del fronte, gli appare dal passo di Dante, con il suo profilo intatto di campanili. Le bellezze della sua città lo attirano sempre, così lo vediamo in giro per San Frediano, fermo davanti al fonte battesimale del XII secolo, ad osservare i suoi bassorilievi.
” Questa volta fui particolarmente attratto dall’effige di un uomo dal volto rotto, impacciato da una toga che non conobbe stiratrice, ed in lotta con un mostro dal corpo e le zampe di gallo, la coda di coccodrillo, il collo di serpente e la testa di felino. L’uomo stringe con rabbia l’orribile coda, mentre il gallo, sul collo di serpente,volta la testa di gatto con ira immobile e secolare.
Non avevo nessuna voglia di prestare qualsiasi retorica al mio muto colloquio con quel gruppo lucidamente scolpito; mi contentai di aver vaga coscienza degli innumerevoli significati che toccavano la mia recente esistenza, la quale, come non mai, era stata simile a quella di molti; la lotta contro il mostro composto e orripilante si prestava facilmente ad essere intesa; tutto il mondo ancora lottava contro il mostro… Scultura simbolica di un male che sovrasta in quel momento l’umanità ma anche di un male profondo che lui individua nella sua città, di cui vede i traffici interessati, il baratto che continua dai tempi di Bonturo. Una città devota e cattolicissima che qui lui definisce “un mondo verniciato insolitamente di Dio e che in cuor suo trabocca di Maligno”.
E’ ritenuto uno dei libri più importanti sulla Resistenza, anche se poche sono le informazioni che riguardano il movimento, proprio per la sua profondità di pensiero. Ma intorno a questo libro ci sono stati tanti giudizi contrari, soprattutto da parte delle sinistre che lo hanno ritenuto, per le caratteristiche suddette, non un libro che inneggiasse alla Resistenza, ma anzi “una denigrazione” (Rinascita).
Nel 2005, a sessanta anni dalla liberazione, è stato riedito da Feltrinelli. Per l’occasione c’è stata una celebrazione in onore dello scrittore, a Roma, organizzata dal sindaco Veltroni, con partecipazione di Alberto Asor Rosa, interventi di Camilleri, Spaziani, Montefoschi. E letture di Moni Ovadia.
La casa si muove Mondadori 1950
Primo romanzo di Petroni, dopo la testimonianza autobiografica di Il mondo è una prigione
La Toscana vi entra di prepotenza con la dolcezza dei suoi paesaggi e con la bellezza delle sue città. Non è precisato il luogo ma si ritrovano le sue campagne a viti e olivi e cipressi che la contraddistinguono, la sua gente solida contadina, negli anni ’30-’40, il rispetto per la classe padronale, anche se serpeggia qualche voglia di ribellione, perché l’ originalità dei signori stupisce e talora suscita sdegno. Il protagonista della storia, Ugo Gattegna, è uno degli ultimi rappresentanti di una borghesia che sta vivendo il suo tramonto. Rimasto unico abitante del suo palazzo avito, con la fedele domestica Cesira che è entrata a servizio dei suoi genitori ragazzina ed ha conservato la fedeltà alla famiglia, come facendone ormai parte anch’essa, vive con i ritmi lenti di un giovane signore di campagna, attraversa la storia di quegli anni, la retorica del fascismo, le voci di una guerra ancora lontana fisicamente, il passaggio del fronte, la distruzione dei tedeschi in ritirata, con un aplomb che lo contraddistingue. Di poche parole, intuitivo, attaccato alle tradizioni ed ai suoi boschi, di cui non vuole si sacrifichi una pianta, rinunciando anche a guadagni sicuri e giusti, della Casa Grande fa la sua tana accogliente e il luogo di sicurezza di un amico, che cerca rifugio con carte false. Rispettoso degli altri più per pigrizia che per abitudine mentale, non vuole essere disturbato, e montagne di posta non letta rimangono inutilmente davanti a lui. Vive di vita interiore, ma senza grandi rovelli, sicuro ormai delle scelte di vita che ha fatto -l asciare gli studi, non preoccuparsi di cercare moglie – ma non del tutto estraneo ai sentimenti, anche se non svelati, quando il volto e il sorriso di una giovane cugina entrano nel suo torpore e abitudinarietà mentale. La casa fa tutt’uno con Ugo Gattegna (e la fedele domestica non lo abbandona) tanto da sottovalutare il pericolo degli occupanti tedeschi fino a lasciarci la vita. Ma forse è stata la soluzione più giusta ad una vita già conclusa in sé, e nella morte non evitata ma accettata con sereno fatalismo sta il riscatto ad una vita senza grandi obiettivi.
Il romanzo si apre con la scena di una folla davanti ad un albergo bombardato che mostra camere aperte alla gente, come un palcoscenico. Lui ha dormito nonostante le bombe: “Ad un certo punto lo sguardo di costui s’incontrò con quello di coloro che stavano in mezzo alla piazza, sopraffatti dallo spettacolo la cui banalità assurgeva in quella circostanza a un vero e proprio miracolo. L’uomo, dopo avere fatto una specie di sorriso impacciato e forse seccato, ma cortese,…scese dal letto attento ad evitare coi piedi nudi i calcinacci di cui era cosparso il pavimento e si avvicinò ai vestiti che stavano appesi alla spalliera della sedia”
La domestica è scolpita come un dagherrotipo, eccola in uno dei suoi momenti di sosta, in attesa di ordini da padrone. –Buon sonno- e la donna si chiuse dietro la porta, ridiscese le scale lentamente con passo ancora giovanile malgrado l’età. La cucina era grande; v’era in mezzo un tavolo immenso e alle pareti due grandi credenze a vetri tra le quali era incassata una vecchia poltrona con la spalliera di damasco logoro. Cesira prese in mano il rosario che era infilato ad uno dei braccioli di quell’ imponente sedile e vi ributtò sopra poggiando la testa
Ecco Gattegna davanti all’abbattimento di una pianta del bosco, decisa in buona fede dal fattore, ma a sua insaputa: “Una parte del profilo del bosco ondeggiò sotto i suoi occhi, la chioma più alta e più maestosa d’una quercia che sovrastava di qualche metro l’alto fogliame, ondeggiò, mosse in un’onda inquieta tutte le fronde attorno per un bel tratto e cadde modificando il contorno della collina che rimase per un poco immerso in una specie di pulviscolo dorato. Ugo respirò profondamente e rimase a lungo con gli occhi sbarrati a guardare laggiù.”
Petroni sviluppa le parti più drammatiche attraverso uno scambio di battute come da copione teatrale, e questo si troverà anche in altri suoi romanzi. Ferito a morte da un tedesco perché si è rifiutato di seguirlo, Ugo detta il suo testamento a Cesira, che fatica a scrivere, perché ora è tempo, lui dice, di pensare agli altri: “Non le pare che la casa si muova?” ” No, cosa dice! E’ la febbre”. “Si ricorda, Cesira, quanto è stato lungo il nostro tempo? Ora invece il tempo corre, vola, ci passa davanti vertiginosamente e non riusciamo a vederlo… quando ero bambino il tempo si allungava davanti ai miei occhi come una galleria oscura che non finisce mai…Comunque, se io penso, qualche parvenza rimane; s’è fatta una vita perfino di me; sarà una povera vita, ma c’è stata, ed è molto”.
Immagine di un passato non molto lontano, il romanzo è come percorso da una struggente malinconia, come se la consapevolezza dell’inevitabile tramutarsi delle cose e dei rapporti umani, anche se di per sé giusta, portasse via la sicurezza delle radici. Passato e presente si affiancano e duellano nella storia, suggerendo una riflessione sul perché degli eventi. La vittima del duello qui è Ugo Gattegna, ma dietro a lui c’è l’autore, in cui l’avvicinamento o la contrapposizione passato presente rimane sempre viva.
Il colore della terra Mondadori 1964
Il protagonista, che si chiama Giacinto e che ricorda il percorso di vita dell’autore, ricostruisce, dopo una ventina d’anni, il suo rapporto doloroso col padre che lo costrinse a lavorare nella sua bottega e a interrompere gli studi quando l’unica sua consolazione rimase quella di andare, all’alba, a dipingere qualche angolo della sua città, prima di iniziare la giornata di lavoro. Erano gli anni del fascismo e “la storia dei potenti che avevano dominato gli anni della sua gioventù, si confondeva con quella dei suoi rapporti col padre” la cui figura gli si presenta ancora come un ostacolo insormontabile, che gli crea disagio anche a distanza di anni. Abbiamo anche qui il riferimento autobiografico del suo soggiorno a Firenze e del trasferimento a Roma. Nel ricordo dell’infanzia negata cerca con pazienza qualche momento in cui l’infanzia sia esistita davvero, una specie di attimo luminoso “in quella casa di poveri, in quei cortili umili, una festa di gente che a lui pareva di aver sognato, di stracci al sole, di piccole gabbie di fringuelli ciechi autori di melodie che lasciano un’eco eterna in fondo all’anima“. Ad ogni esistenza, lui dice, si impone tutto il tempo trascorso, le cose viste, gli affetti, gli errori. Firenze lo affascina e sente di potersi fermare lì: “la commozione per un volto botticelliano, il turbamento davanti a un prigione di Michelangelo…Firenze tutta con la sua bellezza elaborata dagli uomini, si confondevano con la gioia di vivere della celliniana vita d’artista, con Giotto, Masaccio, Donatello. Qui entrano in scena Marina, di famiglia aristocratica, che incontra in una situazione scabrosa – gli viene offerta come donna per una notte – e l‘ambigua figura di Gildo, godereccio e intrallazzatore, che gli danno la spinta per lasciare, sia pur a malincuore, Firenze. Giornalista, si dedica alla poesia e pubblica versi; schivo, di saldi principi morali, non scende a compromessi con il potere. L’uso della parola da parte del duce per lui è una ferita: “quell’uso stupidamente sconvolgente della parola lo feriva… quell’insopportabile cattivo gusto provocava quasi dolore fisico, la sua invadenza era un’umiliazione“. C’è un cenno fugace alla guerra e alla prigionia. Marina continua a comparire nella sua vita, ora una donna diversa dall’aristocratica in cerca di emozioni che lui aveva conosciuto, con impegni sindacali e politici nella ricostruzione del dopoguerra. Ma lui sente una punta di disagio, quando vede la felicità di tutti, dopo la liberazione. Gli sembra eccessiva, sente che “c’è troppa confusione nei cuori che d’un tratto s’erano aperti, uscendo dalla lunga segregazione”. La politica offrirebbe nuove possibilità e prospettive anche a lui, ma lui ha bisogno di riflettere, ha bisogno di stare solo, con i suoi saldi principi, quasi un “sacerdote del costume”. L’esperienza vissuta in carcere lo ha segnato, sente che il compito più importante della vita è quello di acquistare una “serena pacificazione con sé e con gli altri“, senza scendere a compromessi. Per questo rinuncia anche all’amore che Marina gli offre: “Ciò che abbiamo potuto acquistare con tanta fatica ci è costato più caro di tutti gli errori che possiamo aver commesso. Non è che sia tardi, ma fuori tempo sì, per la felicità”. E’ una storia interiore, dove la parola spesso raggiunge il lirismo della poesia. La Toscana sempre nel cuore, anche se si tratta di momenti cimiteriali: “pensò per un attimo ai luoghi dei morti delle sue campagne; ai cipressi, alla pace della morte toscana, dove sulla terra dei morti continua lo stesso ordine di quella che dà la vita…”. C’è un velo di malinconia e un senso di precarietà della vita disteso su tutto il romanzo.
Nel 74 esce La morte del fiume – Mondadori, che ha ricevuto il Premio Strega.
I protagonisti sono due, Sante e Stefano, entrambi nativi di Lucca, entrambi a Roma fin dagli anni trenta. Anche qui c’è un ritorno nella propria città, a quaranta anni di distanza. Loro hanno conservato immagini di quegli anni lontani, appartenenti al periodo della fanciullezza e dell’adolescenza. Pur vicini nel sentire, sono di provenienza sociale diversa, figlio di povera gente Stefano, di piccola borghesia imprenditrice Sante. Lucca riaffiora nella memoria degli anni del primo dopoguerra e dell’avvento del fascismo, mentre loro percorrono gli stessi luoghi e registrano con amarezza le trasformazioni urbanistiche. Quello che è successo ai loro amici dopo la loro partenza, lo apprendono dalla voce di chi è rimasto.
Il fiume Serchio ha segnato i ritmi dei giochi adolescenziali di Stefano e del suo gruppo, fiume di acque chiare, di sponde fiorite a primavera, ombreggiato di pioppi. La scoperta di un fiume che muore in mezzo a sponde invase dai rifiuti, segna tragicamente il trascorrere del tempo e simbolicamente la morte di ideali e sogni accarezzati allora: “Arrivato a pochi passi dalla cima dell’altro argine, prima che i suoi occhi potessero superare le erbe alte che lo coronavano e impossessarsi dello spazio che si aspettava, di nuovo quell’odore, questa volta più aggressivo. Non ebbe tempo di pensare molto, sull’altro versante del poggio vide l’enorme mucchio di pattume che prolungava a perdita d’occhio il suo marciume lungo l’intera sponda dell’argine…i miasmi della putredine lo avvolsero, poltiglie viscide su cui scivolava la sua corsa rovinosa si mescolarono a spessori di polistirolo espanso, barattoli, involucri di plastica, la carogna di un gatto, verdure marce, melme senza nome”. Prima invece ” quel poggio fu sentiero di fiori ogni volta che lo varcava nelle stagioni felici; miriadi di margherite bianche e rosate, tanti garofanini del poeta mischiati ad altri fiori selvatici e gnebitella profumata riempivano intero quello stesso spazio”.
Tuttavia, camminare per strade note dove la memoria dà vita e concretezza ai ricordi, porta alla constatazione che nel ricordo ogni cosa è più bella, perché si è spogliata di immediatezza e brutalità e ne rimane solo la poesia. In questo modo si può sperare di riconciliarsi con il proprio passato, con una città amata per le sue bellezze, ma rifiutata per la brutalità del vissuto. Ed ora che la sua condizione sociale è sicura c’è anche “il rifiuto della povertà, della vita grama e di quant’altro voleva dimenticare della sua esistenza di bambino”. Nel romanzo esperienze personali e immaginazione creativa si intrecciano.
La struttura del romanzo è interessante, giocata tutta sull’alternarsi di passato e presente, tra un riaffiorare personale di memorie ed una ricostruzione da parte di altri. Interessante è il ritorno di passi dialogati, già presenti nei precedenti romanzi, veri e proprie parti di un copione teatrale, che danno la percezione di ogni minima sfumatura di carattere, di stato d’animo dei suoi personaggi. La scena è quasi sempre un cortile, dove scuri si aprono e si chiudono, o dietro i quali si origlia nascosti. Sono conversazioni che corrono da una finestra all’altra, aperte a chiunque voglia entrarvi. C’è una coralità che si sostituisce al narratore, secondo il modello verghiano e commenta tutto ciò che accade. Ci sono le differenze sociali, di esperienze di vita e di cultura: la donna che lavora alla Manifattura tabacchi conosce il mondo meglio delle donne di casa, conosce gli aspetti della politica in atto, e come la richiesta di diritti sia repressa dalle prime violenze fasciste: “Che vogliono. Con questa miseria dovrebbero pensare al lavoro. Dicono che l’altra sera, in Piazza Grande, hanno sparato con la rivoltella”/ “Hanno colto nessuno?”/ “C’è uno all’ospedale”/ “Ma che mondo, hanno vinto la guerra e si sta peggio di prima, e la guerra la fanno anche per la strada, ora”./ Ma la signora Gambogi se sentiva di queste chiacchere alzava la voce: “Non capite nulla. Non lo sapete che il lavoro deve essere rispettato, e quelli che non l’hanno hanno il diritto di averlo?” Le altre ammutolivano…”Parla come un uomo”.
C’è anche la donna emancipata e provocatrice, che ha vissuto sui palcoscenici e trascorre la vecchiaia con due uomini in casa, i due mariti. Elemento di disturbo e di scandalo, ma elemento provocatore creato per scuotere una mentalità chiusa, che apre su un mondo che le donne dei cortili non conoscono, chiacchierata ma fondamentalmente accettata.
C’è la violenza squadrista con la sua propaganda in nome dell’ordine, appoggiata da chi vuole tutelati i propri interessi e i propri beni. C’è la violenza sessuale perpetrata da un fascista su una minorenne, Zita, costretta a dimenticare in fretta tutti i giochi di bambina, che conserverà il terrore di fronte a qualsiasi successiva offerta d’amore, anche il più onesto e pulito. C’è stupore e impotenza di fronte all’avanzare sordo della violenza: ” Dice anche che di questi tempi non val nemmeno la pena di rivolgersi alla legge. Dice che è tutto un troiao…Il marito della Camelia non c’è più, non è tornato perché l’hanno ammazzato…ma andata dai vostri mariti e ditegli che facciano qualcosa perché non ammazzino gli operai come Vincenzo…”
L’obiettivo della violenza è la distruzione della cultura. L’ignoranza dà forza alle ragioni del male:”Picchiano, ammazzano; in Piazza san Michele hanno bruciato tutti i libri della biblioteca del professor Chelini”/ “Ma chi sono”/ “Fascisti, si chiamano”. I volti di quel male dilagante spuntano dovunque, anche in mezzo a conversazioni che hanno comicamente surreali.
I giochi dei bimbi prendono gran parte del ricordo, e appaiono in quella luce magica dell’infanzia, con lo stupore e il pudore delle prime scoperte fisiche, in quell’età che, dice Petroni, “contiene l’annuncio della libertà che non si vedrà più”. Le leggende alimentano la fantasia, l’irreale diventa reale, come il Linchetto dei baluardi: “Le volte che i ragazzi decidevano di starsene appartati in qualche angolo del baluardo di Pelleria, già nel recarsi sul luogo avanzavano senza i soliti schiamazzi. Il primo argomento in genere riguardava il Linchetto; si trattava di un folletto, d’un diavolo, d’un genio della casa, d’un essere dispettoso e di piccole proporzioni, non eccessivamente temibile perché familiare a tutti. Ai ragazzi interessava soprattutto il Linchetto di Stefano…”Dicci un po’, torna sempre?”
Del suo Linchetto Zita parla di malavoglia, ma sentiamo che è la elaborazione simbolica della violenza subita: “Entra dentro il letto, proprio sotto le coperte, lo sento, si sdraia accanto a me…respira come un cane…una volta o due è riuscito a toccarmi e ho sentito come una scossa elettrica, da svenire…”
Intanto Zita cresce suo malgrado a causa del torto subito e diventa una brava madre pronta a rischiare la pelle, in tempo di guerra, per dar da mangiare a sua figlia quando il cibo scarseggia, e a darsi alla borsa nera e a disprezzare il pericolo facendo la staffetta per i partigiani. Fino a lasciarci la vita.
C’è l’amore e la rinuncia di Giulietta, amata da Sante, quando trova il coraggio di rompere il rapporto per aiutare col proprio lavoro la famiglia caduta in disgrazia. Donna di grande pulizia morale e di estrema dignità e coerenza, che osa opporsi all’anziano marito, quando lui passa dalla parte dei fascisti.
Ma sopra tutte le storie c’è la città fissata in quadri d’epoca che parlano dell’amore di Petroni per la pittura, perché non c’è differenza tra un quadro d’autore e le scene che lui descrive, con il gusto toscano per la concretezza e il colore. Sono stampe che immortalano mestieri e figure scomparse, che evocano suoni che non colpiscono più le nostre orecchie, odori che non percepiamo più, fissati con un linguaggio lirico che sa controllare la nostalgia.
Vediamo il lampionaio che chiede a Stefano di raccogliere e conservare per lui tutte le cicche che trova: “Stefano: Tutte le sere ficchi il bastone nel lampione/ Baccelli: Certo, è il mio mestiere, devo pure accendere/ Stefano: E se te ne scordi /Baccelli: Allora vorrà dire che son morto, perché se son vivo devo lavorare per campare, senza accendere i lampioni non mangio/Chi non lavora non mangia/ Stefano: Ciao Baccelli/ Baccelli: Buonanotte bimbo. Sta sempre attento alle cicche.
Scopriamo il fascino di una camminata sulle mura, prima della scuola, dove i sistemi pedagogici erano violenti: “D’inverno, dentro la mia mantellina militare, con gli sgroi ai piedi, in quell’aria tagliente, provavo quasi un brivido di gioia allo scricchiolio del ghiaccio sotto le suole di legno; quando pioveva, mettermi nel vortice dei rigagnoli d’acqua che scendevano giù dal poggio, far navigare foglie secche, m’occupava per lungo tempo, un tempo felice; di primavera e d’estate, mentre m’era presente ogni fenomeno delle stagioni, arrivavano compagni i maggiolini che cadevano dai platani, le farfalle, gli insetti più strani scoperti sotto la corteccia degli alberi. Mentre appena cominciava la stagione dei bozzoli, per un buon tratto potevo veder l’interno della filanda e perdermi davanti al luccichio degli aspi il cui oro pareva contenesse una luce propria; mi fermavo ad ascoltare i canti delle filandine che lavoravano avvolte nel vapore dell’acqua bollente delle loro bacinelle. Tutto questo precedeva le lunghe ore terribili della scuola”.
Vediamo anche arrivare dalla campagna i contadini, nei giorni di mercato: “si fermavano davanti alla porta di città, tiravano fuori le scarpe, oppure le slegavano dal bastone a cui le avevano fissate, cavavano dalle tasche i calzini accuratamente piegati e si calzavano, battendo i piedi per terra nelle prigioni di cuoio a cui erano poco avvezzi. Molti, al posto delle scarpe con la suola di cuoio e i chiodoni avevano dei pesanti sgroi ed allora il loro passo, lo sbattere dei loro piedi schioccava e rimbombava quando, entrando in città, camminavano sul selciato nelle strade ancora deserte“.
Passato e presente si affiancano, in un confronto sempre aperto, senza che ci sia un vincitore: “Eppoi siamo, proprio sicuri che prima fosse meglio?” “No, no, no -risponde Stefano con forza – il fiume era il luogo dove si dimenticava la miseria; ci correvamo perché là, tra cielo e terra, tra l’acqua e i boschetti, pareva d’essere immersi in un ciclo completo dove nulla manca e nulla è in più”.
Il viaggio porta comunque ad una riconciliazione col proprio passato, senza il quale non si può guardare in faccia l’avvenire e partecipare a questo eterno fluire della materia con i suoi continui cambiamenti: “gli uomini temono il proprio avvenire ma è del passato che debbono avere paura”. La riconciliazione dà la sensazione di essere di nuovo accolti come nella placenta materna: “Mi ritrovo nei vicoli, con le vecchie case scure, con le stradine piene di botteghe”. ” A me sembra di essere stato allattato da questi marmi, sento la protezione della loro ombra“. Avere ricordato anche episodi apparentemente minimi non è stata un’operazione di nostalgia, ma di consolidamento del proprio io, nella consapevolezza “che ci sono più legami tra le cose, sia pur quelle banali, domestiche e di tutti i giorni e quelle che riguardano il cielo e la terra, di quanti non ce ne siano tra il grano e il pane”.
Su tutto c’è la rettitudine morale dell’autore, che attraverso queste storie condanna il male in tutte le sue forme, perpetrato sull’uomo, sulla natura, sulle cose. E soprattutto sull’animo. Sono passati decenni dalla sua esperienza di via Tasso, ma le ragioni che gli fecero scegliere allora la parte con cui stare, anche a rischio della propria vita, rimangono sempre le stesse.
Nel 1987 la casa ed. Pacini Fazzi di Lucca pubblica Scritti Lucchesi.
Il primo risale al ’36, ed è posto come intermezzo, gli altri sono degli anni ’70, 80, scritti in occasione di presentazioni di libri, mostre, eventi culturali. C’è amore profondo per la sua città, ritornano i suoi luoghi più amati, i marmi del San Michele, la chiesa di San Frediano, il Duomo con i tesori d’arte che contiene, tra i quali il suo più grande amore, Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia. Ma tornano anche abitudini della giovinezza, gli incontri a Viareggio con Pea a Viani, il caffè Caselli poi Di Simo, luogo di incontro già di Pascoli, Puccini (la figura di Puccini emerge da ricordi sfocati di quando era bambino), Catalani. E frequentato ai suoi tempi da Arrigo Benedetti, Romeo Giovannini, Mario Tobino, Mario Pannunzio, e poi divenuto sede del circolo culturale Renato Serra.
Questi scritti sono interrotti e legati allo stesso tempo da un intermezzo del 36, che è dedicato alla Toscana tutta, ammirata per l’equilibrio che la sua gente di campagna ha saputo creare con la terra, che appare vigilata ma non razionalizzata, portatrice di una continuità di esperienze, gestita in modo che l’uomo non ne sia escluso. “Da questa concordanza perfetta tra le cose e l’uomo, il toscano trae tutt’il senso della vita…la sensazione precisa e nella giusta misura se la porta dentro come eredità della propria costanza, frutto dell’equilibrio conquistato“. Con un lirismo bucolico definisce l’intimo rapporto tra uomo e natura in questo passo: “Di solito incontro la mosca o lo scarabeo d’oro tornando a casa la sera, perché a quell’ora, finito il mio lavoro, mi piace di essere lento a guardare tutto: sui rami e sulle foglie tante cose e piccoli amori di insetti si profilano contro la nuvola che passa o una punta di monte. Guardando lontano dalla superficie di una foglia, ci si accorge dello spostarsi del sole, allora io alzo gli occhi e lo vedo là che tocca appena l’orizzonte dei monti dalla parte del mare, e si vede tanto bene come se ne va. Il sole attraversa tutt’un mondo e le margherite si chiudono, allora si conosce l’ora precisa ed il tempo che passa. I campi si vestono e si spogliano, e tutto quello che cambia è ciò che ritorna preciso”. C’è un monito, che suona come preveggenza di errori futuri:”L’uomo, dal canto suo, può ben pensarsi l’essere più indipendente dalla natura, ché ha o presume di avere le possibilità di pensarsi la vita nel modo che gli torna, ma l’impiego di questa sua discutibile indipendenza sarà sempre l’inizio dei suoi guai maggiori“.
E di Lucca, che lui definisce di un’aristocrazia popolare, fiera della sua condizione storica di libera città stato, del suo anello di mura, cerchio magico, dei sui concittadini operosi nel commercio, di cui vede il prototipo nei Coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck (1450), esposto alla National Gallery di Londra, lui scrive: “la nostra città è un’isola, ma la comunità che la popola è aperta la mondo, ha bisogno del mondo per conoscere, vivere ed affermarsi, a condizione che alla resa dei conti resti intatta quella riservatezza un po’ indisponente ma pronta nell’incontro felice all’ospitalità, alla cordialità che si esprime felicemente, purché resti intatta l’inviolabilità del privato, il modello di vita aperto al mondo, chiuso nella “casa”.
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Commento by Gian Gabriele Benedetti — 16 Febbraio 2008 @ 19:36
Le recensioni e le critiche letterarie di Marisa Cecchetti sono sempre ben articolate e ricche di interesse. Scavano a fondo nella materia, facendone emergere aspetti, sostanza, qualità e peculiarità. Ho avuto modo di apprezzare Marisa Cecchetti anche attraverso la rubrica “Un libro per te”, su “La Nazione”. Il suo scrivere è sciolto, concreto, essenziale e capace di coinvolgere.
Di fronte a simili lavori, di notevole levatura, provo sinceramente, caro Bartolomeo, un certo disagio a proporre i miei modesti scritti e, consentimelo, avverto una certa sana “invidia” nei confronti di certi autori di grande personalità umana e culturale
Gian Gabriele Benedetti
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 16 Febbraio 2008 @ 20:47
Il bello di questa nostra rivista, Gian Gabriele, è che diamo modo a collaboratori molto bravi, come Marisa e come te e gli altri, di farsi conoscere al pubblico del web.
La nostra, fra l’altro, vuole essere una rivista molto particolare, non incline al chiacchiericcio, ma protesa solo a dare un’offerta d’arte in molti campi, con l’occhio rivolto anche alla lezione del passato, che molti giovani non conoscono.
Ci saranno presto altre cose interessanti che sono riuscito a trovare nel mio archivio. Nella sezione Storia, inizierò con il 19 febbraio una serie di articoli ricavati dal “Il Conciliatore” toscano del 1849, che darà modo ai lettori di respirare il clima della I guerra d’Indipendenza.
Commento by Marisa Cecchetti — 16 Febbraio 2008 @ 23:13
Anch’io penso che la tua rivista sia un ottimo strumento per dare visibilità a tanta produzione interessante. Ti ringrazio per le possibilità che hai offerto a tutti noi. Anche quella di farci conoscere reciprocamente. marisa