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LETTERATURA: Polvere

13 Marzo 2009

di Dino La Selva

Mi succede in genere una volta all’anno. Mi ricordo di essere stato “boy-scout”, il primo presentimento di sole primaverile risveglia in me vaghe nostalgie di scarpinate giovanili per boschi e sentieri sassosi e mi ritrovo iscritto ad una “marcia longa”, o “marcia campestre non competitiva” che dir si voglia.
    Così mi è capitato anche quest’anno, l’ultima domenica di febbraio. E così ho conosciuto Polvere.
    La faccenda non era iniziata in maniera molto brillante. Quando mi presentai alla partenza della marcia “Dal Serchio lucchese ai Colli pisani”, equipaggiato di tutto punto con vecchi scarponi da montagna, pantaloni di flanella grigia, cravatta e pullover con lo “zip”, i partecipanti erano già scattati da dieci minuti e non se ne scorgeva più neanche l’ombra (la cosa non deve meravigliare eccessivamente dato che sono un ritardatario congenito).
    Mi metto subito a corricchiare nelle pioppete che costeggiano la riva del Serchio, perdendo e ritrovando per caso il sentiero mal segnato. Dopo un po’, quando ormai demoralizzato mi sto rassegnando all’idea di vagabondare da solo, magari cogliendo margherite, per tutti i 18 chilometri del percorso, scorgo finalmente il gruppetto di coda: due o tre famiglie in tuta blu al completo; mariti panciutelli, mogli basse di carreggiata e larghe di fianchi,bambini che si fermano per fare pipì, donne anziane e asciutte dal volto volitivo e chiome brizzolate “alla maschietto”. Tiro un sospiro di sollievo: ora perlomeno sono sicuro di non perdere la strada!
    Le cose migliorano ancora quando si comincia a salire; ho le gambe corte ma in montagna vado ancora discretamente. La retroguardia rimane indietro; qualche coppietta di fidanzati mi supera correndo; rimango di nuovo solo, nell’immobile e silenzioso incanto di quella chiara mattinata di fine inverno. Il sentiero tortuoso caracolla su e giù per le falde del monte, fra boschi spogli che disegnano complicate geometrie sull’azzurro pallido del cielo, erbose vallette solitarie, piccole vigne incolte. Qua e là, dalla terra bruna di una scarpata o dal verde tenero di un pratino appartato, occhieggiano le viole o si drizzano le punte di lancia dei crochi, appena svegliatisi dalla brinata notturna. Ogni tanto passo vicino a un gruppo di case di pietra non intonacate, dalle forme semplici o bislacche, che sembrano naturali escrescenze del terreno, o attraverso una “corte” con il pozzo ed il forno ormai in disuso, allietata da galline, anatre e tacchini multicolori, animata dal canto dei galli e dall’ abbaiare dei cani. Ma davvero esistono ancora posti così? O non era tutto scomparso?
    A una curva del sentiero mi giunge per la prima volta all’orecchio una musica che rompe in maniera strana il silenzio stupito della campagna; è un’intera orchestra che suona a pieno ritmo motivi d’altri tempi, mentre una voce baritonale a tratti la sovrasta: “La spagnola sa amar così- bocca a bocca la notte e il dì”. Sembra la radio di uno di quei furgoncini di venditori ambulanti o di gelatai che passano spesso d’estate sulle strade di montagna. Ma qui non ci sono strade asfaltate, e non è ancora tempo di gelati! Allungo il passo incuriosito. La musica a tratti si avvicina e a tratti si affievolisce, a seconda del tortuoso andamento del sentiero. Ma finalmente, sul sagrato di una chiesina, accanto a un tavolo carico di panini, bicchieri di the e spicchi d’arancia, ecco la fonte di quel frastuono musicale: è Polvere!
    Polvere va descritto. Un vasto e ripido sombrero dalla cui vetta spenzolano nastrini colorati, un poncho sgargiante e multicolore, un paio di brachette di raso rosso, calzettoni a fasce colorate uno diverso dall’altro, sonagliere ai polsi e alle ginocchia… ah, una immensa borsa ricamata a tracolla, un cartellone con scritte inneggianti a se stesso e il famoso mangianastri stereofonico completo di pile e musicassette nell’altra. In questo momento Polvere ha dei problemi tecnici: il suono dell’aggeggio non lo soddisfa, ed è intento a sostituire le pile. “Senza pile non si cammina!”- esclama, suscitando la vigorosa approvazione dei presenti. Poi, finalmente soddisfatto del risultato, annuncia: “Ed ora in marcia… Stelle di Spagna!…”, e si avvia con andatura dinoccolata, alla Dordoni, mentre dalla diabolica scatola impazza un tango che farebbe ballare anche le pietre.
    Il sentiero continua a caracollare su e giù lungo le falde dei Monti pisani, sotto un sole sempre più alto e brillante che smalta con i più vividi colori il cielo, i boschi, i prati, le casette scrostate. Avanza Polvere con la sua piccola corte di marciatori e la strada prima deserta si anima di donne, di bambini e di animali, di frizzi e di sorrisi. A vederlo passare così vestito e con tutto quel frastuono cani di ogni razza e di ogni dimensione escono abbaiando furiosamente dalle case e dalle corti e gli si avventano contro, fermandosi prudentemente a un metro dai suoi stinchi. “Che fai? Vedi? Sei gonfio!- ne apostrofa uno più accanito degli altri- Se non ti cheti, scoppi!” “Polvere! Come stai?!” “Ehi, ciao! Io sto bene- risponde Polvere con il suo vocione altisonante.-Son già sett’anni che faccio questa marcia! Son sett’anni che ci si rivede!” “Oh Polvere, tu ‘un invecchi mai!!” “E’ l’ecologia! Chi segue Polvere vive da dieci a trent’anni di più Viva l’Ecologia!” I bambini lo guardano seri, con negli occhi una luce fra ammirata e intimidita. Polvere si avvicina loro, tira fuori dalla sua borsa variopinta delle caramelle e senza parlare ne distribuisce una ad ognuno. “Forza, Polvere, sei ultimo!” – lo esortano tre anziane e ridanciane comari.Polvere si ferma accanto a loro e spiega paziente: “Ho fatto tardi   perché   sono stato al matrimonio della mi’ socera…è il terzo marito che prende… che donna! Aspettate che vi ho portato i confetti…” Ed infatti tira fuori dalla borsa tre confetti e ne distribuisce uno a ciascuna.
    Polvere riprende il cammino lasciando dietro di sé una scia di note e di sorrisi divertiti. La sua orchestra personale suona a tutto volume canzoni d’altri tempi, tanghi, valzer, polke e mazurche. Ad un tratto, su un pezzo di strada asfaltata, trascinato dalla foga indiavolata di un ritmo sudamericano, Polvere “rompe” come i cavalli quando dal trotto passano al galoppo, e dalla marcia passa improvvisamente alla danza… e sono figurazioni, evoluzioni, piroette, cassettini velocissimi che sembrano sfiorare appena il suolo, il tutto eseguito con un’abilità, un’agilità, una leggerezza incantevoli… Non voglio scomodare Nureyev, ma, insomma…
    La stradina è scesa ora dai colli e serpeggia pigra nel piano. Avviandosi lentamente al traguardo. Passiamo vicino a una maestosa villa settecentesca a fianco della quale, in un campo cintato,pascola un alto cavallo baio. “Bello!” esclama Polvere, e tenta di far accettare anche a lui una delle sue caramelle porgendogliela al disopra della larga siepe di mortella. Ma l’animale, inquieto e ombroso, non si accosta…e forse è meglio così per l’incolumità della mano dell’offerente! Siamo rimasti soli, io e polvere, e si parla del più e del meno, della stagione, della campagna lucchese, di altre “marce” passate e future. A un tratto mi confida: “Come nome ho scelto Polvere perché è il nostro destino… siamo polvere!…” Ma subito aggiunge fiducioso: “Anche quest’anno mi son fatto visitare e ho fatto tutte le analisi: sono tutte perfette. Posso marciare chi sa quanti anni ancora!”
    Il viottolo incontra la strada provinciale. Siamo vicini al paese con il suo traffico e con la sua gente domenicale: Uno scende di macchina per fotografarlo; Polvere si mette in posa a braccia larghe, impettito come un generale: Altri lo apostrofano direi in maniera piuttosto sguaiata, ma Polvere è allegro e cortese con tutti. Allungo il passo e lo lascio a discutere con un gruppetto di amici.
    Al traguardo mi chiedono un po’ preoccupati: “Dov’è Polvere che non s’è ancora visto?” Li rassicuro: “Si è fermato a parlare qua vicino, ma sta per arrivare”. E difatti lo incrocio mentre sto tornando sui miei passi per riprendere l’auto, lasciata ai bordi di un campo. E’ un po’ distratto perché ha problemi con il mangianastri; gli si devono essere scaricate di nuovo le pile. Lo saluto: “Addio, Polvere!” “Ehi, ciao, arrivederci!” E si allontana, stramba visione colorata, fra un tintinnare di sonagliere ed un gracchiare di note dalle pile ormai scariche.
      Così ho conosciuto Polvere, moderno giullare dell’Ecologia, come ama definirsi, ma anche
dell’allegria, della gentilezza d’animo, della cordialità e della cortesia antiche.
     
Anno 2005.
    E così anche Polvere è scomparso! E’ tornato alla casa del Padre, come lui avrebbe detto. Ma a me pare di averlo sempre davanti agli occhi, scarpette da “footing”, calzettoni di colore diverso l’uno dall’altro, sonagliere sotto le ginocchia, brachette rosse, sombrero altissimo dalla cui cima precipitano nastri di tutti i colori. E, a tracolla, la grande borsa anch’essa multicolore con cioccolatini e caramelle.
    L’avevo incontrato pochi giorni fa nel negozio di ottica del fratello; era pallido, depresso, camminava strascicando i piedi, le spalle curve e lo stomaco sporgente in avanti. “Oh!!.. Dottore!!..- rispose tristemente al mio saluto- Non è più venuto alle marce!” “E’ da tanto tempo che non ci vado più!”-risposi. “Anch’io, è un po’ che ho smesso di andarci!… Eeeehh!..” E strascicando i piedi si allontanò verso il retrobottega. Per discrezione non gli chiesi se fosse malato o cosa avesse. Pochi giorni dopo mi dissero che andando in bicicletta era cascato giù morto.
    Io però non riesco ad immaginarmelo fermo, inespressivo nella rigidità della morte, e lo rivedo vivo, mentre se ne va lentamente in bicicletta la domenica mattina per il Fillungo cantando la Messa in Gregoriano con il suo vocione baritonale, o mentre per la Befana distribuisce doni e caramelle agli ospiti di Monte San Quirico e fa piroettare in un valzer indiavolato le vecchiette, che si sentono tornate ai tempi della loro gioventù e scoppiano di felicità e di risate. E se guardo il cielo in una ventosa mattinata primaverile lo vedo fra due bianche nuvolette mentre nel suo buffo costume, fra sonagliere, musica e passi di danza, guida la sua allegra brigata di bambini chiassosi e vecchietti ridanciani per gli azzurri pascoli del cielo.  

(Da “Lo specchietto retrovisore”, Guido Miano Editore – Milano- 1986)


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1 commento

  1. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 13 Marzo 2009 @ 16:15

    Un evento amatoriale-sportivo, pieno di echi e di ricordi, si illumina di visioni, di immagini, di momenti che si appalesano nella loro freschezza, originalità e proiezione cromatica, pregio di un’acuta osservazione. Soprattutto emerge la figura caratteristica di “Polvereâ€, simbolo, ironico ma non solo, di una realtà folcloristica e di un’umanità di squisita e genuina tensione. La suggestione del racconto, sempre incalzante e di limpido piacevole respiro, trova, in modo particolare, la sua adesione positiva al canto della natura e all’amore verso la salvaguardia di quel dono che ci circonda e di cui spesso, colpevolmente, ci dimentichiamo
    Gian Gabriele Benedetti

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