LETTERATURA: PITTURA: I MAESTRI: Baldini e Bongi. Due amici16 Maggio 2017 di Carlo Laurenzi Letta Selva e torrente, la operina postuma di Gabrie le Baldini stampata da Einaudi. I miei sentimenti so no una debita mestizia e la meraviglia. Non la struttura né il gu sto dell’operina suscitano la meraviglia della quale par lerò. Selva e torrente è il dialogo fra uno spirito (un « beato ») e un mortale la conico; questo dialogo â— elaboratissimo, composito â— ha parvenza di gioco. La ci fra è tenacemente letteraria. La dedica dell’autore mani festa gratitudine a Gustave Dorè, Gustave Moreau. Gu stav Klimt, Gustav Mahler, tre Gustavi pittori e un Gu stavo musico, indicati da Bal dini come « le sue fonti ». Ma poi non sapresti affatto dimenticare le vere fonti li bresche, cui Baldini ammic ca di continuo, divertito di adombrarle: quali Luciano, l’Ariosto, Swift, Voltaire, Poe, e l’inestirpabile D’Annunzio (« freschi lavacri », « orto concluso »), e surrea listi, e anche Borges, e per fino il Mark Twain di Report from Paradise. C’è una sorta di preludio, la vicenda terrena del giusto, allorché Bellafronte « ambula va lenta sulla rena rosa »: Bellafronte era la Castellana di Ostuni, e lo Straniero male disse l’amore di lei per il fu turo beato. Indi, « musica del le sfere ». L’autore ammette che la propria ambizione, da giovane, sarebbe stata il com porre opere liriche nello stile di Bellini, Verdi, Wagner e Strauss: la fiaba di Bellafron te costituisce « l’unico pro gresso nella direzione di quel sogno ». Soffocato il sogno, si svela il secondo aspetto del gioco. Il trapassato ci raggua glia sui misteri: ecco la gal leria dei Peccati Capitali (GULA, LUXURIA, AUARITIA, enuncia Baldini), e la descri zione di altri mondi caduchi â— il nostro è indubbiamente il peggiore possibile â—, e una disputa dell’Ippogrifo con l’U nicorno, e la sentenza della Sfinge, e la perfetta monoto nia del nirvana. Pagine di ca librata mimèsi illuministica, onuste di voci arcaiche e pre ziose. Eppure queste stesse pagine â— per ripetere Gior gio Manganelli in quel pene trante tour de force che è la sua chiosa editoriale al volu me â— formano invero una « meditazione tangenziale sul la morte », e spiega la mia meraviglia. * Rivedo l’uomo: conoscevo Gabriele già da quando eravamo ragazzi, l’avevo sempre pensato al riparo da medita zioni anche tangenziali sulla morte; quindi al riparo della sofferenza; e l’ho invidiato. In prima istanza avrei det to: era talmente estroverso, mi pareva felice. Da ragazzo, indossava giacche di taglio in glese; balbettava un poco per vezzo; aveva molto humour. La sua cultura era leggiadra. Amava la musica non meno delle lettere; prediligeva Mo zart. Tendeva a esibirsi: in quel piazzale solatio dello Studium Urbis, in quegli ambu lacri resi tetri da gagliardet ti, noi in un piccolo gruppo eravamo soliti circondarlo e ascoltarlo cantare. Cantava il Don Giovanni con voce teno rile (o baritonale?); fummo aiutati da quella grazia a scor dare talune miserie non sue né nostre ma che pesavano su tutti. Il fascismo, la guerra: Gabriele, avrei scommesso, re stò immune da parecchi mali o rovelli. Vestì l’uniforme di sottotenente di artiglieria con la disinvoltura elusiva di un personaggio di Hoffmann. Vi vere in falsetto era la sua ve rità giovanile. Il mondo, con l’immagine di se stesso al centro dei mondo, gli piaceva come un teatro. Le sue nozze furono in un certo modo cla morose: sposò, ancora giova nissimo, una scrittrice ormai affermata, vedova di un co spiratore eroico. In seconda istanza avrei detto: Gabriele era diventato un lavoratore troppo strenuo (immerso così a fondo nella letteratura) per concedersi l’abbandono all’idea della morte. Non riferirò qui le tappe della sua carriera pro fessorale né i titoli numerosi della sua bibliografia. Uno di questi titoli è la traduzione di tutto Shakespeare, inclusi i sonetti. Séguito a considerare tale fatica con un’ammirazione che si colora di sgomento; lo stesso Shakespeare, in cui l’ispirazione divampò come fuoco, tribolò forse meno: in fondo non ebbe problemi fi lologici. E intanto un’altra verità teatrale (teatralmente sincera, intendo) segnava Ga briele: il ragazzo esile si era trasformato in un uomo im ponente, barbuto, occhialuto, trasandato, « ottocentesco », ma tuttora gaio, musicofilo, melomane, dottamente incli ne ai piaceri della tavola, sa vio nell’umorismo, innocente nei paradossi, e ancora â— se persevero nella mia illusione â— felice. Non era felice; il suo vo lumetto, che racchiude un pudore, una grazia amara, lo prova. Al di là degli Unicorni e delle locuzioni cruschevoli, trovo in Gabriele questa dichiarazione desolata: « Vi sono delle esperienze terrene » (è il beato che parla) « le qua li non pertengono solo alla natura umana e per le quali noi intravediamo qualcosa ol tre il velo dei sensi. Sono at timi fugaci e che hanno la singolare proprietà di non sa persi mai bene imprimere nella memoria… Poi, quassù, apprendiamo che quegli istan ti erano la sola vera eternità di cui possiamo avere espe rienza. La morte comporta la rinunzia a quelle fragilissime chiavi. E’ la sola rinunzia, ma inappellabile ». Mi chiedo se questa spe cifica meditazione, nemmeno tangenziale, non distrugga soa vemente il significato di ciò che senza troppo sperare chia miamo l’al di là: l’avvento della Conoscenza, nella Pace. Il Paradiso, posto che ci fos se, sarebbe vano; da esso, quasi da un limbo, rimpiange remmo la terra. O forse non si trattò di meditazione, in Gabriele, bensì di premonizio ne, e le premonizioni sono naturalmente oscure. Gabriele Baldini scrisse queste pagine poche settimane prima della sua morte prematura e im prevista, l’estate passata. « Tol si così congedo dal dolore »: il preludio, la morte del pro tagonista, sfuma in una ca denza piana, questo endeca sillabo probabilmente voluto. * Vista a Firenze, in una gal leria di piazza di Santa Cro ce, la mostra di Beppe Bongi, la prima retrospettiva tutta sua. La fama dei quadri di Bongi esposti l’anno scorso al Fiorino fu così ampia (con tagiò addirittura le riviste di moda femminile) che ci si può esimere infine dallo spiegare chi fosse Bongi, ben altri che « calligrafico pittore di uccelli e paludi ». Ma lo confesserò, un orgo glio colpevole non si arrende in noi: Beppe dipinse soltanto per noi, dieci o venti amici che continuiamo a ritenere i suoi prodigi come connessi al la nostra storia privata, parte nostra, inalienabili da noi. Cosa valgono i quadri di Bon gi. se il suo ardore non ci scalda più? I critici che fi nora hanno scritto di lui ap partengono al clan; occhi più freddi dovranno giudicare pre sto ciò che avanza di Beppe, i suoi quadri, e che non è pe rituro. Pier Carlo Santini ha pre parato la mostra di piazza di Santa Croce con un’affettuosa sapienza: a lui la memoria di Bongi pittore deve più che a chiunque altro. Il pubblico è stato folto e avvinto: i qua dri, una quarantina, si sono venduti a prezzi consistenti, inimmaginabili quando Bongi era vivo. Però il quotidiano fiorentino ha parlato di « ec cesso di entusiasmo » « per una gran bella pittura che non raggiunge valori universali ». Personalmente sono persuaso che i valori dell’arte di Beppe siano universali, ora. Nondi meno darei molto perché Al fonso Gatto non avesse po tuto elaborare questa bella immagine, degna della sua pri ma stagione di poeta: « Bon gi è un pittore che ha avuto la sua gloria con un atto di gioventù. Gli è bastato chiu dere le mani aperte, averle raccolte sul petto ». La no stalgia dell’amico morto gio vane l’altro autunno, la gelo sia e il dolore colpevoli du rano in noi. Letto 1287 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||