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LETTERATURA: Safer dei Macedi

7 Aprile 2010

di Mauro Cristofani
(La sua galleria di quadri qui)

       Baraccati intorno a un lago campavano Aràm sua moglie Dunia e i tre figli maschi, Adrio il maggiore Driolin quello più piccolo e nel mezzo quel balzano di Safer. Sedic’anni né alto né basso occhi vispi da furbetto intelligente sorriso luminoso e disarmante magrolino solido come un giunco che si piega ma non si spezza, chioma nerissima. Presuntuoso. Ribelle e selvatico come un animale in fuga, assetato di vita. Voglioso di penetrare nel mondo di gente che talvolta sfiorava, vederlo da vicino e svelarne i segreti. Sapere se fosse davvero desiderabile come sembrava. Insofferente. Per lui noiosi i discorsi importanti gli insegnamenti perbene le giuste reprimende, quasi divertente invece beffarsi dei comandi e troppo succoso il trasgredire. Aveva certo le sue brutte paure, ma ciò ch’era carico d’insidie invece d’essere invito alla prudenza lo spingeva a sfidarle. Conoscere ogni possibile verità e sapere subito quel che c’è da sapere lasciarsi volentieri divorare da febbri segrete e inconfessabili seguitare temerario la corsa sulla china scoscesa e senza appiglio, rispondere a voci supremamente attraenti e irresistibili.

        Mamma Dunia pelle scura e sguardo fiammeggiante, somiglianza con Safer pur nell’intemperanza prudentemente celata. Come lui sprigionava vitalità impetuosa, una bruciante voglia di felicità. Fra i due correva un legame sotterraneo che rendeva ogni gesto carico di significati segreti, un sodalizio tacito che li esaltava. Dunia nell’arcobaleno calante dell’età, vecchia ragazza delusa e triste che guardava quel figlio come l’unico capace di riscattare un destino miserabile. Le trovate sempre sorprendenti di Safer, la sua ambizione tenace a volersi librare dal mondo melmoso della mediocrità e il naturale fascino dei suoi modi le apparivano come una mistura d’ideali maschili incomparabili, vagheggiati fin nei primi sogni fanciulleschi. Per assecondare il volere dei parenti sposò Aram giovanissima. Dapprima le parve forte e cortese ma presto si rivelò costantemente in bilico davanti ad ogni scelta, un fuscello portato qua e là da vènti più o meno appetitosi. Anche traditore, più volte al seguito di passioni ingannevoli. Nel tempo Dunia aveva visto rompersi i fili di speranza pazientemente intessuti e ogni parvenza d’affetto in lei s’era   mutata in avversione sorda, così come i figli lo facevano sentire un corpo estraneo di cui si sopporta a malapena la presenza.

        Dei tre fratelli Adrio il maggiore era ometto operoso, un gattone domestico servizievole ligio ai comandi e rispettoso d’ogni regola. Desiderava sposarsi avere figli e vivere quietamente con una donna dabbene, e Saida era giusta per lui.   L’aveva conosciuta durante la festa di mezza estate, l’aveva subito amata e da quel giorno non la lasciò più.

        Driolin il più giovane pareva privo d’ossatura. Alto appena quattro spanne testa enorme mani e piedi troppo lunghi, un elfo saltellante e sgangherato. Simpatico, con l’abilità tutta sua d’apparire nei posti più impensati, furbo come un leprotto e intuitivo più d’una faina. Niente sfuggiva al suo pungente acume, conosceva per filo e per segno i particolari d’ogni avvenimento prima che si palesasse. A suo modo, un piccolo genio.  

        Safer era il suo eroe, non vedeva l’ora d’esser cresciuto per seguirlo nelle sue scorribande. Intanto con invidia lo guardava   allontanarsi dall’accampamento pregustandone il ritorno, coi resoconti dettagliati di avventure vissute e non vissute.

        Per compagna aveva una cagnetta spelacchiata, per molti versi simile a lui. Mangiava quello che le dava, preferendo morire di fame piuttosto che accettare un boccone da un estraneo. Lo seguiva ovunque senza mai abbaiare, tanto che sembrava senza voce. Se Driolin s’ammalava, restava senza mangiare e senza bere accucciata a guairgli accanto, unica circostanza in cui le usciva un suono dalla bocca.

        Ai Macedi Safer si sentiva superiore, sapeva di meritare di più della miserevole vita riservata al suo popolo. Lo scintillìo della città vicina l’attraeva in modo irresistibile, non poter penetrarvi era la lama che gli scalfiva le carni sotto il giustacuore. Verso quella società aveva tentato di fare qualche astuta mossa, venendo sempre respinto come un paria scioccamente pretenzioso. Ma l’orgoglio più volte ferito gli dava nuova lena a ritentare altre vie, con altri strattagemmi.

        Al suo amor proprio davano una lucidatina i compagni, riconoscendogli superiorità e seguendolo ciecamente nelle imprese. Gratifiche superficiali e momentanee, in attesa dei favorevoli eventi che da sempre aspettava.

        Insieme all’anelito di far parte della gente altolocata, Safer desiderava da sempre possedere un cavallo.

        Un giorno in cui prese un sentiero fitto di boscaglie intricate di rovai e mucchi di foglie putrefatte di rii improvvisi e profondi in cui rischiava d’affogare, s’avvide d’essere oltre il sicuro e gli vacillò il coraggio. Si tastò la lama nella tasca del giubbetto, però non s’avvertiva intorno la presenza d’un’anima che fosse viva.

        Man mano che procedeva la selva s’andava diradando, fino a sbucare in un prato a mezzaluna. E con sua grandissima sorpresa, Safer vide scorrazzare leggero un cavallino grigio a macchie chiare, criniera argentea agitata nell’aria e coda gioconda sventolata come una bandiera.

        Solo un sogno beffardo, ecco cos’era. Sbatté le palpebre più volte e più volte lo vide, e infine il cavallino si fermò. La bestia e il ragazzo si scrutarono, aria immobile al compimento d’un atteso sortilegio. Veloci ronzii bàttiti d’ali pullulare d’insetti e di germogli, fremiti della natura e della vita…

        Volle sincerarsi della realtà, si guardò intorno. Il mondo era come lo conosceva, terra cielo campi e nuvole. Di nuovo e di meraviglioso ora c’era solo un cavallo che scalpitava, impaziente.

        Fece per appressarsi all’animale ma un lamento lo scosse, veniva da un ciuffo d’erba lì vicino. Esitava, ma il cavallo nitrendo l’incitò. Avvicinandosi all’arbusto udì un lamento, un uomo dolorante giaceva a terra raggomitolato su se stesso. Aiutami, gli disse con una smorfia di pena, sono caduto da cavallo. Lo sguardo era fiero e profondo, ma velato di tristezza.  

        Il ragazzo l’alzò lo sorresse e l’aiutò a muovere passi con fatica, indicata gli fu la strada per tornare. A breve distanza, il cavallino lì seguì.

        Sono Miosotis, disse l’uomo al ragazzo. Il palazzetto a cui giunsero era il suo piccolo regno, vi abitava con un vecchio servitore sordo e quasi cieco di nome Malisto. Conosce tutti i segreti, spiegò, saprà lui come curarmi.

        Il cavallo si chiamava Macchia, per via del suo mantello a chiazze chiare. Cavalcarlo è l’unico piacere che mi resta, disse l’uomo con un sorriso malinconico.

        Entrarono nel palazzetto, stanze semivuote e figura ricurva nell’oscurità, vecchio Malisto come sempre in attesa trepidando. Sue cure preziose, Miosotis finalmente adagiato in poltrona.

        Racconti del passato, destrezze avute in gioventù nel cavalcare. Gare vinte, premi ricevuti. Cacce rocambolesche a cui partecipò, come quella della volpe nera. Gli ultimi anni melanconici, la vita solitaria. La mente affollata di ricordi persi nel tempo, e il ragazzo ascoltò partecipe e commosso.

        Le mani si strinsero, un patto tacito venne suggellato.
        Al momento del commiato, l’uomo e il ragazzo si abbracciarono di slancio, ripetendosi vicendevoli promesse.

        Malisto rispettoso a distanza, sguardo spento che vedeva lontano…
        Safer ripensava insonne agli avvenimenti di quel giorno, s’addormentò solo all’alba. Un pensiero indegno gli s’era stillato nella testa, e non seppe reprimerlo.

       Dopo tre giorni agì, ripercorrendo la via che portava al palazzetto di Miosotis. Nella stalla aperta, il cavallino parve aspettarlo. Gli saltò in groppa tallonandogli i fianchi, corsa sfrenata giù per il dirupo. Fra le imposte socchiuse d’una finestra un uomo osservò, impassibile…

        Safer piombò fra i Macedi, e gli accampati non si fecero domande. Lo accolsero anzi come un vincitore, i suoi fratelli parteciparono al trionfo. Aràm parve scuotersi dalla svogliatezza con un sussulto d’orgoglio, Dunia paventò un pericolo ma abbracciò il figlio acclamato.

        Safer divenne tutt’uno col cavallo.
        Gli costruì una capanna per ripararlo dagli insetti e dall’umidità, vi pose una comoda lettiera e una mangiatoia sempre colma di fieno e cereali, e un abbeveratoio con acqua fresca di fonte. Prima d’ogni cavalcata lo spazzolava accuratamente, al ritorno gli strigliava il mantello sudato.                Raggiunse la perfezione del montare, rilasciato sulla groppa schiena dritta senza avere incertezze. Capì come fosse indispensabile piegarsi in avanti durante i movimenti rapidi e inclinarsi all’indietro per rallentare l’andatura, che un colpo di tallone serviva di rassicurazione e incitamento. Capì soprattutto che la buona mano d’un cavaliere avrebbe padroneggiato il cavallo anche nelle più riottose turbolenze facendolo andare docile e sereno, ottenendo dall’animale rispetto e obbedienza. Tutto ciò il ragazzo capì e puntigliosamente lo mise in pratica, e il paziente apprendistato offrì alfine la vista d’un perfetto cavaliere.

        Macchia passo elastico e vigoroso e Safer ebbro di gioia e di vitalità, nel vento mescolavano nitriti e canti.

        Il carattere del ragazzo s’addolcì, il suo sguardo divenne profondo. Dunia lo guardava accudire il suo cavallo con gesti lenti e misurati, carezzargli teneramente i crini argentei. Appoggiarsi sul suo collo, sognante e pensoso.

        Scorribande e ruberie solo un ricordo, Macchia gli aveva riempito l’esistenza.
        Le rive del lago erano mète per le cavalcate, le preferite e quelle più battute. Sentieri di cerri e sicomori file d’ailanti e sassofrassi siepi ramificate d’araucarie, tutto un mondo di piante e fioriture con le radici nell’acqua e le chiome al sole.

        Nel vederlo apparire tra il verde i pescatori salutavano agitando le braccia e gridando arguzie nel rigettar le reti, pesche sempre abbondanti di lucci e salmerini. Prelibatezze cucinate dalle loro donne, a sera nel ritrovarsi tutti insieme.

        Intorno al lago c’erano posti magnifici, come il biancheggiante bosco di betulle. Safer sdraiato sull’erba contemplava i fusti oblunghi rivestiti di corteccia sottile, i rami di foglioline morbide e vischiose che s’indoravano   a fine stagione. Si divertiva nel cercare percorsi ricamati e trame di minuziosi arabeschi, poi con gli occhi chiusi vedeva l’orizzonte nuovo.         Ma nel cuore aveva un pungolo, minaccia costante alla sua spensieratezza.

        Era il rimorso verso l’uomo gentile che gli aveva teso la mano franca e generosa, aprendosi alla familiarità e alla confidenza. Passata l’euforia dei primi tempi, ora Safer si vergognava della slealtà del proprio gesto.

        Durante una cavalcata Macchia s’impennò scaraventandolo su un cumolo di foglie secche che coprivano una cavità dov’egli sprofondò, per rimbalzare nella melma del fondo.

      Graffiato sanguinante e pieno di terrore sbarrò gli occhi cercando una via d’uscita ma tutto era immerso nell’ombra, solo un barlume proveniva dall’alto. Era precipitato in un buco puzzolente e gelido, e per la prima volta in vita sua si sentì veramente perduto.

        Rivoli di sangue gli scorrevano sul corpo, ruotava la testa a destra e a manca per cercare disperatamente un appiglio. Allora le lacrime chiuse fin qui nello scrigno scuro dell’orgoglio tutte insieme si sciolsero, brucianti e medicamentose sul suo corpo ferito. Da quell’antro fetido il cavallo libero lassù gli apparve l’artefice d’una sentenza dura e irrinunciabile, l’esecutore a cui toccava il compito ingrato e necessario di punirlo.

        Abituandosi all’oscurità, scorgendo un nugolo di formiche predone lasciar di divorare una carogna e verso lui avanzare tutte insieme, si spinse indietro schiacciandosi alla parete dell’antro. L’esercito delle piccole belve lo aggrediva, gridò con tutto il fiato che aveva ma l’urlo si perse nell’oscurità.

        Dall’alto parve allora venire un’eco lamentoso e flebile, e in quel preciso istante dalla terra emerse l’irto corpo rossastro d’un gigantesco ragno scavatore che con le zampe a forma di rastrello mise in fuga le formiche predone. Ma una vespa carnivora gli roteò sulla testa cercando d’infilarci il puntiglione curvo e velenoso, e fra i due mostri s’ingaggiò una lotta. Il ragno iniziava a smarrirsi, vanamente cercava d’afferrare l’orrido insetto per addentarlo coi suoi uncini veleniferi.

        Continuando a spingersi nella roccia come a voler sparire, Safer seguiva annichilito il pauroso duello. Quando il ragno apparve stremato dalla sequela di ronzii roteanti la vespa lo carpì sul dorso e con un sibilo acuto lo trafisse col suo pungiglione ferino, inondandogli le viscere. Movimenti che divennero stentati, zampe che s’irrigidirono. Sopraggiunse la paralisi, e il mostro peloso s’afflosciò nell’agonìa. Impietosa la vespa lo finì lacerandogli la pelle, completo trionfo.

        Davanti al macabro banchetto Safer tenne gli occhi serrati, trattenendo il respiro per non sentire l’odore nauseante. Percepì un battito d’ali che s’allontanava e riaprì gli occhi, il luccicar della vespa nel pulviscolo dell’ombra divenne apparizione bellissima e dorata.

        Lassù l’intricato coperchio di rami e di sterpaglie s’aperse come spazzato via da una ventata, e apparvero squarci di nuvole e d’azzurro.

        Safer raccolse tutte le sue forze. Aggrappandosi alle sporgenze e ai ciuffi di rovi s’arrampicò sulle pareti del cunicolo ritrovandosi infine all’aria aperta, sanguinante ma salvo.

        Il cavallino era lì che brucava una cima di fronda, aspettando paziente il suo ritorno…
      Tornarono all’accampamento al trotto leggero, mente di Safer ora sgombra da dubbi e da incertezze. Tutto gli appariva nella vera luce, dispersa ogni immagine illusoria. Un’azione avvilente era da cancellare, un gesto leale s’aspettava da lui. Per due stagioni era vissuto in un sogno, la realtà era la via che lo portava a Miosotis.

      Quel giorno c’era nell’aria un sentore di voli radenti, di scricchiolìi affettuosi e sommessi. In sella al puledro, Safer giunse al palazzetto. Non umiltà nel suo sguardo, ma la fierezza del cavaliere che torna dopo una battaglia vinta.

      Miosotis l’aspettava, gli mosse incontro.
      Fra le sue braccia si rifugiò, bagnandogli la spalla con le lacrime. Nessuno dei due parlò, ma si capirono.

      Il vecchio Malisto a distanza rideva sornione, scaldato da un’ onda di fraternità.
      …E le finestre del palazzetto si spalancarono, e dall’una si protesero i genitori di Safer e dall’altra i suoi fratelli.

      Tutti si riunirono, e furono ancora lacrime e abbracci domande incredule spiegazioni stentate balbettìi e meraviglie.

      Dettagli, basterà sapere che al di sopra degli avvenimenti c’era un’orchestrazione ben precisa.
        Talvolta le cose buone si compiaccion di rincorrersi fra loro. Miosotis invitò Safer e la sua famiglia a restar per sempre nel suo palazzetto, proprio nell’ala da cui si scorgevano le luci dell’accampamento.

        Si celebrarono le nozze di Adrio con la dolce Saida, e tutto il popolo dei Macedi vi partecipò entusiasta.

        Driolin migliorò così tanto nell’aspetto, da far innamorare molte   fanciulline dei dintorni.
        Dunia ebbe modo di dimostrare la sua abilità di massaia, e il marito le restò accanto finalmente premuroso e fedele.

        Safer ebbe il suo posto nel mondo, quello a cui aveva tanto ambìto e che seppe meritarsi. Non si sposò mai ma non fu mai solo, in quel palazzetto era tutto ciò che amava e che riempì sempre la sua vita.


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1 commento

  1. Commento by claudio grosset — 7 Aprile 2010 @ 08:27

    Sfido chiunque tra noi (lettori) a non immedesimarsi nel protagonista ‘Safer’ di questa storia. Qualche titubanza certo, perchè Safer è “â€¦intelligente …solido come un giunco … ribelle …assetato di vita …insofferente …si sentiva superiore” etc. ma, quanti di noi non hanno forse creduto di esserlo o lo sono stati nevvero, almeno nella propria giovinezza? La parabola di ogni esistenza è fatta d’un avvio in crescendo, d’un naturale desiderio di conquista; ne segue l’azione a volte ahimè istintiva, carica e caricata d’entusiasmo; poi la consapevolezza, la gioia e serenità dei risultati raggiunti insieme alla riflessione verso gli errori commessi e rimediabili, per fortuna, come in questo caso.

    Una commedia che ci riempie il cuore in una lettura al solito accattivante e surreale, nello stile di Cristofani. Safer  “…non si sposò mai ma non fu mai solo…” un originale e rasserenante lieto fine oppure il tema d’un eterno dibattito dal probabile titolo ‘..La conquista della Felicità’!

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