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LETTERATURA: Scrittori Lucchesi: Alfredo Bianchi: “Il fiore rosso”

30 Dicembre 2007

di Bartolomeo Di Monaco

[Per le altre sue letture scorrere qui]

Questo romanzo è stato pubblicato dall’Associazione culturale lucchese “Cesare Viviani” per dare un riconoscimento tangibile ad uno scrittore assolutamente sconosciuto, e che merita invece di essere aggiunto agli scrittori che con le loro opere hanno onorato la terra di Lucchesia.

Nato a Camaiore il 16 aprile 1922, Alfredo Bianchi vive a Lucca dal 1959. È stato direttore didattico e ha cominciato a scrivere a 24 anni, ottenendo, per un suo racconto, l’importante apprezzamento di Luigi Russo. Conserva nel proprio cassetto manoscritti inediti che hanno, come questo romanzo, quale tema principale “la storia e la psicologia infantile.”Il fiore rosso”; “Un’isola piccolissima”; “Giovani fascisti”; “Il paesetto”, se tutti pubblicati, formerebbero una tetralogia molto interessante. Inedite sono anche alcune raccolte di racconti: “Storie”; “Gli scalzacani”; “Harrié” e specialmente “Ululato”, ambientata quasi interamente nel periodo fascista e della guerra partigiana. Oltre a quella per la letteratura, l’altra sua grande passione è la pittura, e numerosi sono i quadri dipinti che arredano ed impreziosiscono la sua casa posta nella frazione di Sant’Anna, a due passi dalle Mura della città.
Il romanzo narra la storia di Vincè di Bugio, il nonno dell’autore. Il suo mestiere era l’imbianchino, che lo trascinava un po’ dappertutto nelle case della Versilia, a contatto con gli altri e soprattutto con le novità che si stavano affacciando nel mondo. Il paese di origine è Gallena, nel Camaiorese: “Gallena, il contadinume dei miei avi, servi del Borbone, lontano ed inaccesso come la luna. Gallena, però, è ancora là, con i suoi vigneti sciorinati a solatio, il palazzo merlato dei prìncipi: stuzzica il cervello un filo, lungo, sospeso, resistente come la tela di ragno agli altri pensieri.”
Ci accompagnerà nella storia una scrittura sanguigna, forte, restìa al sentimentalismo (“Il buio travalicava e gli alberi e le siepi parevano sfatti nel latte.”), colorita (“Avrebbe sentito l’odore degli scudi anche se fossero stati a mollo nella merda.”), dura e arcigna come la gente di quei luoghi (“Odiava le chiacchiere, la gente saputa che cerca di frugarti dentro e che, se nulla nulla gli dai corda, piano piano ti apre le brache per misurarti l’uccello.”), impregnata di vocaboli popolari, in parte scomparsi, che la rendono così intimamente legata alla storia che racconta.
Ai funerali di un membro della famiglia, coi quali si apre il romanzo, morto di tisi, molti hanno all’occhiello un fiore rosso. Domanda la piccola Amy: “Perché hanno il fiore rosso?”, le rispondono: “Babbo dice che sono sovversivi.”
Siamo alla fine dell’Ottocento quando si svolgono i fatti di cui è protagonista Vincè di Bugio (che significa “vuoto come le noci, come i polmoni di quasi tutti i Moriconi, con la testa confusa come la vita.”)
Nel palazzo Borbone, il palazzo dei signori, dove era a servizio chiamatovi dallo zio Michele che “nella villa dei Principi” era “un padreterno.”, lo zio incarica un imbianchino di Viareggio, Olinto Pezzini, un omino piccolo di statura, a tinteggiare “tutta la limonaia e le rimesse: lavoro di un mese che comportava la costruzione di ponti per raggiungere i punti più alti della volta.” Vincè è incaricato dallo zio di fargli da garzone. L’incontro con Olinto cambierà la sua vita.
Olinto, infatti, è un anarchico (“Dicono che abbia buttato bombe ai suoi tempi“, dirà un personaggio) e presto Vincè, con la stima che va consolidando nei confronti del maestro, ne assimila le idee: “I suoi discorsi erano chiari e logici e lui li ascoltava come il Vangelo.” All’invito di Olinto di andare a lavorare con lui, Vincè infine accetta, interrompendo la tradizione di famiglia che voleva i Moriconi impegnati a servizio del principe. Gli viene da sorridere pensando al “cugino Pietro che sarebbe diventato Canonico mentre lui avrebbe buttato bombe nelle chiese e tirato pugnalate ai preti…”
Lascia, dunque, il lavoro alla villa e si dirige a Gallena, il suo paese, in attesa di trasferirsi a Viareggio. Lungo il tragitto incontra un vecchio pastore che lo ospita e lo rifocilla, e nella conversazione che ha con lui già sente che nel popolo, nella gente umile, alberga la stessa fede che lo ha conquistato. Dice il pastore: “il governo va avanti a forza di tasse: sul tabacco, sul sale, sulla farina… Puoi durare un giorno… È come un rosario ma è contro la povera gente.”
Il padre Giovanni, invece, appartiene alla vecchia razza di contadini asserviti al padrone, ostici ad accogliere le novità. Così risponde, infatti, al figlio che gli comunica che vuole farsi artigiano e imparare il mestiere da Olinto Pezzini, imbianchino a Viareggio: “Chi è questo maestro Olinto del diavolo che ruba i lavoranti al principe? Un re, forse?” E ancora: “Nostro signore non tollera che i figli scappino dal podere. Se lo fanno sono maledetti.”; “Noi siamo contadini dei Principi, da secoli e così dobbiamo restare, con l’aiuto di Dio.”

Questa conversazione tra padre e figlio disegna, meglio di un ritratto, lo scontro di due epoche che vengono a confronto. Vincè è risoluto; coglie nella novità dei tempi, nelle nuove idee socialiste, nel loro simbolo, il garofano rosso, da cui il titolo, nei fermenti sociali, una occasione di riscatto da una condizione servile che ha imprigionato da sempre la sua famiglia: “Non mi sento né servo né contadino, padre, e voi dovete lasciarmi andare.” Non è facile, tuttavia. Dentro di sé ha un amore “sensuale” per la terra: “Restare voleva dire continuare a sentirsi la luna sul petto, la pioggia sopra la testa, in armonia con i pensieri.” Speranza per il nuovo e nostalgia per il vecchio che Vincè sta per abbandonare costituiscono qui uno spartiacque allo stesso tempo forte e sensibile. Si avverte, ossia, attraverso il personaggio, che è per succedere nella società un cambiamento mai visto fino allora. La terra sta per essere considerata non più elemento primario e sostanziale della vita della gente umile, ma è posta a pari delle altre arti destinate, forse e assai presto, a sopravanzarla nel segno di una libertà che la terra non era mai riuscita a dare.
L’autore, prima di seguire Vincè nella sua nuova avventura, accende davanti ai nostri occhi la magia di ciò che i tempi troppo frettolosi stanno per perdere: usanze e abitudini contadine che si sono tramandate dalla notte dei tempi. Assistiamo così, sedotti e ammirati, alla descrizione di una serata in cui i contadini, anziani e giovani, uomini e donne, si ritrovano presso la stalla di Giuseppe Coli, detto il Mère (che in francese sta per Sindaco), “un ometto rubizzo, la testa tonda come una noce. Aveva una coroncina di capelli biondastri, gli occhi piccoli e scuri, due denti davanti facevano aria come i merli del campanile della Badia.”, per celebrare una specie di rito collettivo: lo scartoccio del granturco. È l’occasione per stare insieme a chiacchierare, spettegolare, prendersi in giro, rimanere per qualche ora senza pensieri. Finito il lavoro: “Le pannocchie scartocciate restavano sull’aia a stuprare la luna.” Si tratta di uno dei momenti più vivaci e belli del libro, che tramanda e rammemora un’antica felicità, tra le tante che sono scomparse.
Bianchi scrive con amore, accarezzando i suoi scenari, colorandoli della patina del tempo. Noi viviamo quella fine Ottocento come se vi fossimo immersi; i cambiamenti soffiano e vibrano anche su di noi. La prima volta che, avanti l’alba, Vincè prende la strada per Viareggio, incontra altri operai, tutti che vanno a piedi calzando gli zoccoli. È una vita misera quella che conducono; quando possono tornano a casa la sera, per ripartire la mattina, in un percorso “da stella a stella”; altrimenti si trattengono sul posto di lavoro anche per più giorni, arrangiandosi per la notte.
Olinto vive in uno “stambugio sul fosso, vicino alla Torre” (il canale Burlamacca, ossia, e la Torre Matilde, che a quel tempo era ancora una prigione). Vincè domanda di lui a “tre ragazzini che pescavano”. Gli risponde il più grande: “Chi, il briào? Ma ora non c’è… È andato a puttane…”
Il lavoro a Viareggio gli consente di affacciarsi nelle case e di stare tra la gente. Si aggiorna sui fatti. Uno dei più eclatanti riguarda Leone XIII che vuole riprendersi Roma, e ha chiesto l’aiuto ai “re cristiani”. Anche a Viareggio sfilano le processioni per sostenere una tale richiesta, ma l’autore, non per nulla nipote di Vincè, le osserva indirizzandoci una strizzatina d’occhio: “Quando la processione partì, era una risata. Lo stendardo faceva zìmpete e zàmpete secondo il passo dello sciancato e, con quel po’ di brezza che spirava, sbattendo, pareva scorreggiasse in testa a quel mucchio di vecchiume.”
È il momento in cui l’attenzione del protagonista si rivolge alla povera gente. Olinto è troppo radicale, pensa, vuole ammazzare preti, frati, suore e re, ma “io non ammazzo nessuno.” Alla fine dell’Ottocento il clima era proprio questo in tutta la Versilia, dove si respirava forte il vento di Carrara, la città culla dell’anarchia. Un certo giorno, sul far della sera, si leva un grande incendio dalla darsena. Qualcuno ha appiccato il fuoco ad un cantiere navale. Accorre a vedere anche Vincè che, come Renzo Tramaglino ne “I Promessi Sposi”, viene sospettato per la sua amicizia con Olinto e condotto in carcere, prima nella Torre Matilde, poi a San Giorgio, a Lucca. Un altro riferimento al romanzo del Manzoni verrà nel capitolo XI con il saccheggio del forno al grido di “Pane e lavoro!”

L’affresco che il Bianchi va disegnando ha più di un punto di contatto, però, come vedremo, con un altro capolavoro, quello di Vasco Pratolini: “Metello”, che è del 1955.
Pur assolto, Vincè è ormai schedato e considerato un sovversivo, così decide di cambiare aria e si trasferisce a Camaiore dove trova lavoro presso un barbiere. Anche in questo caso il suo nuovo maestro non simpatizza per il re, è un mazziniano, si chiama Tubalcane, “un omino rosso di pelo, con pizzo alla Luigi Napoleone.
Con lui, oltre ad imparare un nuovo mestiere, apprende a leggere e a scrivere e conosce altri avventori che la pensano come il suo padrone, tra i quali “Francesco Stagi, Cecco di Santetto, com’era meglio conosciuto, camicia rossa dei Mille, mangiapreti, mercante d’olio, proprietario di casa in quel della Rocca.”, il quale ha sei figli tutti belli, tra cui tre femmine. Vincè sposa Fulvia, una di loro, “una ragazza snella, portava i capelli legati stretti sul capo e mostrava un collo bianco e sottile come quello della duchessina delle Pianore. Parlava poco.” S’industria a fare il barbiere e l’imbianchino, sperando che la fortuna giri dalla sua parte, come è accaduto ad alcuni commercianti e artigiani del posto, tra i quali proprio Santetto; bisognava però stare attenti al canonico Vannucchi che prestava denaro e, quando arrivava il momento, si impadroniva della proprietà del suo debitore, arricchendosi sempre di più. L’autore disegna ritratti di popolani (la splendida Veneziana, sopra di tutti, e la sfortunata Maria, la prima fidanzata di Vincè) e di arricchiti che rendono frizzante il quadro di una trasformazione sociale in cui gli ideali socialisti che scuotono molte coscienze ancora devono fare i conti con le furbizie e gli egoismi della società: “Sì, ci vuole la forza ma come si fa a sparare ad un uomo? Come si fa a bruciare un raccolto? Il male genera male, così come il seme di cavolo genera cavoli e quello della zucca le zucche! Se ciascuno fosse capace di capire il discorso sarebbe semplice, senza ammazzamenti e senza violenza.” Vincè deve lottare contro gli egoismi che albergano anche tra la povera gente. La solidarietà tra di essi è ancora debole e diffidente. Uno dice: “Sarebbe meglio usare i soldi per comprare polvere da mine e rovesciare il mondo!” Sono novità urgenti che trovano molti impreparati. Siamo nel 1882: ci stiamo avvicinando al nuovo secolo. Cresce la voglia di rivoluzione, ma “La rivoluzione era un problema di organizzazione e di comando.” Ci si mette anche la guerra d’Africa (siamo nel 1886) ad inasprire la miseria tra i poveri. La parola d’ordine diventa quella della ribellione, dello sciopero. Anche Vincè è costretto a tirare la cinghia, ha un bel po’ di figli (arriverà a sette); difficile portare soldi sufficienti a casa. Cominciano le prime rivolte “in Sicilia, a Carrara, a Milano, in Romagna, un po’ dappertutto.”; “La coscienza cresce nella lotta, non a freddo.” Il richiamo a Pratolini si fa sempre più stringente. Come Pratolini dipinge i fermenti sociali nella Firenze di fine Ottocento (tra il 1875 e il 1902), altrettanto fa Bianchi per la Versilia, e per lo stesso periodo. Tubalcane e Olinto fanno le veci del Betto pratoliniano, anarchico pure lui, che insegna a Metello a leggere e a scrivere, nonché la cultura nuova del socialismo.
Vincè ormai è diventato uomo di lotta: “Voleva vivere come un uomo, non come una bestia.” Inseguito dai carabinieri sui monti del Camaiorese, insieme coi compagni decide di fuggire via mare per rifugiarsi in Corsica. Là c’è lavoro. I toscani vi accorrono da secoli a fare i carbonai e a tagliare i boschi. Bianchi apre delle pagine molto belle che ricordano quelle del capolavoro di Giuseppe Dessì, “Paese d’ombre“, del 1972.
Il periodo trascorso in Corsica, dove gli italiani erano considerati peggio che degli straccioni e pagati una miseria, ci dà modo di incontrare Pietro Tosi, “un colosso, nero di pelle e di vestito, che si mise a dare pacche sulle spalle ai quattro come li avesse sempre conosciuti.” È lui che li prende a lavorare nei boschi e li tratta da pari. È cristiano e non socialista e anche quando gli capiterà una disgrazia, insisterà per mantenere con Vincè e i suoi compagni gli impegni assunti. Ma in Italia che cosa succede? Non ci sono cambiamenti, nonostante che nel giugno del 1900 gli oppositori siano saliti al governo, mandando a casa Crispi: “Cambia cavallo ma l’Italia è sempre un barroccio, non è diventata un treno… Credevi che i signori fossero diventati scemi?” I fuggiaschi decidono di rientrare ed è lo stesso barco di padron Piero a ricondurli sulle coste della Versilia, e “Una società perfezionata nel blandire, perseguitare, colpire, schiacciare, ignorare o spegnere, era lì ad accoglierli.”

Bianchi esprime tutto il suo pessimismo sulla possibilità di cambiare le cose. I suoi personaggi vivono dentro un’amara e sofferta illusione. Di lì a poco, il 29 luglio dello stesso anno, accade a Monza il fatto terribile dell’assassinio del re Umberto I, ucciso dall’anarchico Bresci. Forse ci si sta risvegliando. L’assassinio di un re è il segno di una vicina riscossa. Ci crede più Fulvia, ormai, che Vincè, il quale è convinto che “nemmeno le speranze sono roba da poveri. I poveri non possono averle. Punto e basta.” È la moglie, infatti (“Sembrava che lei sola fosse socialista.”), che dice al vetturino Giuseone, loro vicino di casa: “Io capisco chi ammazza i tiranni! È necessario come ammazzare le serpi…”  E al marito: “Uomo, da un po’ di tempo non ti riconosco: te la fai addosso per un nonnulla. Animo! O ti è cascato l’uccello in Corsica?” Vincè è rimasto, in realtà, quello di sempre, contrario alla violenza. Nella sua casa pare affacciarsi la morte. Due suoi figli Alfredo e Alfonso hanno imparato un mestiere, sono artigiani fini, ma malaticci. Vincè concentra su di essi tutte le sue preoccupazioni. Quando i vecchi compagni vengono a dirgli – siamo nel 1904 – di prendere parte allo sciopero, così risponde: “Non ho più testa per queste cose. Mi sta crollando la casa…” Andati che sono i compagni “prese a dare pugni sul muro finché le mani non gli vennero rosse e il sangue cominciò a sgorgare.”
Bianchi ci descrive la morte di Alfonso e di Alfredo con squisito pudore, le parole sono parche ma trasportano sulle loro ali i sogni e i desideri che si infrangono, nonché la percezione del mistero che stupisce e acquieta: “‘Chissà cosa vuol dire morire! Deve essere non sapere più nulla, riposare, non pensare.’ Gli parve bello, si sentiva tanto stanco e senza voglia di lottare.”; “Vincenzo lo trovò seduto ad occhi aperti ma, non appena lo toccò, il suo corpo scivolò sulle ginocchia facendo un rumore di legno secco.” È Alfredo che muore, dopo che, giovane di diciannove anni, se n’era già andato Alfonso.
Il romanzo si chiude con l’inizio della guerra di Libia – siamo nel 1912 -; ci sono donne che si stendono sui binari con in braccio i figli per scongiurare la partenza dei mariti, e ci sono ragazze che si affacciano alla finestra e cantano inneggiando alla guerra: “Era come il dialogo sulla morte, quello che aveva lasciato sospeso col Nucci nella bettola di Alvise.”
Vincè è rassegnato e vinto. Come nel romanzo di Zola, “Nanà“, del 1880, mentre da una parte avvizziscono e muoiono gli ideali, dall’altra gli stessi vengono esaltati affinché si scontrino con la morte.


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Bart