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LETTERATURA: I MAESTRI: Il compito del traduttore

31 Dicembre 2007

di Walter Benjamin
[da: “Angelus Novus”, 1955]

Mai, di fronte a un’opera d’arte o a una forma artistica, si rivela fecondo per la sua conoscenza il riguardo a chi la riceve.

Non solo ogni riferimento a un pubblico determinato o ai suoi esponenti porta fuori strada: ma anche il concetto di un ricettore « ideale » è nocivo in tutte le indagini estetiche, poiché queste sono semplicemente tenute a presupporre l’esistenza e la natura dell’uomo in generale. Così anche l’arte si limita a presupporre la natura fisica e spirituale dell’uomo – ma, in nessuna delle sue opere, la sua attenzione. Poiché nessuna poe ­sia è rivolta al lettore, nessun quadro allo spettatore, nessuna sinfonia agli ascoltatori.

È rivolta una traduzione ai lettori che non comprendono l’origi ­nale? Ciò sembra spiegare a sufficienza la differenza di rango fra l’uno e l’altra nel regno dell’arte. Inoltre sembra questa la sola ragione pos ­sibile di ripetere più volte « la stessa cosa ». Ma che cosa « dice » un’o ­pera poetica? Che cosa comunica? Assai poco a chi la comprende. L’essenziale, in essa, non è comunicazione, non è testimonianza. Ma la traduzione che volesse trasmettere e mediare non potrebbe mediare che la comunicazione – e cioè qualcosa di inessenziale. Ed è questo infatti un segno di riconoscimento delle cattive traduzioni. Ma ciò che si trova, in un’opera poetica, oltre e al di là della comunicazione – e anche il cattivo traduttore ammette che si tratta dell’essenziale -, non è generalmente considerato come l’inafferrabile, misterioso, « poe ­tico »? Che il traduttore può riprodurre solo in quanto si mette a poetare a sua volta? Di qui deriva, in effetti, un secondo contrassegno della cattiva traduzione, che si può definire così come una trasmissione imprecisa di un contenuto inessenziale. E così si resta finché la traduzione pretende di servire al lettore. Ma se la traduzione fosse destinata al lettore, dovrebbe esserlo anche l’originale. Se l’originale non esiste per il lettore, perché la traduzione dovrebbe potersi intendere in base a questo riferimento?

La traduzione è una forma. Per intenderla come tale, bisogna risalire all’originale. Poiché la legge della traduzione è racchiusa in esso o nella sua stessa traducibilità. La questione della traducibilità d un’opera può essere intesa in due sensi. E cioè può significare: se l’opera troverà mai, nella totalità dei suoi lettori, un traduttore adeguato; o – e più propriamente – se l’opera, nella sua essenza, consenta una traduzione, e quindi – giusta il significato di questa forma – la esiga. In linea di principio la prima questione ammette solo una solu ­zione problematica, mentre quella della seconda è apodittica. Solo un pensiero superficiale, negando il significato indipendente della seconda, le dichiarerà equivalenti. Di fronte ad esso bisogna richiamare l’atten ­zione sul fatto che certi concetti di relazione conservano tutto il loro significato, anzi forse il loro significato migliore, se non sono riferiti a priori esclusivamente all’uomo. Così si potrebbe parlare di una vita o di un istante indimenticabile, anche se tutti gli uomini li avessero dimenticati. Poiché se la loro essenza esigesse di non essere dimenti ­cati, quel predicato non conterrebbe nulla di falso, ma solo un’esigenza a cui gli uomini non corrispondono, e insieme il rinvio a una sfera in cui fosse corrisposta: a un ricordo di Dio. Analogamente, la traduci ­bilità di configurazioni linguistiche dovrebbe essere tenuta presente anche se esse fossero intraducibili per gli uomini. E non lo sono forse di fatto, almeno in una certa misura, secondo un concetto rigoroso della traduzione? – È in questa forma separata che bisogna porre la questione se la traduzione di determinate creazioni linguistiche sia, o meno, esigibile. Poiché si può affermare che se la traduzione è una forma, la traducibilità deve essere essenziale a certe opere.

La traducibilità inerisce essenzialmente a certe opere: ciò non signi ­fica che la loro traduzione sia essenziale per le opere stesse, ma vuol dire che un determinato significato inerente agli originali si manifesta nella loro traducibilità. Che una traduzione, per quanto buona, non possa mai significare qualcosa per l’originale, è fin troppo evidente. E tuttavia essa è in intimo rapporto con l’originale in forza della sua tra ­ducibilità. Anzi, questo rapporto è tanto più intimo in quanto per l’o ­riginale in sé non significa più nulla. Può essere definito naturale, o meglio ancora un rapporto di vita. Come le manifestazioni vitali sono intimamente connesse col vivente senza significare qualcosa per lui, così la traduzione procede dall’originale, anche se non dalla sua vita quanto piuttosto dalla sua « sopravvivenza ». Tanto è vero che la traduzione è più tarda dell’originale, e segna appunto, nelle opere eminenti, che non trovano mai i loro traduttori d’elezione all’epoca in cui sorgono, lo stadio della loro sopravvivenza.  È in senso pienamente concreto, e non metaforico, che bisogna intendere l’idea della vita e sopravvivenza delle opere d’arte. Che la vita non si debba attribuire solo alla fisicità organica, è stato intuito anche nelle epoche in cui il pensiero era più prevenuto. Ma non si tratta di estendere l’impero della vita sotto il fragile scettro dell’anima, come ha cercato di fare Fechner; per non dire che la vita possa essere definita in base ai momenti ancor meno determinanti dell’animalità, come il sentire, che la può caratterizzare solo occasionalmente. È solo quando si riconosce vita a tutto ciò di cui si dà storia e che non è solo lo scenario di essa, che si rende giu ­stizia al concetto di vita. Poiché è in base alla storia, e non alla natura, per tacere di una natura così incerta come il sentire o l’anima, che va determinato, in ultima istanza, l’ambito della vita. Di qui deriva, per il filosofo, il compito di intendere ogni vita naturale in base a quella più ampia della storia. E non è, almeno la sopravvivenza delle opere, molto più facilmente riconoscibile di quella delle creature? La storia delle grandi opere d’arte conosce la loro discendenza dalle fonti, la loro formazione nell’epoca dell’artista e il periodo della loro soprav ­vivenza – di massima eterna – presso le generazioni successive. Questa sopravvivenza, quando viene alla luce, prende il nome di gloria. Tra ­duzioni che sono più che semplici trasmissioni, sorgono quando un’o ­pera ha raggiunto, nella sua sopravvivenza, l’epoca della sua gloria. Per cui non tanto servono alla sua gloria, come ì cattivi traduttori af ­fermano del loro lavoro, quanto piuttosto le devono la loro esistenza. In esse la vita dell’originale raggiunge, in forma sempre rinnovata, il suo ultimo e più comprensivo dispiegamento.

Questo dispiegamento, che è quello di una vita elevata e peculiare è determinato da una finalità altrettanto peculiare e elevata. Vita e finalità: il loro rapporto apparentemente evidente e che pure quasi si sottrae alla conoscenza, si dischiude solo se quello scopo a cui collaborano tutte le singole finalità della vita non è a sua volta cercato nella sfera stessa della vita, ma in una sfera superiore. Tutte le manifesta ­zioni finalistiche della vita, come la loro finalità in generale, non ten ­dono in definitiva alla vita, ma all’espressione della sua essenza, all’e ­sposizione del suo significato. Così la traduzione tende in definitiva all’espressione del rapporto più intimo delle lingue fra loro. Essa stessa non può certo rivelare o istituire questo rapporto segreto; ma può rap ­presentarlo in quanto lo realizza in forma embrionale o intensiva. E questa rappresentazione di un oggetto significato mediante il tentativo, lo spunto della sua costituzione, è un modo di esposizione affatto peculiare, quale difficilmente si può trovare nell’ambito della vita non-linguistica. Poiché questa possiede, nelle analogie e nei segni, forme di riferimento diverse dalla realizzazione intensiva, e cioè allusiva e anticipatoria. – Ma l’accennato intimo rapporto delle lingue è quello di una convergenza tutta particolare. Esso consiste nel fatto che le lingue non sono estranee fra loro, ma a priori, e a prescindere da ogni rapporto storico, affini in ciò che vogliono dire.

Con questo tentativo di spiegazione, sembra che l’indagine sfoci nuovamente, dopo una serie di vani rigiri, nella teoria tradizionale della traduzione. Poiché si potrebbe dire: se nelle traduzioni deve inverarsi l’affinità delle lingue, ciò non può accadere se non in quanto esse tra ­smettano, con la massima esattezza possibile, forma e significato dell’originale. Senonché quella teoria non saprebbe definire il significato di questa esattezza, e non potrebbe quindi, alla fine, render conto di ciò che è essenziale nelle traduzioni. Ma in realtà l’affinità delle lingue si esprime, in una traduzione, in forma molto più profonda e definita che non sia la superficiale e vaga somiglianza di due opere poetiche. Per cogliere il vero rapporto fra originale e traduzione, occorre avviare una considerazione affatto simile, nel suo intento, alle argomentazioni con cui la critica della conoscenza prova l’impossibilità di una teoria della copia o della riproduzione dell’oggetto. Come si mostra che nella conoscenza non potrebbe darsi obbiettività, e neppure la pretesa ad essa, se essa consistesse in copie o riproduzioni del reale, così si può dimostrare che nessuna traduzione sarebbe possibile se la traduzione mirasse, nella sua ultima essenza, alla somiglianza con l’originale. Poiché nella sua sopravvivenza, che non potrebbe chiamarsi così se non fosse mutamento e rinnovamento del vivente, l’originale si trasforma.

C’è una maturità postuma anche delle parole che si sono fissate. Ciò che ai tempi di un autore può essere stato la tendenza del suo lin ­guaggio poetico, può in seguito essere chiuso e finito, tendenze impli ­cite possono sorgere ex novo dal testo già formato. Ciò che allora era nuovo, può essere in seguito logoro e consumato, ciò che allora era corrente, può suonare in seguito arcaico. Cercare l’essenziale di questi mutamenti – come anche di quelli, non meno continui, del significato – nella soggettività dei posteri, anziché nella vita più intima della lingua e delle sue opere, significherebbe – anche ammesso il più crudo psi ­cologismo – scambiare essenza e motivo di una cosa, o, più esatta ­mente, negare uno dei più potenti e fecondi processi storici per debo ­lezza di pensiero. E anche se si volesse fare dell’ultimo tratto di penna dell’autore il colpo di grazia dell’opera, neppure questo potrebbe sal ­vare quella morta teoria della traduzione. Poiché, come il tono e il si ­gnificato delle grandi opere poetiche cambiano radicalmente coi secoli, così cambia anche la lingua materna del traduttore. Anzi, mentre la parola del poeta sopravvive nella sua lingua, anche la più grande delle traduzioni è destinata a entrare (e ad essere assorbita) nello sviluppo della lingua, e a perire nel suo rinnovamento. La traduzione è così lon ­tana dall’essere la sorda equazione di due lingue morte, che – fra tutte le forme – proprio ad essa tocca come compito specifico di avvertire e tener presente quella maturità postuma della parola straniera, e i dolori di gestazione della propria.

Se nella traduzione si esprime l’affinità delle lingue, ciò non ha luogo per una vaga somiglianza della riproduzione e dell’originale. Come è evidente, in generale, che all’affinità non deve corrispondere necessariamente una somiglianza. E il concetto di affinità concorda, in questo contesto, col suo uso più stretto (1), anche nel senso che esso ne può essere sufficientemente definito (in entrambi i casi) da identità di discendenza, conciossiaché – per la determinazione di quell’uso più stretto – il concetto di discendenza rimanga indispensabile. – In che cosa si può cercare l’affinità di due lingue – a prescindere da una parentela storica? Certo altrettanto poco nella somiglianza di opere poe ­tiche che in quella delle loro parole. Piuttosto, ogni affinità metastorica delle lingue consiste in ciò che in ciascuna di esse, presa come un tutto, è intesa una sola e medesima cosa, che tuttavia non è accessibile a nessuna di esse singolarmente, ma solo alla totalità delle loro inten ­zioni (2) reciprocamente complementari: la pura lingua. Mentre cioè tutti i singoli elementi – parole, proposizioni, nessi sintattici – di lingue diverse si escludono reciprocamente, esse si integrano nelle loro stesse intenzioni. Per cogliere esattamente questa legge – una delle leggi fon ­damentali della filosofia del linguaggio – bisogna distinguere, nell’in ­tenzione, dall’inteso il modo di intendere. In Brot e pain l’inteso è senza dubbio identico, ma il modo di intenderlo non lo è. Dipende, cioè, dal modo di intendere che le due parole significano qualcosa di diverso per il francese e per il tedesco, che non sono intercambiabili per l’uno e per l’altro, e che anzi, in ultima istanza, tendono a esclu ­dersi; mentre dipende dall’inteso che esse, prese assolutamente, signi ­ficano una sola e medesima cosa. Mentre così il modo di intendere, in queste due parole, diverge reciprocamente, esso si integra nelle due lingue a cui esse appartengono. E precisamente, in esse, i modi di in ­tendere si integrano nell’inteso. Nelle lingue singole, non integrate, il loro inteso non si trova mai in relativa indipendenza, come nelle sin ­gole parole o proposizioni, ma è piuttosto in un continuo divenire, in attesa di affiorare come la pura lingua dall’armonia di tutti quei modi di intendere. Fino a quel momento esso rimane nascosto nelle lingue. Ma se esse si sviluppano così fino alla fine messianica della loro storia, è la traduzione, che si accende all’eterna sopravvivenza delle opere e all’infinita reviviscenza delle lingue, a fare sempre di nuovo la prova di quella sacra evoluzione o crescita delle lingue: quanto il loro segreto sia lontano dalla rivelazione, quanto possa diventar ­e presente nel sapere di questa distanza.

Ciò equivale ad ammettere che ogni traduzione è solo un modo sempre provvisorio di fare i conti con l’estraneità delle lingue. Altra soluzione che temporale e provvisoria, una soluzione istantanea e definitiva di questa estraneità, rimane vietata agli uomini o non è, comunque, direttamente perseguibile. Ma, indirettamente, è la crescita delle religioni che matura nelle lingue il seme nascosto di una lingua più alta. La traduzione quindi, per quanto non possa pretendere alla durata delle sue creazioni, e si differenzi in ciò dall’arte, non nasconde  la sua tendenza a uno stadio ultimo, definitivo e decisivo di ogni for ­mazione linguistica. In essa l’originale trapassa, per così dire, in una zona superiore e più pura della lingua, in cui a lungo andare non può vivere, come del resto è lontano dal raggiungerla in tutte le parti della sua figura, ma a cui tuttavia perlomeno accenna, in modo straordina ­riamente penetrante, come al regno predestinato e negato della conci ­liazione e dell’adempimento delle lingue. Esso non raggiunge mai in blocco questo regno o quella zona, ma ad essa appartiene ciò che, in una traduzione, è più che mera comunicazione. Più esattamente, questo nocciolo essenziale si potrebbe definire come ciò che – in una traduzione – non è a sua volta traducibile. Si tolga cioè, da una tradu ­zione, tutto ciò che in essa è comunicazione, e lo si traduca, e resterà tuttavia, intatto e intangibile, ciò a cui mirava il lavoro del vero tra ­duttore. E ciò non si lascia trasferire a sua volta come il verbo poetico dell’originale, poiché il rapporto del contenuto alla lingua è affatto di ­verso nell’originale e nella traduzione. Se essi formano, nel primo, una certa unità come il frutto e la scorza, la lingua della traduzione avvolge il suo contenuto come un mantello regale in ampie pieghe. Poiché essa significa una lingua superiore a quella che essa è, e resta quindi inade ­guata rispetto al suo contenuto, possente ed estranea. Questa incon ­gruenza impedisce ogni ulteriore trasposizione e, nello stesso tempo, la rende superflua. Poiché ogni traduzione di un’opera da un deter ­minato punto temporale della storia linguistica rappresenta e sostitui ­sce (per un determinato aspetto del suo contenuto) quelle in tutte le altre lingue. La traduzione trapianta quindi l’originale in un dominio linguistico almeno in tanto – ironicamente – più definitivo, in quanto l’originale stesso non può più esserne trasferito da alcuna nuova traduzione, ma solo elevato sempre di nuovo e in altre parti in esso. Non a caso la parola « ironico » può ricordare qui argomentazioni dei ro ­mantici. Essi hanno capito prima di altri che le opere hanno una vita e di questa vita la traduzione è una suprema conferma. È vero che essi non hanno riconosciuto questo valore della traduzione, e hanno rivolto tutta la loro attenzione alla critica, che rappresenta anch’essa un momento, benché minore, della sopravvivenza delle opere. Ma an ­che se la loro teoria non si è quasi rivolta alla traduzione, la loro stessa grande opera di traduttori implicava il sentimento dell’essenza e della dignità di questa forma. Questo sentimento – come tutto fa ritenere – non è di necessità più forte nel poeta; anzi, in lui come poeta, trova forse posto meno che in ogni altro. Neppure la storia conforta il pre ­giudizio tradizionale per cui i traduttori eminenti sarebbero poeti e poeti mediocri cattivi traduttori. Molti dei maggiori, come Lutero, Voss, Schlegel, sono incomparabilmente più significativi come tradut ­tori che come poeti; altri fra i massimi, come Hölderlin e George, non si possono intendere, nell’ambito totale della loro creazione, sotto il solo concetto di poeta – e meno che mai come traduttori. Come la tra ­duzione è una forma propria, così anche il compito del traduttore va inteso come un compito a sé e nettamente distinto da quello del poeta.

Esso consiste nel trovare quell’atteggiamento verso la lingua in cui si traduce, che possa ridestare, in essa, l’eco dell’originale. Appare qui un tratto assolutamente distintivo della traduzione rispetto all’opera poetica, l’intenzione della quale non è mai diretta alla lingua come tale, alla sua totalità, ma solo e immediatamente a determinati contenuti linguistici. Ma la traduzione non si trova, come l’opera poetica, per così dire all’interno della foresta del linguaggio, ma al di fuori di essa, dirimpetto ad essa, e, senza porvi piede, vi fa entrare l’originale, e ciò in quel solo punto dove l’eco nella propria lingua può rispondere all’o ­pera della lingua straniera. Non solo la sua intenzione è rivolta a qual ­cosa d’altro da quella dell’opera poetica, e cioè ad una lingua nel suo complesso a partire da una singola opera d’arte in una lingua straniera, ma è essa stessa diversa: quella del poeta è ingenua, primaria, intuitiva, del traduttore derivata, ultima, ideale. Poiché il grande motivo dell’integrazione delle molte lingue nella sola lingua vera è quello che ispira il suo lavoro. Un lavoro in cui le singole proposizioni, opere, non giungono mai ad intendersi – come quelli che restano affidati ­alla traduzione -, ma in cui le lingue stesse concordano fra loro, integrate e riconciliate nel modo del loro intendere. Ma se c’è una lin ­gua della verità, in cui gli ultimi segreti intorno a cui ogni pensiero si affatica sono conservati senza tensione e quasi tacitamente – questa lingua della verità è la vera lingua. E proprio questa lingua, nel presen ­tire e descrivere la quale è la sola perfezione cui il filosofo può aspirare, è intensivamente nascosta nelle traduzioni. Non c’è una musa della filosofia, e non c’è nemmeno una musa della traduzione. Ma ba ­nausiche, come vorrebbero artisti sentimentali, esse non sono. Poiché c’è un ingegno filosofico il cui carattere più intimo è l’aspirazione a quella lingua che si annuncia nella traduzione: « Les langues impar ­faites en cela que plusieurs, manque la supríªme: penser étant écrire sans accessoires, ni chuchotement mais tacite encore l’immortelle pa ­role, la diversité, sur terre, des idiomes empíªche personne de proférer les mots qui, sinon se trouveraient par une frappe unique, elle-míªme matériellement la vérité ». Se ciò a cui alludono queste parole di Mal ­larmé si lascia definire esattamente dal filosofo, allora la traduzione, coi suoi germi di una lingua siffatta, è a metà strada fra la poesia e la dottrina. La sua opera è meno caratterizzata dell’una e dell’altra, ma non s’imprime meno profondamente nella storia.

Se il compito del traduttore appare in questa luce, le vie della sua soluzione rischiano di diventare tanto più oscure e inestricabili. Anzi, il compito di far maturare nella traduzione il seme della pura lingua, sembra affatto insolubile, indefinibile in alcuna soluzione. Poiché non si sottrae il terreno ad ogni soluzione quando la riproduzione del significato cessa di essere determinante? Poiché questo – volto negati ­vamente – è il significato di tutto quanto precede. Fedeltà e libertà – libertà della riproduzione conforme al senso e, al suo servizio, fe ­deltà alla parola – sono i concetti tradizionali in ogni disputa sulle tra ­duzioni. A una teoria che cerca altro, nella traduzione, dalla riproduzione del senso, non pare che essi possano più servire. È vero che il loro impiego tradizionale vede sempre questi concetti in un’antinomia insolubile. Che cosa può rendere, infatti, proprio la fedeltà per la ri ­produzione del senso? La fedeltà nella traduzione della parola singola: non può quasi mai riprodurre pienamente il senso che essa ha nell’originale. Poiché il senso, nel suo valore poetico per l’originale, non si esaurisce nell’inteso, ma riceve quel valore proprio dal modo in cui l’inteso è legato al modo di intendere nella parola specifica. È ciò che si suol dire nella formula che le parole recano con sé una tonalità af ­fettiva. Proprio la fedeltà letterale nei confronti della sintassi scon ­volge interamente la riproduzione del senso e rischia di condurre difi ­lato all’inintelligibilità. L’Ottocento aveva davanti le traduzioni hölder ­liniane da Sofocle come esempi mostruosi di questa fedeltà alla lettera. Quanto poi la fedeltà nella riproduzione della forma renda difficile la riproduzione del senso, è cosa che si intende da sé. Quindi l’esigenza della fedeltà alla lettera è indeducibile dall’interesse della conserva ­zione del senso. A quest’ultima serve assai più – anche se assai meno alla poesia e alla lingua – la libertà indisciplinata di cattivi traduttori. Quell’esigenza, il cui diritto è palese, la cui ragione è profondamente nascosta, va quindi intesa in base a rapporti più validi. Come i fram ­menti di un vaso, per lasciarsi riunire e ricomporre, devono susseguirsi nei minimi dettagli, ma non perciò somigliarsi, così, invece di assimi ­larsi al significato dell’originale, la traduzione deve amorosamente, e fin nei minimi dettagli, ricreare nella propria lingua il suo modo di in ­tendere, per far apparire così entrambe – come i cocci frammenti di uno stesso vaso – frammenti di una lingua più grande. Proprio perciò essa deve prescindere, in misura elevata, dall’intento di comunicare alcunché, dal senso, e l’originale le è essenziale, in questo, solo in quanto ha già liberato il traduttore e la sua opera dalla fatica e dal ­l’ordine della comunicazione. Anche nell’ambito della traduzione vale: έv Î¬ÏÏ‡í± í±v ÏŒ λόγος, all’inizio era la parola. Perciò la sua lingua può, anzi deve agire liberamente nei confronti del senso, per non riprodurre l’in ­tentio di quello, ma come armonia, come integrazione alla lingua in cui quell’intentio si comunica, far risuonare il proprio genere di intentio. Per cui non è, specie all’epoca del suo sorgere, il vanto supremo della traduzione, quello di leggersi come un originale della sua lingua. Anzi della fedeltà, che è garantita dalla letteralità, è proprio questo: che ­si esprima, nell’opera, la grande aspirazione all’integrazione linguistica. La vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra, ma lascia cadere tanto più interamente sull’originale, come rafforzata dal suo proprio mezzo, la luce della pura lingua. Ciò che si ottiene soprattutto con la fedeltà nella riproduzione della sintassi, ed essa mostra che la parola, e non la proposizione, è l’elemento del traduttore. Poiché la proposizione è come un muro davanti alla lingua dell’originale, mentre la parola singola è l’arcata.

Se fedeltà e libertà della traduzione sono state considerate da sempre ­tendenze divergenti, anche questa più profonda interpretazione dell’una non sembra tale da riconciliarle, ma, anzi, da negare all’altra ogni diritto. A che si riferisce infatti la libertà se non alla riproduzi ­one del senso, che (secondo questa interpretazione) deve cessare ­di essere normativa? Ma – se è lecito identificare il senso di una creazione linguistica con quello della sua comunicazione – resta pur sempre, vicinissimo ad esso eppure infinitamente lontano, nascosto sotto di esso o più chiaro, oscurato o più forte, al di là di ogni comunicazione, qualcosa di ultimo e decisivo. Rimane, in ogni lingua e nelle creazioni, oltre il comunicabile un non-comunicabile, qualcosa   – secondo il rapporto in cui lo si coglie – di simboleggiante o di simboleggiato. Di solo simboleggiante nelle creazioni finite delle lingue; ma simboleggiato nel divenire delle lingue stesse. E ciò che cerca di esporsi, anzi di costituirsi nel divenire delle lingue, ciò è quel nucleo della pura lingua stessa. Che se questo nucleo, benché nascosto e frammentario, è tuttavia presente nella vita come il simboleggiato stesso, è solo simboleggiato nelle creazioni. Se quell’ultima essenza che è la pura lingua stessa è vincolata, nelle lingue, solo al materiale linguistico e alle sue trasformazioni, essa è gravata, nelle creazioni, dal senso greve ed estraneo. Liberarla da questo senso, fare del simboleggiante il simboleggiato stesso, riottenere – nel movimento linguistico – foggiata la pura lingua, è il grande ed unico potere della traduzione. In questa pura lingua, che più nulla intende e più nulla esprime, ma come parola priva di espressione e creativa è l’inteso in tutte le lingue, ogni comunicazione, ogni significato e ogni intenzione pervengono ad una sfera in cui sono destinati ad estinguersi. E proprio in essa la libertà della traduzione riceve un nuovo e superiore diritto. Non è dal senso della comunicazione (liberare dal quale è proprio il compito della fedeltà) che la libertà riceve la sua ragion d’essere. Essa piuttosto si esercita, in nome della pura lingua, su e nei confronti della propria. Redimere nella propria quella pura lingua che è racchiusa in un’altra; o, prigioniera nell’opera, liberarla nella traduzione – è questo il compito del traduttore. In nome del quale egli spezza limiti annosi della propria lingua: Lutero, Voss, Hölderlin, George, hanno allargato i confini del tedesco. Il valore – stando così le cose – che rimane al senso per il rapporto di originale e traduzione, si può riassumere in un’immagine. Come la tangente tocca la circonferenza di sfuggita e in un solo punto, e come questo contatto sì, ma non il punto, le prescrive la sua legge, per cui essa continua all’infinito la sua via retta, così la traduzione tocca l’originale di sfuggita e solo nel punto infinitamente piccolo del senso, per continuare, secondo la legge della fedeltà, nella libertà del movimento linguistico, la sua propria via. Il vero significato di questa libertà, an ­che senza citarla né spiegarla, è stato definito da Rudolf Pannwitz in alcune considerazioni contenute nella sua Crisi della cultura europea, e che sono probabilmente, insieme alle tesi di Goethe nelle note al Divan, quanto di meglio si sia pubblicato in Germania sulla teoria della traduzione. Vi si dice che « le nostre versioni, anche le migliori, par ­tono da un falso principio, in quanto si propongono di germanizzare (3) l’indiano, il greco, l’inglese, invece di indianizzare, grecizzare, inglesiz ­zare il tedesco. Esse hanno un rispetto molto maggiore per gli usi della propria lingua che per lo spirito dell’opera straniera… L’errore fonda ­mentale del traduttore è di attenersi allo stadio contingente della pro ­pria lingua invece di lasciarla potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera. Egli deve, specie quando traduce da una lingua molto remota, risalire agli ultimi elementi della lingua stessa, dove parola, immagine e suono si confondono; egli deve allargare e approfondire la propria lingua mediante la lingua straniera; non si ha l’idea della misura in cui ciò è possibile, e in cui ogni lingua si può trasformare, e lingua da lingua si distingue quasi solo come un dialetto dall’altro, e non già se è presa troppo disinvoltamente e alla leggera, ma proprio quando è presa in tutto il suo peso ».

Fino a che punto una traduzione possa corrispondere all’essenza di questa forma, è determinato oggettivamente dalla traducibilità dell’originale. Quanto minor valore e dignità ha la sua lingua, quanto più esso è comunicazione, e tanto meno se ne può ricavare per la traduzione, finché l’assoluto primato di quel senso, lungi dall’essere la leva di  una traduzione piena di forma, la rende impossibile. Quanto più alta la qualità di un’opera, e tanto più essa rimane – anche nel contatto più fuggevole col suo significato – ancora traducibile. Ciò vale, naturalmente, solo per gli originali. Le traduzioni, invece, si rivelano intraducibili non per la gravità, ma per l’eccessiva leggerezza con cui il significato aderisce ad esse. Di ciò, come in ogni altro rispetto fondamentale, si prestano a conferma le traduzioni di Hölderlin, specie quelle delle due tragedie di Sofocle. In esse l’armonia delle lingue è così profonda, che il significato resta solo sfiorato dalla lingua come un’arpa eolica dal vento. Le traduzioni di Hölderlin  sono archetipi della loro forma; esse stanno, anche alle traduzioni più perfette dei loro te ­sti, come l’archetipo al modello, come risulta dal confronto fra le traduzioni di Hölderlin e di Borchardt della terza ode pitica di Pindaro. Proprio perciò abita in esse, più che in altre, il pericolo terribile e ori ­ginario di ogni traduzione: che le porte di una lingua così estesa e dominata si chiudano – e chiudano il traduttore nel silenzio. Le traduzioni da Sofocle furono l’ultima opera di Hölderlin. In esse il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo. C’è bensì un arresto. Ma nessun testo lo concede al di fuori del sacro, in cui il senso ha cessato di essere lo sparti ­acque tra il fiume della lingua e quello della rivelazione. Dove il testo direttamente, senza la mediazione del senso, nella sua lettera, appar ­tiene alla vera lingua, alla verità o alla dottrina, è traducibile per defi ­nizione. Non più per sé, ma solo per le lingue. Di fronte ad esso si richiede, da parte della traduzione, una fiducia così illimitata che, come in esso lingua e rivelazione, così in essa giungano a fondersi, senza ten ­sione, letteralità e libertà nella forma della versione interlineare. Poiché tutti i grandi scritti devono contenere in una certa misura, ma sommamente i sacri, fra le righe la loro traduzione virtuale. La versione interlineare del testo sacro è l’archetipo o l’ideale di ogni traduzione.

(1) E cioè col significato di « parentela », esplicito nella parola tedesca Verwandtschaft [N. d. T.].
(2) Qui e in seguito nel senso di intentio (Intention) [N. d.T .].
(3) Il verbo tedesco (verdeutschen) significa « tradurre, rendere in tedesco », ed è, in questo senso, intraducibile in italiano [N. d. T.].


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Bart