LETTERATURA: SCRITTORI LUCCHESI: Mario Rocchi: “Racconti di guerra. Lucca, via dei Borghi 1944”
16 Maggio 2020
di Bartolomeo Di Monaco
L’autore è un testimone della vita lucchese, essendo pubblicista e collaboratore per la cronaca locale de “La Nazione”. Ha incontrato tante personalità, che ha intervistato e fatto conoscere, e soprattutto si è dedicato al mondo del cinema, della pittura e della scultura tracciando i ritratti dei maggiori artisti lucchesi e non lucchesi.
Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale era un ragazzo, eppure ne riporta ricordi indelebili alcuni dei quali ci presenta in questo libro, edito da Tra le righe Libri, una casa editrice che sulle due guerre mondiali sta costruendo una collana che probabilmente non ha precedenti presso altri editori.
I ventiquattro frammenti che Rocchi ci racconta, non ordinati però cronologicamente, sono brani di vita vissuta in un’età in cui la guerra appariva vicina con i suoi frastuoni, ma lontana nella percezione della sua gravità.
Occupati dai giochi, chi raccontava la guerra (il fratello Pier Luigi che aveva rifiutato di arruolarsi nella RSI ed era fuggito dalla caserma) era visto come un narratore di avventure, che non recavano in sé, nel sentimento dei ragazzi, che il senso della sorpresa e dell’imponderabile.
Il loro mondo era invece quello del pianerottolo e delle finestre da cui si affacciavano per vedere il mondo esterno, e il via vai elettrizzante degli automezzi militari: “Il pianerottolo era il nostro regno e le finestre il nostro parlamento. Il chiacchierare era d’obbligo e ci sentivamo solo quando passava la ronda dei nazisti, silenziosi e burberi che, battendo in terra col passo i loro piccoli ferri di cavallo che impedivano al tacco degli stivali di consumarsi, facevano un rumore che incuteva timore.”.
Rocchi controlla in uno stile quieto le sue memorie, che sono prive di angoscia, e fotografano quei giorni e quei momenti con la pacata serenità di chi li ha vissuti quasi per curiosità e gioco.
La Cicogna, l’aeroplano tedesco che sorvola Lucca e ogni tanto sgancia una bomba che va a distruggere una casa, ci appare proprio come un uccello che si è librato nell’aria per dispiegare le proprie ali e poi tornare al nido confortato e rasserenato.
Il rifugio in cui scendevano in caso di allarme rappresentava per il ragazzo un’altra delle occasioni sorprendenti che la vita offriva per una qualche distrazione: “C’era chi aveva voglia di chiacchierare e chi no. Chi aveva paura e chi non ci pensava neanche lontanamente. Una volta una delle ragazze più grandi, forse la più grande, seduta su una cassetta di legno, aveva le gambe piegate e gli zoccoli in piedi. La paura le faceva tremare le gambe tanto che uno zoccolo batteva freneticamente sul legno della cassetta. Allora nel silenzio, il padre della ragazza disse una frase così buffa che strappò il sorriso di tutti. e cioè: ‘Senti la Etta (soprannome della figlia) come batte la coda!’.”.
Il libro acquista la sua specificità proprio perché il ricordo rimanda ad una età adolescenziale, così diversa dalle tante ricostruzioni che abbiamo letto della e delle Guerre mondiali scritte dagli adulti che vi parteciparono in armi o come vittime di soprusi e violenze.
Rocchi vi conserva il candore preponderante di quegli anni adolescenziali della sua vita.
Ciò non vuole dire che non ci siano stati momenti di trepidazione e di commozione, come quando, in occasione della liberazione di Lucca, assistette all’uccisione di un partigiano nei pressi della Porta San Jacopo: “Mi emozionai e mi vennero le lacrime agli occhi quando sotto le mie finestre scorsi un camioncino con il corpo del partigiano morto ricoperto dalla bandiera italiana con accanto una donna partigiana con il fazzoletto rosso al collo, inginocchiata a terra su una gamba e l’altra piegata, affranta, con il mitra poggiato con il calcio sul pavimento del camioncino. La liberazione di Lucca era finita.”.
Vi si raccontano episodi poco conosciuti e che Rocchi fa dunque riemergere come il taglio dei pioppi del baluardo San Martino, ordinato dai tedeschi per necessità di guerra, o la requisizione delle cancellate liberty di via Matteo Civitali, o come la figura di un pittore ai più sconosciuto che proprio nella casermetta di quel baluardo aveva il suo studio, Arturo Daniele, “uno dei maggiori di Lucca, pittore che visse in solitudine nel suo atelier che divenne, durante il fascismo, meta e luogo di spirituale rifugio di cultori d’arte che combatterono la dittatura del duce, come Carlo Ludovico Ragghianti.”.
Dopo la liberazione, per l’approvvigionamento di acqua, girava per la città un’autobotte: “Ricordo che mentre si faceva la fila all’autobotte con i secchi e con damigiane, si sentiva vicino il rumore sfarfallante e sfrecciante degli spezzoni, oppure di bombe di cannone, che transitavano velocissimi su, solcando l’aria, per poi scoppiare alla periferia dove gli americani pensavano si trovassero ancora i tedeschi.”.
A poco a poco si forma nel libro il quadro di una popolazione civile alle prese con paure e disagi della guerra. Non è il fronte il palcoscenico delle azioni, ma la città di Lucca, dove, nonostante i pericoli, la vita cercava di proseguire almeno nelle sue vicende più importanti.
Le donne di facili costumi che si recavano a far baldoria dagli americani di stanza a Tombolo sono ricordate da Rocchi, e effettivamente costituirono una caratteristica di quegli anni, dal momento in cui la città fu liberata dagli americani. Ne ho fatto anch’io oggetto significativo del mio romanzo “La scampanata”, in cui ricordo che quando una di queste donne era stata scoperta, un corteo di conoscenti si recava sotto la sua finestra a far baccano affinché tutti sapessero del suo comportamento. Questo rito era conosciuto con il nome “La scampanata”. Anch’io, di appena tre anni, ricordo (l’ho scritto in “Via Pelleria”), a proposito di donne di facili costumi, un episodio terribile. A quel tempo la mia abitazione era posta di fronte alla chiesa di San Tommaso in Pelleria. Si sentirono degli schiamazzi, ci affacciammo e vedemmo sul sagrato due soldati americani che litigavano fra loro. Ad un tratto uno di essi estrasse un coltello e l’altro cadde a terra. Chiamata da qualcuno, arrivò l’MP, la polizia militare americana che caricò sulla jeep i due. Non ho più saputo nulla, e soprattutto se quello distesso a terra fosse morto, come sembrava.
Ma oggetto del rito della scampanata erano anche le donne che si erano date ai tedeschi. Rocchi ricorda di aver assistito a un caso avvenuto subito dopo il 25 aprile, il giorno della fine della guerra e della Liberazione: “Sì sentì un vocio per la strada e tutti si affacciarono alla finestra per vedere la scena della ‘cattura’ e successivi dispregi alla ragazza che passò, sospinta da un gruppo di uomini, dopo essere stata rasata nella testa di tutti i capelli, spregio che veniva fatto alle donne che avevano avuto rapporti con i tedeschi, e sospinta come uno zimbello. Fu portata probabilmente in una sede partigiana e lì sbeffeggiata e violentata da più persone.”.
Se qualcuno era ferito o si sentiva male, poiché mancava la benzina, lo si portava in ospedale disteso su di una lettiga portata da due o quattro uomini: “Dal fondo della strada si sentiva il suono di una campanella che ricordava spesso, come avevamo letto nei libri, quella dei lebbrosi, per poi vedere sbucare due o quattro uomini che correndo, spingevano la lettiga, una sorta di carretto fatto a cassa da morto, con il rialzo di tela cerata che copriva il tutto tanto che era impossibile vedere chi era il malato e neanche se era uomo o donna.”.
Come pure ci offre dei dettagli sul bombardamento avvenuto nel gennaio 1944 alla stazione ferroviaria di Lucca. Questa descrizione rivela, ancora una volta, quanto nei ragazzi fosse attenuata la sensazione di tragedia in cui si dibatteva la città e l’Italia: “Gli unici bombardamenti aerei di grossa portata, Lucca li subì solo in quelle due occasioni. Per noi, che andammo a piedi sul posto, non fu una tragedia come la presero i ‘grandi’, cioè quelli che capivano il danno che la gente del posto aveva subito e la tragedia dei morti. Andammo dentro le buche che le bombe avevano scavato nella terra, fra mezzo ai muri diroccati e alle macerie che lasciavano spuntare pezzi di mobili, vestiti, padelle casseruole e pentole che qualche abitante cercava di recuperare. Ma non c’era silenzio, quello forse che aspettavamo, ma rumore di gente, di persone che osservavano il disastro consapevoli di essere scampati, per loro fortuna, a un evento disastroso.”.
Allorché Rocchi ricorda la scuola elementare Giovanni Pascoli, situata a fianco della bella chiesa di Santa Maria Bianca, suscita anche in me il ricordo degli anni subito dopo la guerra, quando al momento dell’uscita, marciavamo, grembiule nero e colletto bianco, sotto le arcate del bel cortile, come se fossimo dei soldatini, e fuori c’erano i genitori ad aspettarci. Persistevano i rituali del regime fascista, ancora presenti nelle Istituzioni.
A quel tempo e per tanti anni dentro Lucca ‘c’era l’ospedale Galli Tassi, collocato proprio davanti a via Santa Giustina (oggi è sede del Tribunale). Rocchi scrive di esservi andato a far visita ai feriti con il suo maestro antifascista Satti. Sono sicuro che vi avrà incontrato, anche se non ci avrà fatto caso, don Silvio Giurlani, cappellano militare e parroco della vicina chiesa di San Tommaso in Pelleria (il rione della mia giovinezza), In questo ospedale il coraggioso cappellano nascondeva i partigiani e le armi, e si adoperava, inoltre come anello di collegamento tra il CLN di Lucca e gli Alleati.
Sono contento di essere riuscito a fargli tributare un riconoscimento dal Comune di Lucca con una grande targa che lo ricorda, affissa sulla fiancata della chiesa.
Anche il seguente è un brano che mostra tutta la innocenza dell’età: “Noi eravamo abituati alla sirena e non ci faceva più impressione. Giocavamo tranquillamente a palline su una pista che avevamo costruito sfruttando la terra del campino, quello adiacente all’ingresso della sortita, dove noi sempre facevamo partite a pallone con una palla di cencio.”.
Vi si ricorda il maestro di musica Pietrasanta, che aveva un negozio all’angolo di Piazza Bernardini e presso il quale comprai un pianoforte per le mie figlie. Ricordo quando trattai con lui il prezzo e quando venne a consegnarmelo a casa. Era, il suo, un negozio molto noto e accreditato.
Sul piazzale davanti al Caffè delle Mura, che era diventato un punto di riferimento per i soldati americani che vi conducevano le ragazze disposte a intrattenerli. “A volte era posteggiato anche qualche macchinone di ufficiali che portavano a bere qualche donna che avevano raccattato in Cittadella o in Pelleria. Allora il locale si trasformava in una specie di Cafè Chantant, si fa per dire, dove imperava la musica e dove donne ubriache facevano le simpatiche con i loro accompagnatori. Non c’erano solo americani ma anche di altre nazionalità, come per esempio marocchini. A volte lo spettacolo, diciamo così, degli ubriachi e delle loro compagne, si spostava nel piazzale antistante dove, per fare la simpatica, qualche donna si faceva fotografare dal compagno americano a cavallo di uno dei leoni che stanno su un piedistallo agli angoli del piazzale.”.
Per avere un’idea di come fossero ridotte le strade e soprattutto i ponti. l’autore fa ricorso ad una esperienza diretta di un viaggio in treno in direzione del Piemonte, allorché si trovò davanti al ponte di Recco, in Liguria: “Fu un viaggio infernale, rallentato dal passaggio delle varie zone dove erano stati costruiti ponti provvisori. Uno dei quali non mi potrò più dimenticare, è il ponte di Recco, altissimo sulla spiaggia, costruito per tutta la sua notevole lunghezza, in centinature di legno. È inutile dire che il treno passò su quel ponte lentamente come a passo d’uomo mentre la gente in mutande o in costume, dal basso stava a vedere quasi aspettando che tutto crollasse giù.”.
E ancora: “Fu il primo viaggio che si poteva chiamare tale, anche se disastrato, della mia vita. La guerra mi era servita anche per quello, e non è poco. Tutte esperienze che probabilmente mi sono servite sui vent’anni dapprima per viaggiare per tutta Italia con un motorino e in seguito con una vecchia topolino, e poi per l’esperienza dell’autostop che mi ha permesso di conoscere un’Europa che avevo solo immaginato.”.
Che altro non è che la dichiarazione dell’autore sull’effetto formativo che la guerra produsse nell’animo di un ragazzo (e di chi sa quanti altri ragazzi), il quale portò quell’esperienza racchiusa in sé come seme vivo e fruttuoso per la sua crescita.
Il libro termina con il ricordo di tre sacerdoti lucchesi vittime della furia nazista: don Aldo Mei, don Angelo Unti e don Giorgio Bigongiari, martiri passati alla Storia.
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