LETTERATURA: I MAESTRI: Felice chi è diverso – Garboli incontra Gadda
17 Febbraio 2008
di Cesare Garboli
[da: “La stanza separata”, Mondadori, 1969]
« Felice chi è diverso – essendo egli diverso, – ma guai a chi è diverso – essendo egli comune », dicono quattro versetti di Sandro Penna, da mandare a memoria nelle scuole, a pensarci, tanto bastano da soli a dimostrare come il ritmo del settenario sia nato per semplificare le verità più difficili.
Sto percorrendo via della Camilluccia, in automobile, ad andatura molto ridotta, e ho lasciato Carlo Emilio Gadda da pochi minuti. Mi chiedevo, fino a un momento fa, quale poi e va essere stato il motivo della mia esitazione sul punto ili congedarmi, lì sul pianerottolo, che cosa mi aveva confuso fino a rendermi incerto se chiamare l’ascensore o infilare le scale. La figura di Gadda, alta, corpulenta, di uomo più grosso e prestante che gli anni hanno dimagrito forse fuori del giusto, decongestionando un ingorgo di umori san Âguigni, turgidi e vivi, si assottigliava nel vano della porta, si defilava sempre più composta, sempre più esigua, simile a una grigia fettuccia verticale, un occhio, un pantalone, una scarpa, in quello spazio elastico, tra il battente e lo stipite, che tardava a risolversi in una fessura. Dei tratti gaddiani, quelli che lo scrittore, nella Cognizione del dolo Âre, impresta al suo alter-ego Gonzalo Pirobutirro d’Eltino, « di torace rotondo, maturo d’epa, colorito nel viso come un celta », soprattutto quest’ultimo, il colorito acceso del volto latitava:   quelle vampe, quelle chiazze non solo di celta, ma anche di persona che mangia forte, di neuro-vegetativo forse soggetto a disturbi circolatorii.
Dopo qualche tempo che non lo vedevo, ho ritrovato un Gadda pallido, rassegnato al pallore. Il caldo, naturalmente Ma intanto, mi dicevo, come sarà stato difficile, per Gadda, nella vita, trovare una sistemazione anche soltanto per la propria mole, membruta ma non di atleta, non di sportivo, per il proprio alto e grosso fardello che egli spinge, anima guida, ma sempre con l’aria di starne fuori. Cammina, Gad Âda, si muove come se accompagnasse gentilmente un peso ingombrante, il corpo di un altro. Ricordo di avere preso le scale di sghimbescio, guardando all’indietro, entrando con trasporto nell’ordine di idee che qualche volta è doveroso far finta di inciampare nelle proprie gambe.
Ho anche creduto, lì per lì, di essere stato contagiato dai modi del grande ospite. In quella minima circostanza, in Âciampando in me stesso, forse non avevo fatto altro che riprodurre un’attitudine, un modo d’essere, una visione del mondo che mi era stata trasmessa nel corso di un’ora di conversazione, attraverso fluidi medianici, dalla personalità ricca di influssi del mio illustre interlocutore. Imitare, si sa, è sperimentare. Insomma mi ero identificato, comportando Âmi esattamente nel modo in cui un’antica e divulgatissima leggenda dice che sia solito comportarsi Gadda nei suoi abi Âtuali rapporti con le persone.
Gadda, infatti, Carlo Emilio, come per sciocca abitudine invalsa tra gli snobs si suole oggi chiamare, con assurda famigliarità , il grande scrittore-ingegnere, non può fare a meno di chiedere scusa, di tutto, della propria presenza, della propria esistenza, e di autopunirsi di qualche involontaria colpevolezza. È una regola, un leit-motiv dei rapporti di Gadda con gli altri: qualcosa di simile a una cerimonia, a un servizio liturgico, a un antifonario coi suoi passaggi obbligati. Gadda officia, il coro risponde. Quando lo scrittore trova a portata di mano una colpa da infliggersi, la inventa, fabbricando di volta in volta tanti piccoli pretesti «li mortificazione. È difficile dire fino a che punto egli abbia Lino di un abito spontaneo una maniera, se reciti una parte, se e quanto giochi, o quanto veramente soffra, in queste travagl Âiate esibizioni, in queste angosciate richieste di remissione di torti inesistenti. A volte una malizia dolce spunta sul volto di Gadda agli angoli del labbro che si increspa, umoroso, sorpreso del proprio ardimento ilare. Gadda sa compatire, sa ridere.  È impenetrabile, invece, quando si flagella, quando aggredisce scusandosi. Allora egli sembra ripetere a memoria una scena, un esorcismo imparato da sempre: mentre sgrana il rosario della propria nevrosi, mentre si susseguono le litanie, una parte di lui assiste al rito impassibile, prestando soltanto   un’attenzione   meccanica. Una difesa, certo, destinata ad ammansire, a placare qualche demonio interiore. E sarebbe di cattivo gusto sottoporla a interpretazioni razionalistiche. Chiaro che addossandosi mi Ânime infinite manchevolezze, rimproverandosi a non finire imprevidenze, disattenzioni, dimenticanze, mettendosi sem Âpre dalla parte del torto, Gadda spera di scongiurare, rinviandolo, l’attacco di più complicati, più profondi senti Âmenti di colpa. Ma è un’interpretazione troppo corretta per essere vera. In realtà , ogni incontro con le persone e col mondo, ogni situazione in cui Gadda venga a trovarsi, anche la più ordinaria, la più fortuita, è sentita da lui come un punto, un varco cruciale, che lo coinvolge esistenzial Âmente per intero. Se le parole hanno un senso, Gadda si trova, in ogni situazione, indipendentemente da ogni reale pericolo, come in un « frangente »:  dunque una situazione che potrebbe, da un momento all’altro, rompersi, deflagrare, provocare disastri. La realtà , per Gadda, sta sempre sul punto di scoppiare. E penso come debba essere difficile la convivenza di quest’uomo con se stesso, tanto essa assomiglia alla continua, ossessiva tensione che proverebbe il custode solitario di un magazzino di esplosivi, di un depo Âsito di munizioni. Chi sa che cosa ha in testa, Gadda, che cosa è il mondo per lui.
Avrebbe voluto studiare filologia classica. La vita lo ha condotto altrove, lontano dagli studi umanistici e dalla grammatica greca e latina. Immagino che da ragazzo abbia frequentato, a Milano, il ginnasio e liceo Parini, e ne ho la conferma. Era uno scolaro perfetto, con votazioni eccellenti. Ancora oggi, dicono, Gadda si esercita nelle versioni che vengono assegnate agli studenti per la maturità liceale, e che vengono riprodotte sui quotidiani. A casa, da solo, lo scrittore stende il giornale sul vasto piano del tavolo da lavoro, si impone l’orario regolamentare, e ogni volta su Âpera brillantemente la prova.
« Nei temi d’italiano » tiene a precisarmi « ero pedante, pignolo, con forti inclinazioni logico-filosofìche. Ero portato alla speculazione, ma i libri di filosofia che leggevo non era Âno molti. Avevo come professore, per la filosofìa, un positivista. Si chiamava Tedeschi. Dalla sua bocca non c’era mai caso che uscisse un riferimento ai valori dello spirito, alla realtà dello spirito, e simili. »
Legge spesso, volentieri: pochi romanzi, libri di storia, piuttosto, oltre ai classici. È molto interessato alle pubbli Âcazioni del Saggiatore di Alberto Mondadori: libri di storia della cultura, scienza, scienze umane. In proposito si infor Âma se è vero ciò che ha letto, che il Saggiatore si fonderà presto con la casa editrice Mondadori.
« Lei crede che io possa stare tranquillo, non sarò col Âpito, insomma, personalmente, da questo provvedimento? »
Fatico a capire. In ogni caso, credo di poterlo rassicurare, nel senso che il Saggiatore continuerà , immagino, nelle pubblicazioni, e queste non subiranno un aumento di prezzo.
« Lo so, veda, io vorrei aggiornarmi, stare al passo, ma come faccio? Non si può pretendere da me, del resto, che io segua tutto, che mi informi di tutto. Vorrei, questo sì. Ma non posso, creda, la mia vita è stata in eterno sabotata da difficoltà , impicci, pensieri anche dal lato economico. La storia della mia famiglia, a raccontarla, è stata complicata, molto complicata. »
Ora sta leggendo, dice, « il presidente ».
« Prego? »
« II presidente, il libro del Manchester. Sono preso da questa lettura, ammirato dalla bravura dell’autore, dalla sua capacità di restituire quel groviglio di supposizioni, di sensazioni, intorno a quella vicenda, l’uccisore che diventa l’uc Âciso di un altro uccisore… Un vero pasticcio, un pasticciaccio. Altro che il mio. »
II ricordo del Pasticciaccio lo fa soffrire. « Un libro sfor Âtunato, sfortunatissimo, per via dei nomi. Per l’onomastica. Colpa della mia fissazione realistica, che mi ha spinto a identificare con precisione i luoghi, le strade, le piazze, in Âsomma la topografia, a precisare l’ambiente. Non si può im Âmaginare quel che ho passato, come anche per le memorie di guerra e di prigionia. Già questi libri di guerra nascono in condizioni difficili, non si può mica scrivere mentre piovon le bombe. Si scrive male, in fretta, nei ritagli di tempo, sotto lo sguardo di curiosi che allungano l’occhio, ti chie Âdono, fantasticano, fanno supposizioni. Ho sempre patito il disagio di lavorare frettolosamente, purtroppo, è stata una dannazione. Ci mancava anche che qualcuno si sentisse poi envisagé. Ora non vorrei che la mia situazione si aggravasse ulteriormente… »
Non sono andato da Gadda per intervistarlo, sono andato a trovarlo accompagnato da un amico, con il quale lo scrittore si incontra spesso. Ciascuno con il proprio analcolico in mano, ci difendiamo dal caldo mentre dirottiamo la con Âversazione, tutti e tre, su storie, cose, persone di anni fa. La mia conoscenza di Gadda è di vecchia data, risale al primo dopoguerra, quando lo scrittore non si era ancora trasferito a Roma, chiamato alla RAI da G.B. Angioletti. Ci scambiamo notizie di amici comuni: Gadda ha un debito di riconoscenza verso Citati, che è stato per lui, dice, « un grande aiuto psicologico », ai tempi del Pasticciaccio. Passerà parte dell’estate, forse, proprio da Citati, in campagna, vicino a Grosseto. Si informa dei risultati del premio Viareggio, e gli dispiace che Anna Banti, col suo nuovo romanzo, Noi credevamo, non abbia avuto un riconoscimento. « Penso che sarebbe stato meritato. » Ma ha letto Brignetti e lo ammira. « Si sente l’arte » dice del Gabbiano azzurro.
Mi viene spontaneo, a un tratto, chiedergli se abbia letto mai i romanzi della Compton-Burnett.
« No », ma sembra frugare nella memoria. Si informa. Descrivo sommariamente: romanzi che si ripetono tutti uguali, storie tenebrose in una Inghilterra senza tempo, for Âse tardovittoriana, forse eduardiana. Vecchie case-famiglie di campagna, servitori e padroni, incesti, lettere che rispun Âtano dopo anni, testamenti. Inglese perfetto. I personaggi parlano in continuazione, del più e del meno, fanno dello small talk, bevono il thè, ma intanto alludono a misteriose infamie famigliari, saltano fuori trame orrende…
Gadda prende carta e matita, si fa dare tutti i titoli delle traduzioni italiane, se li segna, accuratamente, con la sua calligrafia a grandi, nitidi caratteri inclinati. Piegato sul ta Âvolo, lascia trasparire tutto il suo interesse. « Mi interessa molto, questa copertura di perbenismo mescolata a fatti d’al Âtro genere, a cose che non si dicono. Il mio linguaggio è tutt’altro affare. » Sorride, vedo che gli si arriccia il labbro, agli angoli. « Non si potrebbe certo dire perbenistico. È stato Contini il primo a parlare di me come uno scrittore “macaronico”. Sarà vero, anche, questi umanisti irregolari della fine del Quattrocento e dei primi del Cinquecento li anche letti, qualcuno almeno. Ma solo più tardi, dopo che avevo già scritto il Pasticciaccio mi è stato regalato da Bertolucci questo volume… »
Si alza, cerca sul ripiano di uno scaffale, e mi mette tra le mani la traduzione del Baldus edita da Feltrinelli. La sfogliamo insieme. « C’è un personaggio qui, un umanista il quale multis cum sociis andò a studiare a Bologna… » Ho l’impressione che voglia raccontarmi una storia, forse indic Âarmi una fonte. Invece ha un gesto che mi sembra più di sazietà che di stanchezza, e lascia cadere il libro sul tavolo, spingendolo verso di me.
Alle sue spalle, sopra un altro scaffale, attirano invece la mia attenzione due piccoli dipinti. Uno di essi raffigura lo scrittore, più giovane di adesso, i capelli appena striati di bianco alle tempie, una giacchetta blu. Forse un ritratto del ’40 o giù di lì. Riconosco la mano del ritrattista: Adriana Pincherle, la moglie del povero Onofrio Martinelli, anch’egli pittore, deceduto qualche tempo fa. L’altro dipinto è infatti di Onofrio: un paesaggio toscano, una casa, cipressi in pri Âmo piano. Gadda parla con affetto e gratitudine dei Marti Ânelli. « Devo molto a tutti e due. Mi hanno aiutato, facililato, alleviato l’esistenza in quei brutti tempi, a Firenze, quando c’era ancora Hitler. »
Vorrebbe scrivere qualcosa in memoria di Martinelli. « Non posso parlarne come pittore, naturalmente, perché non ne ho la competenza, ma vorrei testimoniarmi, rendere testimonianza pubblica, parlare dell’uomo. Vorrei star die Âtro a tutti, anche ai famigliari, con questi lutti che colpi Âscono, che si avvicendano. »
So che attraverso la famiglia Portalupi, Gadda è parente stretto di un altro scrittore milanese, Piero Gadda Conti, e per la stessa via, s’imparenta ad altre famiglie milanesi, ai Quintavalle e ai Castellini. Ma ci perdiamo entrambi coi co Âgnomi, confondiamo le persone. « Che cosa vuole, io arrivo a ricordare i parenti più stretti, arrivo fino alla seconda generazione, ma alla terza, alla quarta, non mi raccapezzo più. D’altra parte non si può pretendere, vero, che la mia cassa toracica si trasformi in un’anagrafe, registri nascite, morti, matrimonii. »
Gli chiedo perché non abbia seguito la sua originaria vo Âcazione di studioso, di uomo di lettere. « Per mia madre. È stata lei a esigere che mi dedicassi a una professione che lei pensava più remunerativa. Dei miei parenti avevano tratto guadagno, per così dire, dalla professione di inge Âgneri, e mia madre mi ha spinto ad imitarli. Del resto era un’ottima madre, una bravissima donna, e sarebbe ingiusto che io gliene facessi una colpa, oggi. Altrimenti », Gadda fa un vago gesto con la mano, « altrimenti si finirebbe là , nella Compton-Burnett. »
Non ricordo come poi si svolse la conversazione. Ricor Âdo di aver chiesto a Gadda come si sentisse, in cuor suo, nei panni di maestro, di idolo delle nuove generazioni letterarie. È stata una formula di Arbasino, quella dei « nipo Âtini dell’Ingegnere », e anche qui le generazioni si moltiplicano. « Quelli che lei chiama esperimenti » mi dice « sono tentativi del momento, piuttosto che il frutto di matura disciplina. Con questo, non voglio dire io adesso di essere un pre-meditante ». Ricordo invece come la nostra conversa Âzione si è chiusa, parlando del futuro del mondo, del peri Âcolo di una terza guerra mondiale, di quest’anno « caldo » che lascia presagire una brutta vendemmia. È sufficiente per Âché la faccia di Gadda, di solito ispirata a una gravità pronta al comico, dimetta ogni traccia di ironia. « Non sono pessi Âmista, me ne vergognerei, perché il mio pessimismo sarebbe quello della poltroneria, di chi dice, arrivato a questo punto, alla mia età , per me », e fa un gesto con la mano, per dire che tutto vada pure in rovina. « Lei sentirà dire che io sono un misantropo, in fondo è questo che si pensa di me. Smen Âtisca, la prego, dica che non è vero. »
Sono arrivato a casa, chiudo la macchina, m’infilo nel Âl’ascensore. È girando la chiave nella mia serratura che ca Âpisco finalmente che cosa in Gadda mi ha colpito di più, e che cosa mi aspettavo di capire. Credo di avere conosciuto poche persone possedute da un desiderio così disperato, così impossibile, di assomigliare agli altri, di essere come gli altri. Con tutte le sue forze Gadda combatte contro il pro Âprio temperamento d’eccezione, contro la sua originalità . Invece di esaltarlo, la sua singolarità , il suo essere diverso, lo deprimono. Vorrebbe essere comune, come tutti. La sua vocazione di artista, la sua professione di scrittore, sono un magro compenso, la futile, inutile consolazione di questa grazia mancata. « Felice chi è diverso – essendo egli diver Âso »: così dunque per essere poeti è necessario non desi Âderare di esserlo, e tutta l’originalità , il genio delle persone si misura sul loro desiderio di essere simili agli altri, uguali agli altri, senza riuscirci.
(1967)
Letto 5581 volte.