LETTERATURA: SCRITTORI LUCCHESI: Vincenzo Pardini: “Jodo Cartamigli”
21 Maggio 2020
di Bartolomeo Di Monaco
Dopo “Gnenco il pirata”, questo è un altro libro dimostrativo della versatilità di Pardini e della sua innata curiosità per mondi e civiltà da scoprire e studiare, trasfigurandoli attraverso la magia della scrittura. Là la pirateria e il mare, qui il mitico West, a cui ho ragione di credere, per alcune cose che vedo fare a Pardini, egli è ancora interessato.
Dal libro è stato tratto il film di Giovanni Veronesi, “Il mio West”.
Nell’avvio c’è una scena che ricorda il capolavoro di Sergio Leone, “Per qualche dollaro in più”, del 1965, in cui qualcuno fa fuoco al cavaliere che sta avanzando sulla pianura arida e rossiccia, uccidendolo.
Qui il cavaliere è sul suo cavallo, non ci sono spari, ma l’atmosfera che vi si respira è la medesima. Quel cavaliere non è altri che Jodo Cartamigli, cacciatore di taglie e pistolero dalla mano veloce. Pardini ne disegna la figura anche fisica a poco a poco, come mettendo le tessere ad un mosaico. Ad esempio, delle mani sappiamo che “erano lunghe, affusolate come quelle d’un pianista.”; il suo sguardo era “di roccia e di nevischio”; le ciglia erano “bianche, cespugliose”; “il cappellaccio grande più d’un ombrello, gli stivali alti e speronati”.
La prima taglia che riscuote nella storia che ci è raccontata è quella di un assassino spietato, anche di bambini, Jim Jak. Jodo entra nella taverna-saloon e chiede di lui. Devo parlarti, gli dice e s’avvia all’uscita e l’attende fuori. Jim contro di lui è un uomo morto. Poi allo sceriffo Peter Vannie: “La taglia”. Ci sono i tempi cesellati e lenti di Sergio Leone.
Anche a Fort Wine, lo stato indipendente inventato da Pardini, c’è un padrone che fa il bello e il cattivo tempo, Ellend Harrison, figura sempre presente in un western che si rispetti.
Willy Morris è un ragazzo che ha visto Cartamigli e ne è rimasto impressionato: “Ma Willy, rannicchiato nel letto, pensava all’uomo ‘dalla catena d’oro’. I suoi revolver luccicavano più dei lampi che stavano al di là della finestra.”; “A Willy, anziché a un uomo, pareva d’esser vicino a una leggenda”. Non vi ricorda il ragazzo stupefatto dell’abilità con la pistola di Alan Ladd nel film “Il cavaliere della Valle Solitaria?”.
Si sente già l’aria di una summa che ci ricorderà i tempi d’oro della cinematografia western, e a una ricostruzione di quella fine Ottocento in cui per tutta l’America valeva la legge del più forte e tutti vi si assoggettavano pur di sopravvivere. Qualche volta capitava che un pistolero, magari un cacciatore di taglie, si mettesse dalla parte della legge e liberasse il paese dalla prepotenza. Viene in mente un altro capolavoro, “L’ultima notte a Warlock”.
I brevi capitoli in cui è diviso il libro dispiegano visioni e ritratti con un’alternanza che fa ricordare i cambiamenti di scena nei film del genere dentro i quali si raggrumano focolai di una vita primitiva in divenire.
Il lettore è preso, a un certo punto, dalla curiosità di capire quanto il mondo della Garfagnana amata e raffigurata tante volte da Pardini, sia presente in questo al di là dell’oceano e di un’epoca ormai lontana. Leggiamo questa descrizione di una carovana di muli: “Risalito un valloncello, tra alti millenari alberi, trovarono un torrente: sgorgava da una rupe seminascosta tra l’erba, e proseguiva per uno scoscendimento che pareva finire a precipizio. Qui si rifocillarono con carne affumicata e gallette; qui i muli, gocciolando bave verdi e mucose, pascolarono come non avveniva da tempo. S’abbeverarono al torrente; e a ogni movimento le some cigolavano come se le funi avessero voluto schiantarsi. Alcuni, intorno ai finimenti del ventre e del petto, mostravano delle abrasioni raggrumate di mosche; e inutili, per scacciarle, i raggrinzimenti e gli stiramenti della pelle.”.
La Garfagnana c’è tutta e Pardini se la porta appresso come una maliarda ispiratrice, senza la quale la sua penna non avrebbe voce e suoni.
Come non vi mancano descrizioni che si richiamano al nostro nord Europa. La moglie di Harrison, infatti, viene da lì: “Donna Maigrette proveniva da una regione del nord Europa. L’oceano, tanto quella terra era bassa, arrivava a inondare i campi, a bagnarli come fosse spiaggia. Nell’erba salata dei prati galoppavano bianchi e bradi cavalli. Si diceva fossero i preferiti di un’ignota e potente divinità. Ucciderli o soltanto oltraggiarli avrebbe dunque potuto provocare le sacre collere, manifestantesi con pestilenze e sciagure varie. Nei periodi di bufera, quando la terra sembrava esplodere e il mare invadeva e ristagnava nella brughiera, i cavalli si avvicinavano il più possibile al castello.”.
Vi si respirano visioni e miti propri di quella regione, in modo che si riceve il segno di una qualità speciale che appartiene all’uomo, il quale racchiude e porta con sé, ovunque vada, le tracce indelebili del suo percorso nell’universo. I contrasti tra i vari periodi che Maigrette ha vissuto emergono come da una tavolozza di densi colori, che altro non sono che i nuovi riflessi di cui si è arricchita l’anima.
La fantasia di Pardini vi prende il volo e narra le vicende di una scorreria piratesca che infine ha conquistato il castello degli antenati e ucciso il padre della giovane. Viene condotta al mercato degli schiavi, e lì venduta. La comprerà, per poi sposarla, Harrison.
Il lettore è portato ad affiancare i due quadri che sono stati dipinti, l’uno dai colori rossicci e aridi del deserto del Far West, l’altro dallo schiumeggiante oceano su cui scivolano i galeoni barbari.
La visione si accende e entusiasma. Diviene mitologica, fiabesca (si pensi anche ai racconti che Sanchez l’indiano fa al ragazzo Willy). Spesso si viaggia tra realtà e sogno. Pare di essere sospesi sulla storia. Lo stesso Cartamigli si muove leggero nel romanzo, come librato in volo, come fatto di spirito più che di carne. Nonostante l’autore ci descriva alcune sue gesta, egli non ha i passi pesanti e ingombri di un protagonista, ma quelli lievi di un mito. Si ha spesso la sensazione che il lungo viaggio intrapreso da Cartamigli insieme con il ragazzo Willy sia la metafora della vita. Non a caso, ad un certo punto, saranno proprio gli occhi del ragazzo a guidarci nel viaggio.
Anche la scrittura ne acquista i toni: “E la torcia venne avanti, simile ad uno di quei lumi che risalgono la traversata delle lontananze.”.
Avremo, inoltre, una fusione di paesaggi che si alternano, al modo però di una congiunzione indissolubile, tra sabbia, rocce e neve.
Nella descrizione degli animali, troviamo il Pardini di sempre, dalla bravura nota e riconosciuta. Un ghepardo si aggira intorno al recinto delle vacche e dei porci. È affamato e va a caccia di prede: “Era primavera; e dai lucidi, smaniosi colori pareva essere uscito come da una tana. Zampe flesse, ventre basso e la testa voltata agli animali, avanzava accostando via via il muso ai pali e le tavole. Fermò davanti ai legni: cosicché, di fianco, sembrava ancora più basso e allungato. Con le anteriori, piantati gli artigli, scavava infatti al basamento dello stazzo.”; “Discesi i sentieri, raggirati i circhi della cordigliera, i cactus e i saguari s’alzavano in alto, forcuti. I due cavalieri passarono oltre, fino a una boscaglia disseminata tra rupi e roccioni. I cavalli, trovandosi le zampe avvinghiate dai cesti, impennarono un poco; soffiando ripresero a zoccolare tra sterpi ed erbe aride. Quando la boscaglia, strinata dai venti del nord, prese a infittirsi, il suolo a farsi terroso, qualche lama, a sbalzi, fuggì nel folto. Lupi dai lunghi musi furono veduti ritrarsi e sparire dalle selle delle rupi. S’udirono anche dei guaiti e dei ruggiti; un ansimare feroce e digrignato. Dai pinnacoli e dalle torri, librandosi nel blu slavato dai rannuvolamenti, saltavano gli avvoltoi; dai pendii più bassi uscivano invece, subito scomparendo contro le roccaforti erbose, le aquile. Al che, tra i dirupi, forse uno stambecco, forse una vigogna fuggivano. Ma, come lo scoppio d’un respiro, un tonfo: e le aquile, socchiuse le ali, picchiavano nei fondali. Sibili e guaiti, fischi e urla irrompevano allora con furibonda insistenza.”.
Descrizione superba che da sola vale il libro. Si tratta dello stralcio di una scena mirabile in cui Jodo e Willy si trovano a cavalcare sferzati dal vento del deserto, la quale si conclude così: “Lasciatisi alle spalle le pendenze sabbiose, si fece loro incontro la brughiera coi suoi spinosi e bruciacchiati cespugli. I cavalli, mezzo sfiancati, battevano appena il passo. Ce la fecero comunque a raggiungere le grandi ed erbose distese: dove li colse la sera e s’accamparono.”.
Ai condannati a morte era riservato un trattamento crudele: “Non ci è dato sapere se essi fossero in grado di intendere e volere. Sappiamo solo che i loro colli, incastrati negli anelli, vennero maciullati e spezzati al giro della manovella; e le bocche, con la lingua tra i denti, si spalancarono nell’estremo grido; e gli occhi schizzarono dalle orbite nello sguardo estremo.”.
Di solito siamo abituati ad assistere alle esecuzioni nel Far West mediante impiccagione: una corda appesa ad un robusto ramo di un albero secolare, il condannato a cavallo, il laccio intorno al collo, la frustata alla bestia, e l’uomo appeso nel vuoto, con il laccio che lo strozza, mentre il corpo è assalito da un furente tremore. Oppure su di un palco di legno appositamente costruito già attrezzato di corda da mettere al collo e di una botola che, aprendosi, provoca lo stiramento del corpo e il soffocamento. Qui, invece, assistiamo ad una esecuzione con la garrota che si usava anche al tempo dei romani, e fino al secolo scorso in Spagna e Portogallo. Strumento sadico che venne usato anche dall’Inquisizione.
Nel romanzo i tempi dell’azione si intersecano con quelli descrittivi, i quali pare che li risucchino stendendo sulla storia un velo dal sapore onirico e mistico.
Sono le atmosfere e gli stati d’animo che prendono campo e creano l’unità della storia, in cui le gesta, gli atti, le parole dei protagonisti appaiono come recitate su di un palcoscenico ove la tonalità della scenografia è dominante. Ecco un esempio: “Oltre la radura scesero per un pendio: digradava verso un torrente e una brezza di umidità e d’asciuttori, di umori e di tristezze impregnava l’aria. S’acchinarono contro un albero: nella sterpaglia, come avesse le zampe, la Luna si muoveva candida e felpata; flessuosa risaliva il rigagnolo dall’aspetto di un serpe che fugge. Due lumi giallo-rossi avanzarono allora su di loro; incrociarono la catena del pistolero come per strapparla. Lui, imbracciato il fucile, prendeva la mira. Altrettanto faceva Willy, al quale i lumini giallo-rossi parevano ora vicinissimi, ora lontanissimi quanto la Luna: e non gli riusciva di tirare il grilletto. Poi, dal mezzo d’una stessa e setolosa rotondità, i lumi s’abbassarono al torrente. Il muso si immerse nell’acqua, afferrò il riflesso della Luna fino a dilaniarlo, a disperderlo in un ribollire di vischiose concentriche luminosità. In una puntuta, sferzante giravolta a passi d’artiglio, disparve infine nella sterpaglia.”.
In quest’altra scena, vediamo Harrison nei giorni in cui, all’inizio della sua avventura, vagava in cerca di un luogo ove fermarsi. Giunto ad un villaggio entrò in un saloon per mangiare: “un piccolo villaggio, raccolto, come un circo, attorno a un campanile. Anche qui, gelo. Nel saloon, tuttavia, l’aria era tiepida; da fuori proveniva il rumore delle sonagliere delle slitte, trainate quali dai piccoli cavalli, quali dai cani o dalle renne. Uomini dai volti mongoli, infagottati e sorridenti, entravano dentro e parevano fratelli. (…) Nel saloon continuava l’andirivieni; quando a un tratto, più argentina delle altre, allegra addirittura, giunse una sonagliera: e attraverso i vetri ammantati dal fuoco del tramonto, Harrison vide fermarsi una muta di cani. Dalla slitta scese un uomo alto, giovane, i lineamenti europei.”.
Sembra di leggere “Zanna bianca” di Jack London.
Pardini ha già creato un motivo di interesse: Ellend Harrison e Jodo Cartamigli hanno qualcosa in comune: la stessa catena d’oro e lo stesso orologio (ne parlerà più tardi) che portano sul panciotto. Che relazione c’è tra i due? E perché si stanno cercando? E perché Harrison teme Cartamigli?
Torna di nuovo alla mente il film “Per qualche dollaro in più” di Sergio Leone, in cui Douglas Mortimer (interpretato dal Lee Van Cleef), anche lui un alto ufficiale dell’esercito come Jodo (il primo colonnello, il secondo maggiore), va alla ricerca del bandito Indio (interpretato da Gian Maria Volontè), i quali hanno in comune un identico orologio a carillon. Quella catena d’oro ci accompagnerà lungo tutta la storia e sarà punto nevralgico di congiunzione tra i protagonisti.
Il racconto ha una trama sottile e anche metaforica, e il suo procedere è caratterizzato soprattutto da blocchi di immagini: come se l’autore, nel momento in cui gli compaiono alla mente, le raccogliesse e le nutrisse, facendo loro occupare uno spazio più ampio, in suggestive scenografie.
Ad un certo punto troviamo scritto: “Harrison, al trotto, aveva attraversato Fort Wine. Davanti alla redazione del giornale, in prossimità della piazza ‘dei falegnami’, scese da cavallo. Il giornale era uno di quei fogli di frontiera, le cui redazioni venivano installate dalla sera alla mattina, come i circhi dei funamboli, in basse e malandate baracche. Sconosciuti i giornalisti: giovani disoccupati o avventurieri della penna inviati da qualche nuovo quotidiano a tentare la fortuna della diffusione. E in quei tempi, a Fort Wine, non mancavano certo gli ingredienti per riempire delle pagine.”.
Chi, come me, ama il genere western, non può che richiamare alla mente il celebre film del 1960, “Cimarron”, del regista Anthony Mann, con Glenn Ford, in cui è narrata l’avvincente storia di un giornale al tempo dei pionieri che, alla fine dell’Ottocento, accorrevano in Oklahoma per partecipare alla distribuzione delle terre da mettere a coltura o a pascolo.
Ogni tanto, in occasione soprattutto di sparatorie o di risse, il ritmo si fa incalzante, le frasi sono brevi e secche: “Dal polverume, con in testa il cappello, un’ombra veniva innanzi: Jodo. Il giovane gli andò allora appresso per trattenere, ricacciare i cavalli nelle pareti rocciose. Ma già Cartamigli era in sella. Attorno a lui, tra i sassi e le rocce e certi bassi cespugli, uomini e animali giacevano sventrati e spappolati. Visceri e sangue appiccicato alle rocce, goccioloni tra il pietrisco. Soltanto un cavallo, trascinandosi dietro qualcosa di scompigliato, scendeva la scoscesa scarpata.”.
Qualche volta si avverte il fiato di Mario Tobino: “Gli sembrava che Fred facesse di tutto per mettersi in mostra. Se n’era accorto un giorno di neve e di cielo limpido, allorché, trainato dai muli, portò il bisonte grigio, il bisonte-lupo, terrore dei pascoli e della montagna: tale il suo furore da provocare valanghe e frane che duravano a nottate.”.
E lo sceriffo Tommy Hardy non è il pistolero dal passato tenebroso, che poi si mette dalla parte della legge, presente in tanti western? Pronto anche a tradire, però, secondo convenienza?
La comparsa dei lebbrosi è un altro spaccato notevole del romanzo, dal quale si ricava la sensazione di una discesa agl’Inferi: “Arrivarono così in uno spiazzo circondato dagli alberi, in mezzo al quale sorgevano alcune capanne di paglia e di frasche. Suonò una campanella, e uscirono allo scoperto figure dai piedi e mani fasciate; le palpebre e i contorni degli occhi strappati: tanto da avere le pupille fisse come sfere di vetro. Altri, i monconi fuori dalle balze dei calzoni, si trascinavano sulle stampelle; le facce dilaniate, l’espressione feroce e disperata.”.
Ormai Pardini ci ha convinto. Non ha scritto affatto un romanzo western, ma un romanzo sulla vita, onnicomprensivo di epoche lontane fino ai nostri giorni, memore e riassuntivo di una letteratura che ha attraversato i secoli e i miti.
Perfino il celebre film Ben-Hur, di William Wyler, del 1959, con quelle immagini della madre e la sorella chiuse nella grotta dei lebbrosi, è dentro questo libro.
La sfida nell’arena, non con la pistola bensì con la spada, tra Jodo Cartamigli e don Raberito Molinas, menomato di un braccio, alla presenza dei reciproci padrini, ricorda i duelli del tipo di quelli del tempo dei moschettieri di Alexandre Dumas, salvo che essi avvenivano dietro le cattedrali gotiche o in ampi spazi erbosi: “Gelide e sfavillanti, le lame erano tornate a schermare, con l’intento di aprirsi un varco attraverso i corpi dei rispettivi avversari. Don Raberito Molinas, veloce come una mangusta, prese a torneare ora allungando puntate, ora calando mezzi fendenti; e la sua parte lignea e mutilata sembrava irrigidirsi sempre più. Jodo Cartamigli, gambe divaricate, roteava su se stesso parando e schivando; rientrando talvolta con sciabolate di taglio e di punta. Nella folla passò un sussulto: il cappello di Jodo, incappato in una stoccata, era finito nella polvere; don Raberito Molinas ghignò come un cane idrofobo; e la canuta, senescente chioma di Jodo Cartamigli parve, sotto il tramonto ormai decapitato, insanguinarsi.”.
Da annotare un’altra particolarità del romanzo; riguarda le donne: esse, anche le prostitute che viaggiano sui carri, o vivono nei saloon, non hanno niente di volgare, ma tutte sembrano eteree come se fossero non espressione del sesso, ma della femminilità, feconda e incantatrice. Willy ha appena fatto l’amore con una ragazza: “In quel silenzio, che era tutto uno sguardo, si rivestivano. E Willy, preso da un’inspiegabile emozione, avrebbe voluto dire alla donna che mai gli era accaduto di vivere nulla di paragonabile a quello. In quei pochi attimi, infatti, era come avesse veduto l’altra faccia della vita.”.
Young, il telegrafista scampato alla morte e ferito, aveva trovato riparo presso una compagnia di nomadi e aveva sposato una gitana molto bella che “gli stava continuamente vicino; e i suoi occhi neri e profondi, in un sorriso di fremiti e di bagliori, gridavano il mistero di quanto possa l’amore.”.
Nello scontro finale (al quale Jodo si reca elegantemente vestito, come John Wayne ne “Il Pistolero”, film del 1976 diretto da Don Siegel), davanti a metaforici cavalieri della morte, Willy e Jodo, dopo aver tanto camminato insieme, si lasciano, infine, con un addio che si scioglie in una dolorosa preghiera.
Non vi possono essere più dubbi: in questo romanzo Pardini ha riversato tutta la sua anima, complessa, variegata, pensosa, sognatrice e fantastica.
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