LETTERATURA: STORIA: I MAESTRI: L’imperatore filosofo #2/10
3 Ottobre 2008
di Panfilo Gentile
[dal “Corriere della Sera”, mercoledì 16 aprile 1969]
Carlo Carena ci ha dato una nuova eccellente tradu zione dei Ricordi di Marco Aurelio (editore Einaudi). Nel segnalarla credo che debba essere fatta una sola racco mandazione: il lettore non giudichi questo libro come un’opera di filosofia, anche se essa figura come tale nei ma nuali scolastici e se ha val so al suo autore la ben nota qualifica di «imperatore fìlosofo. »
I Ricordi sono dei semplici appunti presi alla svelta nei ritagli di tempo. A rigore, non si tratta nemmeno di un dia rio redatto con continuità. E alla origine frammentaria della redazione si aggiunge un’incertezza di pensiero, che met te costantemente un frammen to in contradizione con l’altro. Ernesto Renan, che pure si avvicinò ai Ricordi ed al personaggio con accomodante comprensione, non potette fare a meno di concludere: « In fondo Marco Aurelio non ha alcuna filosofia. Egli non risolve nessun problema ». An che sui temi che più lo appassionarono fu pieno di in coerenze volubili. In teologia oscillò fra il deismo puro, il politeismo interpretato in un senso fisico alla maniera stoica ed una specie di panteismo cosmico. Non ebbe alcuna idea ferma sull’anima e sull’immortalità. Restò sospeso fra la fede in un ordine cosmico ed umano provviden ziale ed il dubbio sulla giu stizia divina. Affermò che « gli Dei sovranamente giusti e buo ni non avevano lasciato nel l’ordine del mondo niente che fosse contrario alla ragione e alla giustizia », ma non escluse l’ipotesi opposta che gli Dei non si occupavano affatto delle cose umane e che il mondo, abbandonato dagli Dei, era senza provvidenza.
Sarebbe ingiusto attribuire tale scarsa robustezza di pen siero a una sua mediocrità di ingegno. La sua filosofia è al livello della cultura dell’epoca. Fra Seneca e Marco Aurelio non è passato un se colo, ma, nello spazio di due o tre generazioni, quale crollo! L’Oriente neo-platonico, gnostico, mistagogico ha de vastato l’eredità della Grecia, ha corrotto il pensiero, ha abbassato la filosofia fino alla teurgia e alla magia ed arriverà a tributare onori divini a un miserabile ciarlatano come Apollonio di Tiana, vissuto sotto Traiano e divinizzato sotto Alessandro Severo.
Da questa decaduta cultura Marco Aurelio prese il meglio di ciò che essa offriva, ma la confusione delle idee è testi moniata dai maestri che gli furono dati da Antonino. Apollonio di Calcedonia, Se sto di Cheronea, Alessandro di Seleucia, Cinna Catulo, Claudio Severo, Frontone, per parlare solo dei maestri filo sofi, rappresentavano a modo loro tutte le scuole allora in auge e si intitolavano abusivamente a tradizioni oramai pervertite, neo-platonici, stoici, peripatetici. Dovettero infarcire il loro augusto allievo di una vera babele fìlosofìca.
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E se i Ricordi non sono un libro di filosofia, che cosa so no? Sono, risponde benissimo Carlo Carena, un libro di edi ficazione. Malgrado tutto, so no un documento di un’altis sima vocazione morale. Quali che fossero le sue esitanti dottrine filosofiche, di una so la cosa Marco Aurelio non dubitò mai e cioè della sua volontà di essere ad ogni co sto e in qualsiasi circostanza un uomo giusto. Egli mise davanti a sé un certo model lo di perfezione morale e si sforzò di uniformarcisi con assoluta fedeltà. Spinse questa programmazione virtuosa fino alla pedanteria, associando ai massimi doveri i più minuscoli precetti, come ad esempio l’orario del bagno, la sobrietà dei cibi o la modestia dell’abbigliamento.
E bisogna aggiungere che l’ideale preso a modello non fu quello abituale dei mora listi classici: temperanza, for za, controllo di sé, dominio delle passioni, dignità e via dicendo. Onorò tutte queste virtù ma sopra tutte mise una benevolenza umana illimitata. « Tutta la sua vita – scrive Renan – fu uno studio di ren dere bene al male ». E non guastò in questa nobile e rara vocazione una sfumatura di rassegnazione malinconica. La società del suo tempo non do veva lasciargli molte illusioni sull’avvenire dei suoi ideali morali. E non doveva andare lontano dal trono per convin cersi che difficilmente avrebbe trovato discepoli ed imitatori. Lucio Vero da lui associato all’impero fu un uomo frivo lo e sciocco e Marco Aurelio dovette compiere prodigi di bontà e di delicatezza per impedirgli di compiere follie disastrose. La moglie Faustina ebbe una triste fama e l’elogio che egli ne fece sempre non fu che una pia menzogna. E un martirio più duro gli fu dato dal figlio Commodo e col martirio forse anche il ri morso di non avere avuto il coraggio di diseredarlo. Gli mancò infine la consolazione cristiana della patria celeste.
La sua benevolenza umana rasentò la carità cristiana ma senza la ricompensa della speranza.
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Questo pio imperatore, co sì vicino al cristianesimo figura per un’ironia della storia tra i persecutori dei cristia ni. Effettivamente sotto il suo principato la cristianità ebbe molte afflizioni. Per la prima volta le persecuzioni dall’Oriente si estesero all’Occidente e restarono tristemente famosi i processi di Lione, nei quali le folle inferocite ottennero dai magistrati imperiali numerose condanne capitali contro persone che non ave vano altra colpa che quella di professarsi cristiane. Ma si deve escludere che il potere centrale sia intervenuto nei fatti deplorati con proprie iniziative legislative o politiche. La moderna storiografìa ha assodato che prima di Decio non fu promulgata nessuna legge che condannasse il cristianesimo e nessun imperatore prese l’iniziativa di promuovere per altro titolo procedure contro i cristiani. Vero è invece che i cristiani pote vano essere incriminati per lesa maestà, quando rifiutavano di sacrificare al genio dell’imperatore, oppure pel sacrilegio, quando in certe circostanze rifiutavano di onora re numi particolarmente cari alla devozione popolare, op pure per l’appartenenza a una « religio nova et peregrina » non registrata cioè fra i culti pubblicamente autorizzati, o infine in base al « jus coercitionis »: un potere di polizia confidato ai funzionari imperiali in caso di turbativa dell’ordine pubblico. L’applicazione di queste leggi era più o meno rigorosa ed era gene ralmente affidata alla discre zione dei magistrati locali, i quali alla loro volta si rego lavano secondo gli umori popolari. Per tutto il secondo secolo questi umori furono largamente ostili ai cristiani non meno che agli ebrei.
Per quanto riguarda Marco Aurelio non risulta nemmeno che a lui sia accaduto quel che era accaduto a Traiano, quando Plinio, legato in Bitinia, lo aveva interpellato sul modo di comportarsi dinanzi alle denunzie che piovevano nella sua provincia contro i cristiani. Marco Aurelio dovette ignorare l’esistenza di una questione cristiana e si può escludere che le apologie a lui dirette da autorevoli scrittori ecclesiastici potessero bastare a modificare la prassi oramai adottata uniformemen te dopo Traiano, di applicare cioè le leggi comuni, se i cri stiani erano colpevoli di qualche reato, di osservare proce dure regolari (nemo damnetur nisi per legale judicium, come aveva insegnato Seneca) e di colpire i calunniatori, quando le accuse fossero ri sultate false. E del resto non sono da scartare nemmeno ipotesi verosimili e cioè che le apologie non sieno mai ar rivate alla cancelleria impe riale, o, se arrivate, non sieno mai state portate a conoscen za dell’imperatore. Ciò, per ché se Marco Aurelio fosse stato investito della questione, è indubbio che non sarebbero mancati provvedimenti in un senso o nell’altro, data la scru polosa diligenza con cui adem piva a tutti i suoi pubblici doveri.
Tertulliano, il quale scrive va qualche decennio dalla morte dell’imperatore, arrivò a chiamarlo addirittura « protector christianorum » ma era d’uso nella letteratura eccle siastica di spacciare per amici dei cristiani gli imperatori che avevano lasciato buona fama e per persecutori gli impera tori che erano ricordati come mostri, parallelismo che fu smentito clamorosamente dal figlio Commodo che fu un mostro ma amico dei cristiani.
« Sotto il principato di Commodo – scrive Eusebio – regnò la pace in tutta la Chiesa e cominciarono numerose con versioni fra i ricchi ed i patri zi ». Quindi né persecutore, né protettore, e rassomiglianza ma non corrispondenza della sua anima rispetto allo spirito cristiano. La sua benevolenza umana non ha l’entusiasmo della carità cristiana. Malgra do tutte le vicinanze la voce di Marco Aurelio ha l’accento stanco di un mondo sene scente.
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Commento by Gian Gabriele Benedetti — 3 Ottobre 2008 @ 22:47
I “Ricordi” di Marco Aurelio sono, come è stato sottolineato nell’articolo, una specie di diario vero e proprio. E come in un diario si annotano giorno per giorno o saltuariamente i fatti salienti, le nostre sensazioni, le nostre riflessioni, così è avvenuto in questa specie di diario filosofico aureliano. Ebbene Marco Aurelio era solito annotare i diversi pensieri derivanti da più pensatori. Forse era un modo per ricordare a se stesso le varie posizioni, le varie tendenze, le più disparate tematiche speculative. O forse non ha avuto le capacità necessarie per tradurre in un pensiero logico, organico e compiuto il suo bagaglio culturale. Ma io sottolineerei un’altra possibilità. Non ci ha dato una vera “linea” di pensiero, un vero indirizzo filosofico suo personale, proprio perché combattuto, a mio avviso, fra le varie idee e le varie teorie ricavate dai grandi filosofi e, pertanto, incerto nel prendere un posizione precisa e ben definita.
Se, tuttavia, vogliamo qualificare questo imperatore come filosofo, facendo pure uno sforzo, possiamo collocarlo tra gli Stoici, che ripartivano la filosofia in tre rami: logica, fisica ed etica
Gian Gabriele Benedetti