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LETTERATURA: PITTURA: I MAESTRI: Baldini e Bongi. Due amici

16 Maggio 2017

di Carlo Laurenzi
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 26 febbraio 1970]

Letta Selva e torrente, la operina postuma di Gabrie ­le Baldini stampata da Einaudi. I miei sentimenti so ­no una debita mestizia e la meraviglia.

Non la struttura né il gu ­sto dell’operina suscitano la meraviglia della quale par ­lerò. Selva e torrente è il dialogo fra uno spirito (un « beato ») e un mortale la ­conico; questo dialogo â— elaboratissimo, composito â— ha parvenza di gioco. La ci ­fra è tenacemente letteraria. La dedica dell’autore mani ­festa gratitudine a Gustave Dorè, Gustave Moreau. Gu ­stav Klimt, Gustav Mahler, tre Gustavi pittori e un Gu ­stavo musico, indicati da Bal ­dini come « le sue fonti ». Ma poi non sapresti affatto dimenticare le vere fonti li ­bresche, cui Baldini ammic ­ca di continuo, divertito di adombrarle: quali Luciano, l’Ariosto, Swift, Voltaire, Poe, e l’inestirpabile D’Annunzio (« freschi lavacri », « orto concluso »), e surrea ­listi, e anche Borges, e per ­fino il Mark Twain di Report from Paradise.

C’è una sorta di preludio, la vicenda terrena del giusto, allorché Bellafronte « ambula ­va lenta sulla rena rosa »: Bellafronte era la Castellana di Ostuni, e lo Straniero male ­disse l’amore di lei per il fu ­turo beato. Indi, « musica del ­le sfere ». L’autore ammette che la propria ambizione, da giovane, sarebbe stata il com ­porre opere liriche nello stile di Bellini, Verdi, Wagner e Strauss: la fiaba di Bellafron ­te costituisce « l’unico pro ­gresso nella direzione di quel sogno ». Soffocato il sogno, si svela il secondo aspetto del gioco. Il trapassato ci raggua ­glia sui misteri: ecco la gal ­leria dei Peccati Capitali (GULA, LUXURIA, AUARITIA, enuncia Baldini), e la descri ­zione di altri mondi caduchi â— il nostro è indubbiamente il peggiore possibile â—, e una disputa dell’Ippogrifo con l’U ­nicorno, e la sentenza della Sfinge, e la perfetta monoto ­nia del nirvana. Pagine di ca ­librata mimèsi illuministica, onuste di voci arcaiche e pre ­ziose. Eppure queste stesse pagine â— per ripetere Gior ­gio Manganelli in quel pene ­trante tour de force che è la sua chiosa editoriale al volu ­me â— formano invero una « meditazione tangenziale sul ­la morte », e spiega la mia meraviglia.

*

Rivedo l’uomo: conoscevo Gabriele già da quando eravamo ragazzi, l’avevo sempre pensato al riparo da medita ­zioni anche tangenziali sulla morte; quindi al riparo della sofferenza; e l’ho invidiato.

In prima istanza avrei det ­to: era talmente estroverso, mi pareva felice. Da ragazzo, indossava giacche di taglio in ­glese; balbettava un poco per vezzo; aveva molto humour. La sua cultura era leggiadra. Amava la musica non meno delle lettere; prediligeva Mo ­zart. Tendeva a esibirsi: in quel piazzale solatio dello Studium Urbis, in quegli ambu ­lacri resi tetri da gagliardet ­ti, noi in un piccolo gruppo eravamo soliti circondarlo e ascoltarlo cantare. Cantava il Don Giovanni con voce teno ­rile (o baritonale?); fummo aiutati da quella grazia a scor ­dare talune miserie non sue né nostre ma che pesavano su tutti. Il fascismo, la guerra: Gabriele, avrei scommesso, re ­stò immune da parecchi mali o rovelli. Vestì l’uniforme di sottotenente di artiglieria con la disinvoltura elusiva di un personaggio di Hoffmann. Vi ­vere in falsetto era la sua ve ­rità giovanile. Il mondo, con l’immagine di se stesso al centro dei mondo, gli piaceva come un teatro. Le sue nozze furono in un certo modo cla ­morose: sposò, ancora giova ­nissimo, una scrittrice ormai affermata, vedova di un co ­spiratore eroico.

In seconda istanza avrei detto: Gabriele era diventato un lavoratore troppo strenuo (immerso così a fondo nella letteratura) per concedersi l’abbandono all’idea della morte. Non riferirò qui le tappe della sua carriera pro ­fessorale né i titoli numerosi della sua bibliografia. Uno di questi titoli è la traduzione di tutto Shakespeare, inclusi i sonetti. Séguito a considerare tale fatica con un’ammirazione che si colora di sgomento; lo stesso Shakespeare, in cui l’ispirazione divampò come fuoco, tribolò forse meno: in fondo non ebbe problemi fi ­lologici. E intanto un’altra verità teatrale (teatralmente sincera, intendo) segnava Ga ­briele: il ragazzo esile si era trasformato in un uomo im ­ponente, barbuto, occhialuto, trasandato, « ottocentesco », ma tuttora gaio, musicofilo, melomane, dottamente incli ­ne ai piaceri della tavola, sa ­vio nell’umorismo, innocente nei paradossi, e ancora â— se persevero nella mia illusione â— felice.

Non era felice; il suo vo ­lumetto, che racchiude un pudore, una grazia amara, lo prova. Al di là degli Unicorni e delle locuzioni cruschevoli, trovo in Gabriele questa dichiarazione desolata: « Vi sono delle esperienze terrene » (è il beato che parla) « le qua ­li non pertengono solo alla natura umana e per le quali noi intravediamo qualcosa ol ­tre il velo dei sensi. Sono at ­timi fugaci e che hanno la singolare proprietà di non sa ­persi mai bene imprimere nella memoria… Poi, quassù, apprendiamo che quegli istan ­ti erano la sola vera eternità di cui possiamo avere espe ­rienza. La morte comporta la rinunzia a quelle fragilissime chiavi. E’ la sola rinunzia, ma inappellabile ».

Mi chiedo se questa spe ­cifica meditazione, nemmeno tangenziale, non distrugga soa ­vemente il significato di ciò che senza troppo sperare chia ­miamo l’al di là: l’avvento della Conoscenza, nella Pace. Il Paradiso, posto che ci fos ­se, sarebbe vano; da esso, quasi da un limbo, rimpiange ­remmo la terra. O forse non si trattò di meditazione, in Gabriele, bensì di premonizio ­ne, e le premonizioni sono naturalmente oscure. Gabriele Baldini scrisse queste pagine poche settimane prima della sua morte prematura e im ­prevista, l’estate passata. « Tol ­si così congedo dal dolore »: il preludio, la morte del pro ­tagonista, sfuma in una ca ­denza piana, questo endeca ­sillabo probabilmente voluto.

*

Vista a Firenze, in una gal ­leria di piazza di Santa Cro ­ce, la mostra di Beppe Bongi, la prima retrospettiva tutta sua. La fama dei quadri di Bongi esposti l’anno scorso al Fiorino fu così ampia (con ­tagiò addirittura le riviste di moda femminile) che ci si può esimere infine dallo spiegare chi fosse Bongi, ben altri che « calligrafico pittore di uccelli e paludi ».

Ma lo confesserò, un orgo ­glio colpevole non si arrende in noi: Beppe dipinse soltanto per noi, dieci o venti amici che continuiamo a ritenere i suoi prodigi come connessi al ­la nostra storia privata, parte nostra, inalienabili da noi. Cosa valgono i quadri di Bon ­gi. se il suo ardore non ci scalda più? I critici che fi ­nora hanno scritto di lui ap ­partengono al clan; occhi più freddi dovranno giudicare pre ­sto ciò che avanza di Beppe, i suoi quadri, e che non è pe ­rituro.

Pier Carlo Santini ha pre ­parato la mostra di piazza di Santa Croce con un’affettuosa sapienza: a lui la memoria di Bongi pittore deve più che a chiunque altro. Il pubblico è stato folto e avvinto: i qua ­dri, una quarantina, si sono venduti a prezzi consistenti, inimmaginabili quando Bongi era vivo. Però il quotidiano fiorentino ha parlato di « ec ­cesso di entusiasmo » « per una gran bella pittura che non raggiunge valori universali ». Personalmente sono persuaso che i valori dell’arte di Beppe siano universali, ora. Nondi ­meno darei molto perché Al ­fonso Gatto non avesse po ­tuto elaborare questa bella immagine, degna della sua pri ­ma stagione di poeta: « Bon ­gi è un pittore che ha avuto la sua gloria con un atto di gioventù. Gli è bastato chiu ­dere le mani aperte, averle raccolte sul petto ». La no ­stalgia dell’amico morto gio ­vane l’altro autunno, la gelo ­sia e il dolore colpevoli du ­rano in noi.


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