LETTERATURA: STORIA: Antonio Scurati ci descrive una feroce aggressione fascista del 1921
5 Dicembre 2019
di Bartolomeo Di Monaco
Antonio Scurati, come potete constatare anche da questo brano tratto da “M. Il figlio del secoloâ€, ha uno stile pulito e conciso, in qualche parte sottilmente ironico.
Pur in presenza di afflati di sommesso romanticismo, che in qualche caso rischiano di toccare la soglia della retorica, la lettura dell’opera resta interessante e gradevole.
Desidero riportare questo breve capitolo in cui è descritta una efferata aggressione fascista di fine febbraio del 1921 (da pag. 340). Non ho finora incontrato delle pagine così espressivamente ed efficacemente compiute.
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“Il casolare dorme. Dorme nel silenzio e nel buio dei gelidi inverni della pianura padana. E notte fonda, la luce del giorno irraggiungibile, equidistante. È l’ora meridiana dell’oblio, l’ora che non trascorre, l’ora del lupo. Qualunque creatura dorme, dentro e fuori la casa, per decine di chilometri in ogni direzione. Dormono i bambini e i vecchi, dormono le donne e gli uomini, i padri, le madri, i figli, dormono gli animali nella stalla, i cani nelle cucce e le centinaia di specie selvatiche, tra mammiferi, rettili, anfibi e pesci, che svernano nelle terre umide del delta.
Il camion è partito da Ferrara. Gli uomini che siedono nel cassone scoperto – una mezza dozzina – hanno cenato abbondantemente in trattoria, hanno riso, hanno scommesso, poi hanno atteso che si facesse l’ora trangugiando liquore al solito posto. Il camion, un residuato bellico, procede a rilento su gomme piene, sperduto nei meandri nebbiosi tra i canali di drenaggio di territori anfibi, su giaciture depresse con ampie porzioni sotto il livello del mare. Le sue ruote piene ne aggravano la subsidenza, il lento sprofondamento di questo lembo continentale, premono su serie detritiche spesse migliaia di metri dentro la crosta del suolo.
Quando arriva in vista del casolare, il camion rallenta ulteriormente, avanzando quasi a passo d’uomo. Qualcuno suggerisce di spegnere i fari ma non c’è luna, il cielo è vuoto e si perderebbe la strada. Tutte le creature infime che vivono strisciando al suolo, attratte dalla luce dei fanali, escono dalle loro tane. Topi, talpe, lucertole, gechi, ramarri, bisce, vermi, bachi, rospi e millepiedi si avvicinano all’auto avanzando sul ventre. Tra le prime a cercare il giorno artificiale dei fari, per andarvi a cozzare, le falene di ogni peso e dimensione.
Il piccolo corpo globulare di un rospo dell’aglio incontra la ruota. Cerca inutilmente di scavare il terreno con i suoi speroni. L’insignificante massa elastica riceve il macigno sul dorso bruno con macchie olivastre, la sfera di materia gelatinosa si tende allo spasimo, poi lo schianto rilascia un suono in cui si mescolano uno sfiato d’aria e un versamento d’acque. Irrompendo nel cortile del casolare, la ruota del camion riguadagna la totale aderenza al suolo.
Gli squadristi circondano la casa e chiamano per nome. Il nome della loro preda risuona a migliaia di metri nel silenzio della campagna paralizzata. Sono tutti armati di moschetti della Grande guerra, sia italiani sia austriaci. Tutti tranne un tizio alto, ammantato in un impermeabile di pelle nera, il volto celato da un paio di grossi occhiali da motociclista. Lui brandisce una grossa mazza di legno con la testa rinforzata in ferro. È lui che chiama nella notte.
Il capolega, che ha sentito il camion arrivare e avvistato nel buio la luce dei fanali, fugge nei campi da una porticina sul retro. E già lontano, già in salvo quando l’uomo con il trench nero abbatte a colpi di mazza la porta d’ingresso della sua casa. La devastazione è metodica, semplice, incontrastata. Presi dalla sua facile euforia, i distruttori sparano anche qualche colpo di rivoltella contro la madia dove si tiene da conto il pane del giorno prima. L’uomo in fuga, udendo a distanza le urla terrorizzate della moglie e delle figlie, torna indietro. Allarga le braccia verso gli squadristi nel cortile:
“Volete me? Eccomi.â€
Lo mettono al muro. Fanno scendere vecchi, moglie e bambini perché assistano alla fucilazione del figlio, del marito, del padre e allineano di fronte a lui una caricatura di plotone d’esecuzione. Le due bambine – avranno forse sette e nove anni – non strillano, non piangono, ammutolite dalla morte imminente del padre e dalla apocalisse del loro mondo.
Gli squadristi puntano le armi. Al comando dell’uomo con gli occhiali da motociclista aprono il fuoco. Ma il capolega è ancora in piedi: hanno tutti alzato la mira per una finta esecuzione.
In quel momento la moglie scoppia a singhiozzare, si scioglie in un irrefrenabile pianto di sollievo. Il marito scosta la schiena dal muro e muove un cauto passo verso di lei. Solo la bambina più grande capisce. Tende una piccola mano con il palmo aperto, rivolto in alto e in fuori, e lancia un urlo che durerà tutta la sua vita:
“No, babbo, scappa, scappa!â€
L’uomo con gli occhialoni ruota la mazza ferrata sopra la propria testa e sferra il colpo sul cranio del capolega. Il padre abbattuto si trascina per terra con il volto coperto di sangue verso le figlie, balbetta parole sconnesse, striscia ventre a terra tra le gambe degli squadristi che lo colpiscono con i loro bastoni.
Sembra finita. Il capo degli assassini fa cenno, però, ai suoi di fermare il massacro. Poi avanza lentamente sull’uomo a terra, lo scavalca con la gamba destra, gli si mette a cavalcioni e si piega sulle ginocchia, con un gesto incongruo, in una postura scomoda e goffa, accovacciato sui propri talloni, quasi fosse spinto dal bisogno improvviso di defecare. Invece estrae dalla tasca del trench una rivoltella e con quella spara nella schiena al moribondo. Il corpo sussulta. Ora è finita.
Sulla via del ritorno, ammucchiati nel cassone del camion, gli assassini cantano. Il loro canto si perde a oriente nella prima luce che sorge sul mondo dalle golene del delta come nel primo giorno della creazione. Dopo questa notte, la vita non sarà più la stessa nelle campagne del Polesine. Il terrore si stende ovunque, sottile, uniforme, in un velo di brina.â€.
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