LETTERATURA: SCRITTORI LUCCHESI: Daniela Toschi e Bianca Stefania Fedi: “Surkakfiano. L’ultimo Processo”
23 Maggio 2020
di Bartolomeo Di Monaco
Una storia scritta a quattro mani, che s’immerge nel mondo contorto e inquieto del grande scrittore cecoslovacco.
Con tanto di accusa e giudice, si processa nientemeno che lui, Franz Kafka. L’occasione è offerta dalla scoperta, in una biblioteca, di un suo libro dato alle fiamme, di cui alcune pagine sono state danneggiate.
La cosa miracolosa è che in Tribunale è presente l’autore, nonostante sia morto tanti anni fa (il processo si celebra nel 5777): “Era seduto da solo, senza avvocati al suo fianco. Si vedeva a malapena, così sottile, quasi evanescente, vestito di nero; ma quanta vitalità ed energia emanavano da lui nonostante la magrezza e il pallore del volto!”.
Tosca Amadei, la protagonista, è incaricata della perizia sullo stato mentale dello scrittore: è pazzo e socialmente pericoloso? Per rispondere deve leggere i suoi libri, numerosi suoi scritti mai pubblicati, nonché bibliografie su di lui.
Le autrici dispiegano la loro opera attraverso questo percorso post mortem.
Mettono intanto in risalto i suoi traumi giovanili, tra i quali quelli dovuti alla morte di due fratellini e l’essere rimasto l’unico maschio (ha ancora tre sorelle, che moriranno nei lager nazisti), e per di più con una salute cagionevole, tanto che il padre non lo apprezza.
Deve affrontare una grave forma di tubercolosi che lo condiziona per tutta la vita (morì a 42 anni) e lo rende di carattere instabile soprattutto nei rapporti sentimentali. Ha terrore del matrimonio. In una lettera indirizzata alla prima fidanzata, Felice Bauer, scrive: “Riesci a capire? Ho la precisa sensazione di andare in rovina col matrimonio, col legame, con la dissoluzione di questo nulla che sono io.”.
La protagonista, nel leggere gli scritti kafkiani, dialoga con l’autore, come a chiedere risposta ad alcuni interrogativi sollevati a riguardo della sua personalità. Perché Kafka si sentiva vecchio?: “Sono vecchio perché sono ebreo.”; “Sono vecchio quanto il popolo ebraico, quanto l’ebreo errante.”.
È una scelta, quella del dialogo, indovinata, la quale ci dà l’idea di un Kafka sempre presente innanzi a lei, che lo esamina, lo indaga, vuole penetrarne la psiche.
Un confronto che desta molto interesse, poiché a mano a mano si sciolgono i nodi e molti dei suoi segreti si appalesano e si rendono disponibili all’analisi. Quest’ultima, necessaria al fine di contrastare l’accusa sostenuta da un abile avvocato, Guido Tanzman, “famoso psichiatra forense.”. Tosca sarà accompagnata nella sua perizia psichiatrica da fantasmi, messaggi, voci, sussidiari alla sua ricerca: “Qualcuno la spiava, non c’era ombra di dubbio”. Tutto ciò grazie ad una tecnologia avanzata di tipo orwelliano (la storia, ricordiamolo, è ambientata nell’anno 5777).
Come era fisicamente Kafka? Sono riportate le parole di Gustav Janouch, che lo conobbe quando lo scrittore aveva 37 anni: “(…) alto e slanciato. Aveva i capelli neri pettinati all’indietro, il naso a gobba, meravigliosi occhi grigio azzurri sotto una fronte stranamente bassa e un sorriso dolceamaro sulle labbra.”.
Ci sono dubbi perfino sul colore dei suoi occhi, che Janoluch definisce “grigio-azzurri” e Marie Majerowa “castani e timidi”.
Com’era la sua voce? Ce lo dice sempre Janouch: “Parlava con sottile e velata voce di baritono meravigliosamente melodiosa, benché per altezza e intensità non uscisse mai dal tono medio. La voce, il gesto, lo sguardo, tutto irradiava la calma della comprensione e della bontà.”.
Ci interessa sempre di più arrivare a conoscere come da queste minute ricerche su Kafka, la protagonista tragga le sue conclusioni e stenda la sua perizia.
È un altro dei motivi che attraggono il lettore, il quale vede farsi carne e ossa un’immagine di Kafka che finora aveva liberamente estratto dalle sue opere. Ancora Janouch: “Le sue parole sono sassi, il suo modo di parlare è reso angoloso dalla tensione.”; “Sapeva illuminare col baleno di una sua osservazione anche gravi controversie e si sforzava di non apparire mai profondo o addirittura spiritoso. Qualunque cosa dicesse, gli usciva dalle labbra schietta, ovvia, naturale.”.
Come scriveva Kafka? Ce lo dice il suo accusatore Tanzman: “Sapeva usare con precisione e rigore la lingua tedesca. Dall’analisi dei manoscritti pare che sovente scrivesse di getto senza bisogno di procedere a correzioni, anche se usava frasi lunghe e articolate che toglievano il fiato nella lettura, eppure sintatticamente perfette.”; “Ricorrono nei suoi testi frequenti ‘nodi di illogicità’: essi vanno considerati elementi preziosi che hanno lo scopo di sollecitare nel lettore una riflessione ermeneutica. Sono quindi da ritenersi studiati ad hoc e non possono essere attribuiti ad alterazioni formali del pensiero.”.
E Kafka cosa pensa di se stesso?: “Diabolico in tutta la mia innocenza.”.
La psiche è un labirinto così contorto e perverso che può condurre alla follia o all’arte.
Chi voglia indagare su Kafka rischia molto: “È pericoloso. È tossico, tossico come il veleno. Va preso a piccole dosi e avvelena comunque.”.
Si rischia di essere contagiati, e Tosca avverte il pericolo: “C’è qualcosa di contagioso nelle cose che scrivi. Si attaccano addosso come virus. E ora, ecco, sto provando quello che provavi tu.”. Sta penetrando in Kafka come un nuovo sangue nelle vene. Sta percorrendo il tragitto minuto e molecolare della sua vita.
La scrittura ce ne offre la tessitura e ci rivela che le penne delle due autrici, impersonate da Tosca e dall’amica Bianca, usano lo strumento psichiatrico con affabulazioni diverse, che vanno da una limpidezza logica di Tosca ad una riflessione di Bianca più irruenta, da interlocutrice insoddisfatta, a dimostrazione che l’impatto con lo scrittore non è affatto cosa semplice.
Non ci troviamo di fronte a un romanzo, dunque, ma ad una ricerca, tra romanzo e saggio, dell’anima di un artista, il quale ha riversato il breve arco della sua vita nelle proprie opere con la meticolosità di un maniaco. Dirà Milena Jesenská, improvvisamente comparsa davanti a Tosca, la Milena delle “Lettere a Milena”, che viveva a Vienna (morirà anche lei in un campo di concentramento per aver cercato di salvare degli ebrei), la quale tradusse dal tedesco al cecoslovacco le sue opere (Kafka considerava inadeguata la lingua patria), e con la quale lo scrittore sentiva di avere un’affinità intellettuale: “Lui era uscito dalle file degli uccisori per osservare, e osservava. E registrava, come un sismografo, quello che solo lui sentiva accadere nel mondo. Ma si è lasciato morire prima, lui. Noi che gli siamo sopravvissuti, invece, abbiamo dovuto assistere a ben altro: alle conseguenze estreme di ciò che lui aveva osservato. Quelle le ha lasciate a noi.”.
Perché, dunque, lo si vuol considerare socialmente pericoloso? La sua solitudine, la sua malinconia, il suo pessimismo, la sua insistenza nell’esplorare il comportamento umano, la sua mania di denigrarlo e di immergervisi in un tentativo di autodistruzione, sono davvero pericolosi per tutti noi, così da subire una censura e una condanna?
Sempre Milena, aveva affermato: “Era l’uomo più buono che abbia mai conosciuto. Era l’uomo più singolare che avessi mai incontrato e non c’è nulla che mi abbia colpito tanto quanto uno sguardo nel suo cuore.”; e ancora: “Frank [così Milena chiamava Kafka, anziché Franz) non può vivere. Non ha la capacità di vivere. Non guarirà mai. Morirà presto. Certo è che tutti noi siamo apparentemente capaci di vivere perché una volta ci siamo rifugiati nella menzogna, nella cecità, nell’entusiasmo, nell’ottimismo, in una convenzione… Ma lui non si è mai rifugiato in un asilo che potesse proteggerlo. Perciò si è esposto a tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo. È come un individuo nudo tra individui vestiti.”.
Tosca pone una domanda all’amica Bianca, germanista in grado di dare chiarimenti sul significato delle parole usate da Kafka: “se non possa rilevarsi un tratto di autismo sottosoglia, come direbbe la professoressa De Bond: la sua difficoltà a sentirsi nella realtà, e il suo doverla costantemente ricostruire con l’intelletto.”.
La vita di Kafka è stata tutta vissuta nei suoi scritti, sia quelli editi che quelli rimasti manoscritti. Con essi ha misurato i suoi palpiti, le sue tribolazioni, le sue ansie, le sue tenui speranze, i suoi incontri con l’umanità. Fuori dai libri l’immagine di Kafka è inautentica.
Attraverso la figura emaciata di Milena, che compare da un oltretomba di sofferenze (il lager di Ravensbrüch in cui è morta), è simboleggiata anche la crudeltà del nazismo e dell’uomo: “Qualcuno ci salverà, racconteremo tutto e non accadrà mai più.”. Tosca la disillude: “Non ti illudere. Alcuni – pochi in verità – sono stati salvati, è vero; e qualcuno di loro ha raccontato al Mondo cose a cui il Mondo non voleva credere. e il Mondo infine ha dovuto crederci, ma solo un po’, e poi ha dimenticato.”. Tanto che Tosca cerca di capire se Kafka, nel misterioso labirinto dei suoi scritti, abbia preavvertito tutto questo, e ciò, dunque, possa essere stata la causa profonda del suo malessere.
Milena è ora al centro del libro: “Nessuno può saperlo, nemmeno lui, che anzi si tormentava nel dubbio che niente e nessuno legittimasse la sua scrittura, ad eccezione della sua caparbia volontà. Quel che è certo è che Frank descrisse le radici di un orrore che non si cancella con l’oblio: un secondo peccato originale. Forse è stato solo uno dei tanti orrori della Storia, il più grande, credo, ma non ne sono sicura. E chissà, forse questo orrore c’è sempre stato e lui poteva vedere il passato che gli altri dimenticano, oppure nel presente riusciva a vedere i germi di quel futuro prossimo. Ma più probabilmente ciò che vedeva era il ‘sempre’: ciò che è sempre stato, è, e sarà.”.
Da questo ritratto emerge un Kafka imponente e tragico portatore di quegli orrori.
Tutto il libro, a ritroso, e sino ad arrivare al principio, ne viene toccato e illuminato. La stessa Tosca è coinvolta dal raggio di questa illuminazione.
Milena racconta: “mi guardai intorno con occhi nuovi e capii di colpo che tutto quello che stava accadendo non era che la letteratura di Frank incisa nella carne del Mondo.”. E ancora: “Io ho visto con gli occhi di Kafka.”.
Un libro coraggioso e impegnativo che non ha avuto timore di affrontare un mito della letteratura, e il lettore non potrà che rimanerne soddisfatto e riconoscente.
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