LETTERATURA: STORIA: Il ritorno13 Gennaio 2013 di Mario Camaiani Dietro l’incalzare dell’offensiva delle forze dell’Asse, nel Natale ’44, che, con la rotta della divisione “Buffalo”, avevano rioccupato vaste zone sul fronte della Garfagnana, fra le quali anche quella della nostra residenza, io con i miei genitori, insieme ad altri quattro nostri concittadini, eravamo fuggiti e da alcuni giorni ci trovavamo a Bagni di Lucca, profughi, ospitati presso una coppia di bravi coniugi, Camillo e Mercede. Molti erano gli sfollati in questa cittadina termale, nella quale c’era un gran movimento di truppe degli Alleati, con mezzi e armamenti di ogni genere, che si dirigevano verso nord, verso il fronte. Un giorno, il 30 dicembre, durante il desinare entrò nella trattoria, dove eravamo, una guardia comunale che, a voce alta annunciò: “Ci è giunta notizia che gli anglo-indiani hanno rioccupato Barga!”. Un grido di esultanza e salti di gioia, da parte di tutti gli astanti: “Finalmente potremo tornare alle nostre case!”, gridammo. Venne offerto un caffè al vigile che continuò ad informarci: “Quasi in concomitanza con l’offensiva che gli italo-tedeschi hanno effettuato nella nostra valle, al fronte occidentale, nelle Ardenne, presso il Belgio, le forze germaniche, una settimana prima di Natale passarono all’attacco scatenando una grande offensiva, avanzando su un vasto fronte, fino alla città di Bastogne. Sembra che le due azioni belliche, concluse in un primo tempo vittoriosamente, siano state concordate di proposito onde ottenere, più che un risultato pratico, strategico, un risultato propagandistico, per rialzare un po’ il morale dei loro combattenti e delle loro popolazioni. Ma già adesso, tanto qui da noi che nelle Ardenne, gli Alleati, alla controffensiva, stanno riconquistando i territori perduti e oramai il territorio nazionale della Germania sta per essere stretto in una morsa: dagli anglo-americani da occidente e dai sovietici da oriente.”. “Si, bene! – esclamò una donna alzandosi in piedi – E’ come una belva feroce ferita a morte che si dibatte colpendo ciecamente come e dove può; ma la sua fine è ormai segnata!”. Il brutale commento però non ottenne un entusiastico consenso fra gli avventori, come forse la donna si aspettava. Nel locale, ad un tavolo appresso, si trovava un prete che, ascoltando le dure parole della donna, la osservava severamente. Allora un avventore, che evidentemente lo conosceva, gli si rivolse: “Reverendo, qui si va di male in peggio: perché il Signore consente tutto questo male?”. Al che l’anziano sacerdote rispose pacatamente, ma con fermezza: “No: Dio, perfezione di bene, non può volere il male, come la luce non è ombra. E come l’ombra si forma perché un corpo ostacola il suo passaggio, anche il peccatore, commettendo di sua volontà il male, si impedisce la ricezione di Dio – e qui il religioso fece una pausa e poi riprese: – Ma un corpo trasparente lascia passare la luce e diffonderla in varie direzioni; e così pure l’uomo può, e deve, diventare trasparente al passaggio dell’amore divino e irraggiarlo a sua volta”. Le dotte parole del sacerdote vennero ben recepite dagli astanti, che cessarono di vociare e di discutere. Noi decidemmo di partire il primo gennaio, ma la sera precedente fummo avvertiti di non uscire di casa, al mattino seguente, finché non fossero esplose delle mine per distruggere alcune case, vicine alla nostra, presso il Ponte a Serraglio, che in un punto stretto della strada impedivano il passaggio dei carri armati. Ed ecco che al primo mattino di capodanno 1945, mentre preparavamo valigie e fagotti, una forte esplosione fece tremare il casamento: le preannunciate mine erano state fatte brillare. E fortuna che ci si era alzati, perché parte del soffittato era crollato proprio sopra i nostri giacigli: se si fosse stati lì coricati, certamente i calcinacci ci avrebbero feriti! Ma eravamo abituati ad ogni genere di pericolo: era nella normalità. Ringraziammo e salutammo calorosamente i bravi coniugi che ci avevano provvidenzialmente ospitato e ci mettemmo in marcia. Verso mezzogiorno arrivammo al torrente Fegana e ci apprestammo a guadarlo: c’era meno acqua e la cosa fu più agevole che non all’andata, cinque giorni prima, quando nell’acqua era caduta la signora Maria, la quale, dopo il passaggio, tirò un sospiro di sollievo. “Ora sono più tranquilla – fece – e possiamo fare una sosta per il “pranzo”! “Buona idea – le rispondemmo -, ché siamo affamati!”. E consumammo quel poco che avevamo: pane, frutta e castagnaccio. “Perbacco – esclamò Rosina, la figlia di Maria -, ma oggi è il primo giorno dell’anno e sarebbe di regola farci gli auguri con un brindisi… Ma ci vuole lo ‘champagne’!”. “Eccolo”, fece Viviano tirando fuori dallo zaino una bottiglia di acqua. E tutti bevemmo a turno qualche sorso d’acqua augurandoci Buon Anno, in siffatto insolito brindisi comunitario che ci fece ridere, ma anche rasserenare. Il tempo, da molti giorni era ottimo, e così continuava ad esserlo: la natura ci stava aiutando, mentre gli uomini, con la loro guerra, no. Transitammo per Calavorno, indi per Ghivizzano e mano amano che ci avvicinavamo alla zona di operazioni, aumentava il numero dei soldati e dei mezzi militari, soprattutto indiani. Giunti a Piano di Coreglia, dalla cima dell’altipiano, con commozione ammirammo la nostra Valle che si prospettava davanti al nostro sguardo: eravamo quasi arrivati a destinazione. Ancora poche decine di metri per la strada che scendeva verso il torrente Ania; ma quando vi giungemmo fummo fermati ad un posto di blocco dalle sentinelle inglesi, che lo piantonavano. “Dove andare? Non si può – ci disse un soldato -, tornare indietro”. E intanto gli altri osservavano sospettosamente le nostre borse e fagotti, come volessero perquisirle. Noi rispondemmo che si ritornava alla nostra casa, lì vicino, al di là del corso d’acqua, dopo la fuga per l’arrivo dei tedeschi, e che altrimenti non si sapeva dove altro andare…ma quegli fu inflessibile e ci fu impedito il passaggio. La situazione era veramente difficile; finché, osservando il ponte della ferrovia, di ferro, distrutto, adagiato sul torrente, ci venne l’idea di tentare di passare da quello. Per una stradina arrivammo al ponte di ferro, parallelo a quello stradale ad una distanza di un centinaio di metri, e ci accingemmo a superarlo. Fu un avanzamento lento, difficoltoso e pericoloso, procedere tra la gabbia metallica e il piano della ferrovia, tutto contorto, in specie per la signora Maria e per le altre donne; però ci si aiutava gli uni con gli altri. Quando giungemmo al centro del ponte, notammo che le sentinelle, dal ponte della strada ci stavano osservando ed allora ci prese veramente una grande paura…ma ecco che quei militari si voltarono dall’altra parte, come non volessero vederci. Proprio così: credo davvero che ebbero pietà di noi e ci lasciarono procedere. Da Ponte all’Ania si salì a Pedona che ormai imbruniva e, giunti presso il colle della casa, si videro nel terreno diverse buche, fresche, di cannonate, sparate dai tedeschi. Ed infatti alcuni contadini ci dissero che erano esplose poche ore prima. Le cose quindi si mettevano male e, peggio ancora, quando giungemmo alla casa, vedemmo che questa era stata colpita al lato sud, durante l’occupazione tedesca, da un proiettile di grosso calibro degli Alleati, che aveva demolito parte del tetto e del piano alto. Preoccupati, ci avvicinammo alla porta di casa: era aperta e noi entrammo timorosi, chiamando Olinto, il proprietario; ma non c’era nessuno (in seguito si seppe che era fuggito pure lui), ma le stanze, chiaramente oltre quelle colpite, erano tutte a soqquadro, mobili aperti, cassetti per terra: insomma la casa era pure stata visitata dai ladri ed anche a noi avevano portato via indumenti e coperte, di quel poco che possedevamo. Ormai era calata la sera ma, pur sfiniti come eravamo, accendemmo il fuoco per cucinare una polenta di farina di castagne, per non andare a coricarci a stomaco vuoto; e pure accendemmo la lampada a carburo: per queste fonti di luce, affinché non trapelassero all’esterno per il rigido oscuramento necessario in zona di operazioni, tenevamo le imposte delle finestre ben chiuse, come da tanto tempo era fare, di norma. Ma, quando l’acqua nel paiolo stava per bollire, ecco che alla porta di casa qualcuno bussò fortemente, mentre una voce gridava “Aprire!” Ci si guardò costernati: subito si rafforzò la chiusura della porta con il paletto e si corse al piano superiore dove da una finestra vedemmo chiaramente, alla luce della luna, un folto gruppo di soldati indiani. “Che vorranno? – ci chiedemmo preoccupati – Non sembra che siano di pattuglia per perlustrazioni regolari; bensì allo stato libero, e forse ubriachi: saranno stati attirati qui dal fumo del camino della casa, isolata, visibile dalla strada sottostante e da più parti”. Ma intanto quelli continuavano l’assedio alla casa, battendo alla porta ed urlando… Babbo allora apri la finestra e gridò loro: ”Che volete? Noi siamo civili, siamo a casa nostra: lasciateci in pace!”. Forse qualcosa capirono, fecero un po’ di silenzio e poi uno di loro disse: ”Volere vino, bere con voi!”. Babbo chiuse la finestra e, mentre i soldati riprendevano la prepotenza, Bruna, la mamma di Viviano, disse: “Scappiamo dal dietro della casa…”. “No – rispose babbo –, che fuori sicuramente ci prenderebbero. Però in casa non possiamo farli entrare, non certo per il vino, ma perché qui ci sono delle donne…Esco io: proverò a parlarci”. “Ma ti ammazzeranno sono in tanti e armati: non uscire -, lo implorò mia madre -”. Ma mio padre replicò: “Sai bene, Dina, che non sono un pauroso: nella Grande Guerra mi sono trovato in situazioni forse peggiori di questa, come quando una volta mi finsi morto accovacciato presso ad una carogna di mulo, mentre un pattuglia austriaca mi passava accanto!”. Ed uscì fuori chiudendo la porta. Noi dalla finestra lo vedemmo circondato minacciosamente da quei militari e parlava, parlava, poi faceva gesti con le braccia, indicando perfino il cielo! Un paio di costoro sembrava che lo capissero, e poi gli dissero qualcosa; indi, incredibilmente, se ne andarono! Quando babbo rientrò in casa, tutti noi, eccitatissimi per la gioia dello scampato pericolo gli si chiese: “Ma come hai fatto a convincerli ad andarsene?”. “Fortuna è stata che uno di loro capiva un po’ di italiano – spiegò babbo – e lo traduceva agli altri. Io ho ad essi parlato della nostra situazione, da anni tartassati da questa stato di guerra, e che in loro vediamo i nostri salvatori che ci liberano dall’occupazione tedesca. E se voi ci faceste violenza, ho detto loro direttamente, non portereste la pace, ma saresti come gli altri…Ed i vostri superiori inglesi, in questo caso vi punirebbero severamente. Inoltre c’è Iddio, e indicavo il cielo, che al di sopra della varie religioni, è sempre lo stesso, ed è vindice delle ingiustizie. Ecco: è a questo punto che se ne sono andati via!” – concluse. La signora Maria intervenne: “Per tutto il tempo che lei, Umberto, è stato con quei soldati, io ho pregato la Madonna che ci facesse la grazia di essere liberati da questo pericolo, e siamo stati esauditi!”. Cucinammo la polenta, la mangiammo e poi, stremati, ci coricammo alla meglio su giacigli di fortuna, proponendo per il giorno dopo di cercare un’altra abitazione più sicura, che questa era ormai inabitabile, per tutti i motivi suddetti. Il giorno dopo, mio padre, Viviano ed io, partimmo in cerca di un’abitazione; prima dalle persone che conoscevamo, e poi anche da altri, ma non era facile trovarla, così alla svelta, e per sette persone; finché in piazza a Filecchio incontrammo l’amico Mansueto, un contadino schietto e burlone, che ci chiese notizie e quando lo informammo dell’episodio dell’“assedio” degli indiani, esclamò: “La notizia che mi date non mi sorprende più di tanto, perché gli indiani, essendo in zona di operazioni, sono meno tenuti a disciplina dagli inglesi e perciò talvolta qualcuno di loro può compiere degli atti di violenza, come questo a voi accaduto. – E ciò Mansueto lo disse seriamente; indi, con fare ironico, aggiunse -: comunque a me pare che gli inglesi e i nordamericani facciano una guerra comoda, alleati con altri che sembrano piuttosto loro servitori: prima di prendere possesso della nostra terra, cannonate a non finire, finché qualcuno andò alle loro linee per informarli che i tedeschi avevano abbandonato la zona, tant’é che ogni giorno un militare tedesco in motocicletta veniva a vedere se erano arrivati; poi si decisero ad avanzare, mandando i brasiliani; in seguito questi vennero sostituiti con soldati americani, ma negri; infine, dopo la disfatta, ecco che veniamo da loro rioccupati, ma dagli indiani!”. E ridacchiava compiaciuto del suo dire, ed anche altri, lì presenti, gli dettero ragione. Mansueto, quando seppe della nostra necessità di trovare una nuova abitazione, ci pensò seriamente, poi ebbe come un’ispirazione e ci disse, indicandoci un moderno piccolo edificio, a pochi passi da noi: “Quella è la ex casa del fascio di Filecchio, è vuota – poi aggiunse -: quante riunioni e feste ci abbiamo fatto, ché era anche un dopolavoro, un luogo di ritrovo per tutto il paese… Può fare al caso vostro.”. “Benissimo – fece babbo – ma a chi dobbiamo rivolgerci?”. “Il segretario non c’è, però la chiave dovrebbe averla la vecchia maestra: vi accompagno da lei.”. L’anziana signora fu molto gentile con noi, ci fece visitare i due piani della struttura: il piano terra era diviso in varie piccole stanze, mentre quello superiore era costituito da un grande stanzone più una piccola cucina, perciò noi scegliemmo questo. La gentile signora ci consegnò la chiave e noi, felici, ringraziammo calorosamente tanto lei che Mansueto e corremmo verso casa per dare la bella notizia ai nostri cari. In un paio di giorni effettuammo il trasloco delle nostre suppellettili, anche aiutati da qualche volenteroso, ché il tragitto era di circa un chilometro. Nello stanzone improvvisammo con i mobili delle pareti divisorie e così sistemati in questa nuova casa ci sentimmo più sicuri, più tranquilli, essendo questa nel centro del paese. Quindi riprendemmo la solita, disagiata vita come prima della ritirata ed anche babbo tornò al suo lavoro alla metallurgica; il tutto fra continui duelli di artiglieria, come di consueto. Letto 4319 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Mario Camaiani — 13 Gennaio 2013 @ 14:19
Trascrivo questo bel commento al mio racconto che mi ha inviato l’amico Gian Gabriele.
“Piccolo commento al racconto “Il ritorno”
di Mario Camaiani
Già si respira in questo racconto quell’aria di liberazione da un terribile incubo, che ben si esterna con l’emozionante aprirsi dinanzi agli occhi della valle del ritorno. Eppure i disagi sono tutt’altro che finiti. Ma anche il tempo atmosferico sembra porgere il suo volto buono su circostanze che vanno evolvendosi lentamente verso sbocchi positivi.
Pure in questo racconto, che si scioglie con attenta precisione e massima puntualità narrativa, si ha non solo la storia dei fatti, degli eventi, bensì la storia di uomini, di persone comuni proiettate dentro drammi ben più grandi di loro. Persone sempre in bilico tra prostrazioni di situazioni difficili oltre ogni limite di sopportazione, quasi disumane.
E in questo contesto emergono sempre, unitamente alla speranza che pare affacciarsi come pallida luce in fondo al tunnel, la solidarietà, la fratellanza, la comprensione, l’amicizia… Così ben risaltano ancora quei valori essenziali che nessuna guerra, nessun tragedia, nessuna negatività potranno mai cancellare. Valori e principi che vengono ben sottolineati dalle sagge, profonde e sentite parole del sacerdote. Così si può dire con l’autore che l’ombra non è altro che assenza di luce, come il male è assenza completa del bene, assenza di Dio. Eppure anche l’ombra ha bisogno della luce per esistere. Ed è per questo che Dio permette il male, per ricavarne il maggior bene possibile.
Gian Gabriele Benedetti”
Grazie, Gian Gabriele!