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LETTERATURA: Signora professoressa, di lei non mi è rimasto un bel ricordo

18 Luglio 2009

di Gian Gabriele Benedetti                      

                      Signora professoressa di matematica, chissà se si ricorderà di quel tempo e di me. Io frequentavo la seconda classe dell’Istituto Magistrale e, abitualmente, indossavo i pantaloni corti fino a che l’inverno con i suoi rigori non faceva “pizzicare” le gambe. Che vuole? Ero figlio di un operaio e bisognava risparmiare su tutto, anche sulla stoffa. Era già un miracolo, allora, che una famiglia come la mia potesse mantenere un ragazzo agli studi.
                      A scuola ce la mettevo tutta, perché non mi potevo permettere “distrazioni”, ma per uno come me che proveniva dall’isolamento dell’alta Garfagnana, non era facile l’inserimento in un ambiente dove “sguazzavano” insegnanti del suo stampo.
                      Sì, signora, non riesco ad avere un bel ricordo di lei, anzi…! Mi incuteva paura al punto che, ogni volta in cui entrava in aula, pregavo Iddio che inciampasse in una delle tante mattonelle sollevate dallo sconnesso pavimento e… finisse lì, stecchita!
                      Forse erano tempi diversi o, forse, in lei non c’era un briciolo di umanità.
                      La rammento quella mattina, quando entrò e, come al solito, passò indenne dalla “trappola” delle mattonelle. Si assise alla cattedra, prese il registro e con il suo abituale sadismo si pose a sbirciare l’elenco dei componenti della classe, per cercare la “vittima” quotidiana da interrogare. Ogni tanto alzava lo sguardo su di noi, che parevamo i burattini tremanti del “Pinocchio” di fronte al Mangiafoco desideroso di arrostire il suo montone con il legno di uno di loro.
                      Erano quelli momenti veramente terribili, interminabili, che lei allungava di proposito. Il cuore impazziva, le tempie pulsavano, un sudore freddo si avvertiva alla fronte. Meno male che la nostra non era ancora l’età critica per gli infarti!
                      Quando sentii risuonare il mio cognome nel silenzio gelido dell’aula, io me ne stavo nascosto, quasi sprofondato, nel vecchio, sbertucciato banco di legno, riparato da un ragazzo più robusto di me che sedeva dinanzi. Mi sentii salire il sangue alla testa ed a malapena riuscii a vedere i miei compagni rialzare lentamente il capo e tirare un sospiro di sollievo.
                      Mi diressi con le gambe molli, tremanti, verso la cattedra. “Alla lavagna!” mi disse, con fredda supponenza. “Disegna un triangolo rettangolo!”.
                      Mi fece scrivere i dati del problema che io dovevo risolvere. Rimasi con il gesso in mano ed il naso incollato alla lavagna non so per quanto, a meditare la soluzione che non riuscivo a trovare. Nell’aula non si sentiva volare nemmeno una mosca. Lei, per tutto il tempo, scribacchiò sui dei fogli, senza fiatare.
                      Dopo un secolo (a me parve così), “Cancella!” gridò. “Disegna un quadrato!”. Così mi trovai dinanzi agli occhi, che mi si velavano di lacrime, un’altra figura geometrica con altri dati per la risoluzione del nuovo problema.
                      Non riuscii a spiccicar parola. Lei, signora, continuava a tacere, aspettando con noncuranza, quasi con gusto, che toccassi il fondo della mia umiliazione.
                      “Al posto!” disse con indifferenza e scrisse sopra il registro il voto del mio fallimento. Seppi dopo che erano trascorsi circa venti minuti, che mi eran parsi un tempo senza fine.
                      Ormai sono volati via tanti e tanti anni da allora, ma quei venti minuti non sono più riuscito a cacciarli dalla mente. Ancor oggi che son anziano (per non dir vecchio), di tanto in tanto, mi tornano, quale incubo, nei miei sogni.
                      Signora professoressa, presa dalla sua presunzione di “depositaria” del sapere e priva di una sia pur minima valida concezione di carattere psicologico, pedagogico e didattico, pretendeva di contribuire a “formare” dei futuri educatori. Meno male che le vie del Signore sono infinite e che evidentemente esiste la Provvidenza, di manzoniana memoria.
                      Quando vinsi il “posto” di maestro, giurai a me stesso che mai avrei costretto i miei scolari a subire situazioni di tal genere, perché, anche a mie spese, avevo ben compreso che il successo scolastico dipende soprattutto dall’atmosfera che ogni insegnante è riuscito ad instaurare nella scuola e dal rapporto che ha saputo stabilire tra sé ed i suoi ragazzi. È indispensabile infatti che l’educatore mostri di amare i suoi alunni, sappia partecipare con entusiasmo ed abbandono alla loro vita, ne assecondi il loro impegno, ne conosca gli interessi e rispetti la loro umanità e la loro personalità. Nella classe devono sempre regnare fiducia partecipativa, lealtà generosa, serenità di intenti e di lavoro, collaborazione che affratella…
                      Ma questo, forse, per lei è parlar vano.

(Da “Paese”, ed. Lalli Poggibonsi)


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4 Comments

  1. Commento by Mario Camaiani — 18 Luglio 2009 @ 22:56

    In questo racconto, autobiografico, Gian Gabriele narra di un’ingiustizia subìta oltre mezzo secolo fa durante un periodo scolastico.
    Da questo esce fuori la grandezza d’animo del nostro autore: egli non solo non nutre nè odio nè rancore verso quella Professoressa che gli causò quell’ amarezza, ma altresì, divenuto poi maestro, nei tanti anni del suo lavoro d’insegnante, afferma che si è sempre comportato con gli alunni in modo umano, comprensivo, cercando di elevare gli scolari non solo in cultura, ma anche nei sentimenti.
    E questo è veramente bello, edificante.
    Mario.

  2. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 18 Luglio 2009 @ 23:30

    Ti ringrazio, Mario, per il tuo bel commento, teso a tratteggiare gli aspetti salienti di questo semplice racconto autobiografico. In effetti, come tu ben sottolinei, non ho portato con me né odio né rancore per questa professoressa, che, tra l’altro è ancora viva e non di rado, pur un po’ malandata, torna a Barga. Ho solo provato una certa “pietà” (la definirei così) per questa sua durezza di approccio con la classe, che sicuramente non l’ha fatta, a mio avviso, vivere con quella serenità generata dall’animo buono, generoso, disponibile, pieno di umanità e di comprensione.
    In un certo senso debbo anche a lei, ma soprattutto alla mia indole, se io, nel rapporto con i miei bimbi (permettimi di chiamarli così), ho avuto atteggiamenti e comportamenti ben diversi, tanto che non pochi ex scolari, ora con i capelli bianchi, padri e, addirittura, nonni, quando mi incontrano ricordano con nostalgia il tempo trascorso insieme nella scuola. Molti mi hanno detto che quel periodo è stato il più bello della loro vita. Ciò, ovviamente, mi gratifica non poco e un po’, se me lo permetti, mi inorgoglisce
    Ti abbraccio
    Gian Gabriele

  3. Commento by claudio grosset — 24 Luglio 2009 @ 08:39

    Il titolo di questa ‘arringa accusatoria’ di Gian Gabriele, mi ha richiamato alla mente il sonetto ‘Tanto gentile e tanto onesta pare’. Titoli già di per sé esaustivi dei diversi opposti sentimenti di seguito descritti: Amore ed Odio.
    Qui dibattiamo del secondo. Di fronte al ‘Terrore’ che la professoressa incute nell’alunno, biasimabile per più motivi, per il ruolo a scopo didattico e formativo di insegnante, per la cultura superiore alla media collegato alla professione, il sentimento di ‘Odio’ pare una risposta adeguata all’offesa, ed a maggior ragione se l’innocuo obbiettivo è un adoloscente ‘da formare’, ne giustifica la comprensibile psicologica reazione.
    Poi, a mente fredda ed a maturità acquisita il sentimento di avversione si trasforma in esperienza acquisita e, se pur negativa, indispensabile a generare conoscenza e saggezza.
    Questo monologo si presenta nella duplice veste, sia di racconto breve ma intenso e di gradevole lettura, sia di un piccolo trattatto sull’arte dell’insegnamento, che il nostro autore sembra ben conoscere per esperienza vissuta.

  4. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 24 Luglio 2009 @ 16:01

    Grazie, Claudio, per il commento sempre puntuale e “penetrante”, testimonianza di una grande sensibilità e di indiscusse capacità. Ne ricavo gratificazione e stimolo.
    Un caro saluto
    Gian Gabriele

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