LETTERATURA: Scrittori Lucchesi: Remo Teglia: “La ballata del mezzadro”
30 Settembre 2009
di Bartolomeo Di Monaco
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Il lungo racconto uscì, sempre per Einaudi, nel 1971, ossia sei anni dopo “Mala Castra”, il romanzo d’esordio. Quella scrittura asciutta, magra, ossuta, che già appariva in quel primo libro, acquista qui una maturità e una originalità tali che non se ne può prescindere. Non sono molti gli scrittori, infatti, che a distanza di tanti anni non hanno perso il carattere moderno e anticipatore della loro scrittura. Dimenticato, chi sa quanti oggi vorrebbero scrivere come lui e lo terrebbero per maestro. Non una sbavatura di sentimento sfilaccia dalla sua prosa, eppure i fatti nudi e crudi che racconta ci restano dentro. Ecco un esempio significativo: “di un ufficiale sai qual è la voce, il capitano, il maggiore, il sergente, quella aspra che comanda, ma di nessuna sai qual è la voce, quella che pure deve avere quando vive come tutti che non comanda.”
Come in “Mala Castra”, c’è un tenente medico che unisce tra loro fatti e personaggi, nel quale non è difficile individuare la figura stessa dell’autore, che partecipò come ufficiale medico alla Seconda guerra mondiale. Ma qui, in più, anche Taras Bulba riflette l’esperienza di guerra dello scrittore lucchese.
Taras Bulba è un contadino che si trova a combattere in Albania. Il suo nome vero è Domenico Tarassi. È uno dei cucinieri e quando lo conosciamo, nell’incipit, sta cogliendo cavoli per il pranzo dei commilitoni. Fa anche altre faccende di pulizia. Il momento che si coglie della guerra è quello dello sbandamento intorno all’8 settembre 1943. Alcuni battaglioni impegnati nei Balcani si arrendono ai tedeschi. Altri reparti, invece, cedono le armi ai partigiani albanesi e macedoni, taluni si fermano a combattere con loro. È lo stesso scenario descritto da Manlio Cancogni nel suo romanzo “La linea del Tomori”, uscito qualche anno prima, nel 1965, l’anno stesso in cui fu pubblicato il romanzo d’esordio di Teglia, “Mala Castra”.
Taras Bulba con un amico, un compaesano, Saverio Mancini, che nella vita faceva il maestro, si rifugia presso un vecchio contadino. Entrambi lo aiutano nel lavoro dei campi e nella stalla. La guerra si allontana, anche i tedeschi non sono più aggressivi come prima e si ritirano. Finché la guerra finisce. Teglia fa trascorrere le stagioni in fretta come se esse avessero perduto il loro significato, nonostante che Taras Bulba continui ad aiutare, insieme con l’amico, il vecchio contadino albanese. La guerra uniforma, rende tutto uguale sotto la sua coltre nera, sembra suggerirci Teglia.
Il racconto è una puntigliosa cronaca di come un soldato ha trascorso i suoi giorni di guerra e quelli immediatamente successivi; piccoli fatti, minute azioni quotidiane, conversazioni del tutto ordinarie lo trapuntano, ornati da una scrittura rara che li innalza e li rende pregevoli.
Il ritorno a casa di Taras Bulba, il suo incontro con i genitori, reso asciutto come un guscio di noce, hanno pochi riscontri nella nostra letteratura. Sono pagine che, rilette oggi, fanno gridare al miracolo per l’originalità della scrittura, un’originalità tanto più sorprendente in quanto ha nella naturalezza e nella semplicità il suo punto forte. Non sono i vocaboli, che compaiono ogni tanto a segnarne la toscanità, e meglio ancora la lucchesità, a farne una scrittura preziosa, come avviene spesso negli scrittori versiliesi, primi fra tutti Pea e Viani, bensì la costruzione dei periodi e l’articolazione tra di essi, che lasciano trasparire una loro suggestiva scheletricità. Il racconto si regge tutto su di una costruzione sintattica che ha fatto della nuda parola il suo architrave, su cui poggiano i numerosi fatti minimi che accadono, dentro i quali noi sappiamo che corrono i sentimenti così come corre il sangue nelle vene.
Quando Taras Bulba giunge a casa: “Bussò alla porta, sul filo di luce fra i due battenti.
– Chi è?
– Son io!
– Sei te? – disse la voce, bizzosa: – Allora apriti.
– Apri, mà.
Il chiavaccio fischiò dentro gli anelli della serratura. Taras Bulba sentì stridere i denti, brontolò: – Dategli un po’ d’olio a questo chiavaccio.
– Chi sei? – disse la madre.
– Son io, mà: non mi riconosci?
La vecchietta si mise a sedere e con la becca del grembiule si asciugò gli occhi. Disse: – Sei tornato?
– Vedi, – disse. Le stava accanto col sacco in spalla, la toccò sul braccio: – Che fai, mà, piangi?
La madre si asciugò un’altra volta, disse: – Chi piange!”
Il padre è stato minato dall’arteriosclerosi, è rintanato in un cantuccio: “Stava su un seggiolone, un filo giallo di bava gli scendeva per il mento, gli guazzava la barba, ci aveva fatto un solco.” Oltre a sbavare, se la fa addosso. Taras Bulba sente la puzza: “Che è questo puzzo? La madre disse: – Se la fa addosso.”
Allora, la prima cosa che fa, lava il padre: “Tirò i calzoni al padre per le cianche. Il vecchio mandava dei gridetti, si aggrappava qua e là al seggiolone. Lo misero in piedi e gli sfilarono i calzoni. Taras Bulba con un cencio e sapone lavò il padre fino alle spalle; gli sciacquò i genitali. Il vecchio faceva: – Ih, ih! – come piangere, ma anche come ridere; ripeteva: – Domenico, Domenico!
Gli disse: – Babbo, che mi tocca fare! – Lo strofinava con vigore. – Temi il solletico? Ma che temi, se non ci hai più nulla! -: gli ci diede una cenciata.”
Credo che chi legga queste mie note, abbia potuto apprezzare il valore di quanto ho riportato, che non sono altro che due soli esempi tra i tanti che si potrebbero fare delle qualità narrative di Teglia. Il quale meriterebbe di essere scoperto un’altra volta, così come lo scoprì Einaudi in quegli anni, allo stesso modo che è accaduto a Federico Tozzi, al quale in qualche modo assomiglia. Leggete questa rarità, riferita al padre morente: “Gonfiò le gote, come si fa quando si appoggi il fiato in uno sforzo.” O anche: “La polenta fumava sulla tovaglia. La madre la divise con il filo: la polenta come rilassarsi si allargò in quattro cantoni, sudò vapore sulle tagliature. La madre allora con il refe in bocca per un capo, l’altro fra due dita, tagliò un cantone di polenta in fette, rimbalzandolo nella mano perché scottava. Levò dal fuoco i salacchini, li prendeva per la coda, ne mise due nel piatto del figliolo.” Oppure: “I tralci delle viti piegavano di pigne.” O andiamo a leggerci il parto della vacca nel capitolo 22, pezzo di una bravura indicibile.
In paese ci sono già i fermenti del rinnovamento conseguente alla guerra. Corrono le idee nuove, socialiste soprattutto. La madre, Lisa, vorrebbe che il figlio portasse in dono ai padroni due galletti, un’usanza antica, ma Taras Bulba li toglie dalla sporta e li getta a terra. Ride di queste idee antiquate. Rivolto alla madre: “– Sai come mi chiamavano alla guerra?
La madre disse: – Ce l’hai no, il tuo nome?
– Taras Bulba.”
Tra i paesani si chiacchiera delle mutazioni portate dalla guerra. Taluni mestieri sono in declino, l’industria sostituisce a poco a poco il lavoro artigiano. Anche per i contadini ci sono grossi cambiamenti. Chi non è provvisto di mezzi adeguati, non può far rendere il proprio campo.
Taras Bulba conduce una vita grama, è caparbio però: “usciva dalla stalla con la carretta carica di letame: lo trasportava nella concimaia, l’ammassava battendolo con la forca. Col boccale rovesciò sul concime il liquame del pozzo di raccolta, sì che il concime sia sempre bagnato e la paglia possa fermentare. La massa gli cresceva sotto gli occhi, alta quanto lui, fumava al sole: finché diventi una massa di«burro nero », allora vi monta sopra e lo taglia con la vanga. Era scalzo, rimboccò i calzoni a mezza gamba, mosse le dita lercie per togliere le pagliuzze.”
Il duro lavoro rende poco, metà del guadagno va al padrone, e la parte che resta non basta a saldare i debiti. La vita dei campi, la sua durezza, sono rese con puntiglio da Teglia. Taras Bulba non ci sta ad essere sfruttato a quel modo. Accenna alle prime resistenze. C’è la festa di San Jacopo, che è il patrono del paese (Altopascio, dove nacque Teglia, ha per patrono proprio San Jacopo) e Taras Bulba vi partecipa portando lo stendardo, come faceva il padre prima di lui. Gli amici lo sfottono. Il Mancini, che è stato soldato con lui, gli dice: “Non dargli retta.” Sebbene nella testa di Taras Bulba vi si muovano, ancora confuse, idee rivoluzionarie e ribelli, il rispetto della tradizione, soprattutto quella religiosa, non viene meno. È la profonda anima del contadino che affiora in superficie, il cui contatto diretto con le meraviglie della natura sollecita un costante pensiero di Dio. Teglia mostra di conoscere molto bene i valori profondi del personaggio che descrive. Anche il rapporto tra la madre e il figlio è reso nel contrasto tra la tradizione e il nuovo che avanza. Il figlio ha preteso dal padrone più di quanto stabilito dalle leggi vigenti, così altri contadini. Devono essere processati. La madre, a cui non piace la “tracotanza” del figlio, gli dice: “Un processo è un processo: non è una cosa da nulla, te lo sai che non è da nulla. E la prigione è la prigione: non è una cosa da nulla. Si deve fare: e sì, si deve fare! Te però ci metti rancore.”
Nonostante che egli neghi la sua rabbia, il pensiero di essere sfruttato lo perseguita: “Fare il contadino è il mestiere più difficile. Bisognerebbe che ci fosse il compenso. Invece è il mestiere più disgraziato: tutti ci stanno a mangiare sopra.”
Annetta, la figlia di Fanucci, un contadino anche lui, non vuole sposarlo. Non sposerà mai un contadino, gli dice. L’amico Mancini gli consiglia di lasciare i campi per la fabbrica, ma Taras Bulba non riesce a dimenticare che quella terra è stata coltivata da generazioni di suoi avi, e la considera ormai come se fosse di sua proprietà. In paese è il 4 novembre, si commemorano i caduti. Taras Bulba rifiuta di unirsi ai suoi compagni per rendere omaggio al monumento, come si fa da tanti anni. Chiacchiere, solo chiacchiere, dice. Invece la campagna richiede fatti, non chiacchiere.
Quel rifiuto è la sua rottura col passato, la sola rottura possibile. Non potendo fare altro, legato alla terra da tante generazioni, è alla terra, solo alla terra, che egli può far ritorno per ritrovarsi: “Questa terra è mia. E questa casa. Io ci sono nato e cresciuto. E quel cipresso l’ho piantato io, con mio padre. Ogni frutto che c’è, vedi, ogni vite e gelso e filo d’erba, li ho piantati io, o li ha piantati mio padre o il mio nonno.”
Ma si avverte nell’aria che tutto è destinato a perire, e che questa è proprio l’ultima, nostalgica ballata del mezzadro.
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Commento by Carlo Capone — 30 Settembre 2009 @ 14:01
Grande lettura, Bart, restituisce insieme il talento dello scrittore e le peculiarità del personaggio. Ferisce, sembra scolpita nel legno, la scena del ritorno di Taras Bulba: con il secco dialogo iniziale e il rivoltante lavaggio del padre. Si scorge in quest’ultima la pietas del figlio per il genitore malato, un’obbedienza postuma che riscontriamo nell’Ulisse che torna.
A proposito di Remo Teglia, un autore che ho scoperto e apprezzato attraverso le tue letture, desidero ricordare che un altro autore toscano, nato a Viareggio, fu ufficiale medico sul fronte libico e poi psichiatra in strutture manicomiali, e da queste esperienze trasse pagine indimenticabili. Mi riferisco al grande Mario Tobino, per certi versi anch’egli dimenticato.
Di lui ricordo, tra i tanti romanzi: Il deserto della Libia, Le libere donne di Magliano, Il clandestino (Premio Strega 1962), Per le antiche scale (Premio Campiello 72), La bella degli specchi (Premio Viareggio 76), Il perduto amore, Gli ultimi giorni di Magliano.
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 30 Settembre 2009 @ 14:24
Arriverà il turno anche di Mario Tobino, Carlo. Intorno a fine ottobre, primi di novembre. Sarà preceduto da una lettura di un altro libro di Teglia.
Grazie dell’attenzione. Ci tengo.
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Commento by Gian Gabriele Benedetti — 30 Settembre 2009 @ 20:53
Certi autori, come Remo Teglia, meriterebbero ben altra considerazione, ma, ahimè, il valore letterario spesso non ottiene il giusto sacrosanto vero riscontro.
Dai brani riportati e da quanto ebbi a leggere molti anni fa, emerge un’essenzialità formale ed un’incisività espressiva che prende, avvolge, penetra, come una sferzata di emozionalità ricavata dal reale, dal vissuto. Pare di avere dinanzi situazioni, personaggi, immagini, che senti penetrare nelle viscere, tanto sono vivi e veri.
È quella di Teglia una prosa che niente ha da invidiare ai moderni canoni, per l’autenticità e la vivacità della parola e della frase, per tutta quella realtà che ci fa toccare ed assaporare, per quella genuinità e naturalezza con cui affronta la limpida tensione narrativa.
Bartolomeo, ancora una sentita, coinvolgente, profonda analisi, per un’impostazione felice, che riflette l’amore che tu nutri per questo autore e la precisa conoscenza che di lui tu hai.
Mi associo, dunque, a quanto giustamente sostenuto da Carlo
Gian Gabriele
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 30 Settembre 2009 @ 21:34
Grazie anche a te, Gian Gabriele.