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LETTERATURA: STORIA: Piero Tarticchio: “Maria Peschle e il suo giardino di vetro”

4 Febbraio 2019

di Bartolomeo Di Monaco

Ci sono libri che gridano la loro testimonianza di dolore e si cerca di non ascoltarli, poiché interrogano la nostra coscienza di uomini incerti e titubanti, spesso colpevoli e ipocriti.

Piero Tarticchio, grafico-pittore, scrittore e giornalista, nato a Gallesano-Pola nel 1936, è un autore che ha dedicato la sua vita a denunciare il dramma degli esuli istriani, fiumani e dalmati, resi tali dal Trattato firmato dall’Italia a Parigi il 10 febbraio 1947. Sono numerosi i suoi libri e gli articoli su questo tema: “Le radici del vento”, 1998; “Parole & Sogni”, 1999; “Nascinguerra”, 2001; “Visioni”, 2004; “Storia di un gatto profugo”, 2006; “L’impronta del Leone alato”, 2010; “La capra vicina al cielo”, 2015, ed infine “Maria Peschle e il suo giardino di vetro”, 2019, di cui ci occuperemo.

“Un intero popolo, fiero delle proprie memorie e tradizioni, cercava la forza per sopravvivere alle soperchierie della storia, la croce che si trascinava appresso era un fardello di tristi presagi per un avvenire incerto nell’esilio voluto in grembo all’Italia, creduta madre per lingua e tradizioni, ma che all’entrata del porto di Ancona, aveva accolto i suoi figli con una grandinata di insulti e maledizioni.”; “quel tripudio di bandiere rosse con la falce e il martello   che manifestava tutta la rabbia e l’ostilità dell’Italia rossa per la migrazione di un popolo in fuga.”.

Furono accolti così gli esuli che avevano sperato di trovare consolazione e accoglienza dalla loro Patria. Al termine troverete una lettera firmata dallo zio Armando in cui sono descritte le condizioni disperate in cui essi si trovarono a vivere.

Chi osserva queste scene è Maria Peschle, una giovane istriana di diciotto anni, rimasta senza famiglia, che si trova insieme a tanti altri come lei sulla nave “Toscana”.

La sua delusione è una ulteriore profonda ferita: “Quell’incontro ostile e inaspettato con i fratelli italiani è stato più doloroso di un manrovescio in pieno viso.”.

I comunisti italiani non accettarono che qualcuno si fosse rifiutato di sottomettersi al regime di Tito. A quelli che arrivarono con il treno negarono, nelle stazioni che attraversavano, perfino l’acqua per dissetarsi.

Quando da Ancona gli esuli prendono il treno e giungono a Bologna: “certi che la Croce Rossa avrebbe distribuito un pasto caldo (…) l’altoparlante della stazione ha diffuso l’annuncio che il sindacato autonomo dei lavoratori delle Ferrovie dello Stato aveva proclamato lo sciopero in segno di protesta contro il ‘treno dei fascisti’ fermo sul terzo binario.”. Piero Tarticchio compie un dovere civile nel ricordare queste atrocità: “stiamo pagando il debito di guerra sottoscritto a Parigi dal nostro governo per la sconfitta dell’Italia e di tutti gli italiani.”. Sono le tracce di una Italia che, uscita dal fascismo, ancora ne ripete le gesta: “Sporchi fascisti non vi vogliamo, il vostro posto è nelle foibe, tornatevene a casa vostra.”.

Maria sta raccontando la sua storia a suor Maria Benedetta che l’ha accolta nel convento milanese delle suore canossiane del Giambellino per darle rifugio: “mi chiedevo dove fosse finito l’ideale di Patria che i miei genitori mi avevano insegnato ad amare fin da bambina.”.

Non ci sono fronzoli nella scrittura di Tarticchio; essa è nuda e diretta, non ammette incertezze e interpretazioni. Sebbene la protagonista abbia un nome di fantasia, essa è il simbolo di quel tragico esodo. È una storia che grida vergogna per come ci siamo comportati nei confronti di italiani come noi, che avevano scelto, non senza dolore e sacrificio, di vivere in un Paese libero, quale, dopo la guerra, era diventata la loro Patria. Maria Perschle già si configura come la nostra coscienza, ridestata e scossa, la quale fa riaffiorare una colpa affinché sia monito perenne alla nostra ipocrisia. Come potemmo perpetrare un tale abominio?: “Passare tra due ali di folla in delirio, con i pugni alzati in segno di minaccia, è stato come subire la beffa delle forche caudine.”; “Tutti i viveri a noi riservati, sono stati gettati nei cassoni delle immondizie e il latte destinato ai bambini versato sui binari sotto i nostri occhi increduli.”.

Maria racconta alla suora gli avvenimenti accaduti nella sua città di Pola, pochi giorni prima della fine della guerra. Anche lì bombardamenti continui, macerie e morti. I titini già si muovevano a fare pulizia politica e etnica. Tocca alla famiglia di Maria; la sera del 12 aprile 1945 tre individui bussano alla porta, subito dopo che è stata aperta ode una sventagliata di mitraglia: “In meno di pochi secondi, il destino della mia famiglia si era compiuto.”. L’obiettivo era un professore di Padova, Silvano Belci, che era andato a trovare la famiglia di Maria. I titini lo stavano ricercando per ucciderlo poiché era membro del CNL. In quei giorni i partigiani slavi si stavano macchiando di azioni abominevoli: “Il piano dei titoisti di far pervenire segretamente alla Gestapo informazioni relative ai luoghi dove si nascondevano alcuni capi storici dei partigiani italiani, si rivelò diabolico. Gli slavi non si limitarono alle soffiate, ma diffusero il sospetto che le colpe fossero da addebitarsi a faide interne al CLN.”; “Tito e i suoi accoliti instaurarono un regime di terrore che agiva subdolamente sulla comunità di etnia italiana. Anche la religione fu presa di mira e perseguitata.”.

Chi ha letto i libri di Giampaolo Pansa ha modo di constatare la somiglianza tra gli eccidi che si consumavano nel Nord Italia e questi raccontati nel libro di Piero Tarticchio. Stessi metodi, stessa ferocia, stessa perversa matrice ideologica: “I partigiani slavo-comunisti miravano a balcanizzare il territorio che, a memoria d’uomo, era sempre stato latino.”; “In Istria, a guerra ormai finita, sono avvenuti fatti volutamente oscurati dall’imposizione dei più forti e dalla coltre del tempo, avvenimenti che rimarranno impuniti per gli anni avvenire e forse per opportunismo politico, per amnesie o dimenticanze, saranno ignorati per sempre.”. La somiglianza con quanto negli stessi mesi accadeva in Italia è raggelante e dimostra che un disegno ben organizzato era stato concepito dall’ideologia comunista a partire dalla guerra di Spagna. Si era stabilita una strategia della violenza e dell’intimidazione così intensamente perseguita da sconsigliarne, anche dopo anni dagli eccidi avvenuti, una riesumazione e una denuncia. Chi ha tentato di farlo ha subito un tale linciaggio ed un tale isolamento da mettere a rischio la propria vita. Ancora oggi la democrazia italiana paga il pedaggio di quegli anni sanguinari.

Tarticchio documenta puntigliosamente ciò che ha consegnato alla narrazione di Maria, che sempre più figura come emblema di una storia taciuta e falsamente dimenticata. Il lettore, come è accaduto per le rivelazioni presenti nei libri di Pansa, si accorgerà ben presto che tali avvenimenti, per la loro crudeltà, restano ancora scomodi, e ancora si cerca di ostacolarne la conoscenza, senza, peraltro, mai riuscire a smentirli.

La domanda è se sia giusto ottundere la storia, cercare di nasconderla o addirittura soffocarla. La Storia è sempre espressione di ideali che nascono all’interno dell’umanità, ci appartengono, chi ce li nasconde è colpevole. L’uomo è in grado di valutarli da sé e stabilire le colpe e le responsabilità. La Storia, quando è raccontata tutta intera, solo allora diventa maestra, altrimenti è falsa e ipocrita. Il lavoro di Tarticchio è coraggioso, e si sviluppa in un contesto in cui la verità è ancora oltraggiata. Mi viene in mente il libro di Eros Sequi, del 1953, “Eravamo in tanti”. La passione per il comunismo è assoluta in lui, non vi sono tracce delle atrocità compiute dai titini, nonostante l’autore si adoperasse (era insegnante) per mantenere viva l’italianità di quelle popolazioni. Non le conosceva, nessuno gliene aveva parlato? Vorrei credere che sia stato così. La testimonianza di Tarticchio non ha riserve; legato alla sua Istria, con il padre infoibato quando aveva nove anni, quelle atrocità le ha vissute sulla propria pelle. Non le può ignorare, non può passarci sopra. Sarebbe una colpa, un’offesa alla verità.

È ricordato anche l’assassinio, nel 1943, di Norma Cossetto, una studentessa universitaria di 23 anni, “rapita da diciassette partigiani titini e violentata dal branco per tutta la notte.”, e poi “torturata prima di gettarla nuda e sanguinante nella foiba di Villa Surani.”. È il crimine rievocato nel film “Red Land”, uscito nel 2018 per la regia di Maximiliano Hernando Bruno, film che è stato oggetto di ostracismo per le verità narrate. Il vizio di nascondere, come vedete, è duro a morire. Quando la verità non ci piace la si contrasta con ogni tipo di azione, dalla menzogna al nascondimento, ad una politica di ostacolo, alla ipocrisia.

Maria ricorda quanto sia stato difficile e pericoloso il suo cammino verso il confine italiano e l’autore annota: “I tormenti dello spirito non durano in eterno, ma possono diventare insopportabili e condurre alla follia per coloro che li trattengono a lungo dentro di sé.”.

Il 14 marzo 1947 lascia il convento per immergersi nella nuova vita. Intorno a sé vede ancora intatte le conseguenze della guerra; va aventi “come un automa dallo sguardo assente”: “Ogni casa diroccata mostrava lo spettacolo deprimente della propria tragedia. Le macerie che avevano ingombrato le strade erano state rimosse ma, all’interno degli edifici bombardati, cumuli di detriti sembravano piangere la loro sorte. I muri perimetrali rimasti in piedi erano spettri, muti testimoni di un’immane sciagura.”.

L’Autore ha una calligrafia limpida, scorrevole; anche quando non indugia sugli avvenimenti storici e adopera la fantasia per animare la sua storia, lo fa da narratore sicuro dei suoi strumenti, educati alla chiarezza e alla semplicità. Tutto vi si svolge in modo lineare, e il lettore non fatica a trovare dentro di sé le immagini di quell’inquieto percorso del dopoguerra. Si vedano le belle descrizioni; una delle prime riguarda il castello di Cerroalto del barone Gabrio Ascanio degli Almieri, appartenuto alla sua famiglia da ben il 1160. Ne diamo un piccolo stralcio: “Assai simile a una fortezza, il maschio si ergeva austero sopra un costone roccioso che, con un salto di ottanta metri, scendeva perpendicolarmente nei fitti boschi di querce del fondovalle. Gli facevano da sfondo gli Appennini con le verdeggianti selve di faggi e conifere, querce e castagni. Il borgo trasmetteva emozioni antiche che richiamavano alla mente il periodo medievale. Nelle loro forme severe spiccavano i torrioni merlati alla guelfa, i camminamenti, le segrete, le cisterne e i ponti levatoi. Le linee strutturali del castello garantivano solidità e sicurezza.”.

Maria è un esule che porta dentro di sé l’amore per la sua terra, ne continua a sentire i profumi, sa che le saranno di compagnia e, proprio per questo, non saneranno mai le sue ferite: “noi profughi istriani, fiumani e dalmati siamo gente per bene, gente semplice, onesta, educata alle buone maniere. Non siamo ladri, malfattori o criminali come qualche giornale ci ha definiti. Abbiamo perduto tutto quanto avevamo per inseguire un sogno… una chimera chiamata libertà.”.

La suora l’ha aiutata  a trovare lavoro presso Rodolfo Confalonieri, che l’assume a servizio in casa sua, un avvocato, nato nel 1906, che “per la sua serietà e dirittura morale, alcuni amici avevano tentato di convincerlo a entrare nel mondo della politica a soli trentatré anni, ma lui aveva rifiutato asserendo di non essere abbastanza abile a raccontare frottole alla gente. Soprattutto sosteneva di non essere ancora disposto a portare il proprio cervello all’ammasso.”.

Seguiremo, dunque, la vita di Maria, esule istriana, e le problematiche insorgenti dal suo inserimento in una società tutta diversa dalla precedente, sapendo già che la sua storia sarà anche quella di molte sue compagne, e perciò storicamente significativa.

Si sospetta che Maria abbia la TBC, una malattia tipica di chi ha patito le sofferenze di guerra; i nostri prigionieri sopravvissuti ai lager nazisti, tornarono in Italia afflitti, per la maggior parte, da questa insidiosa malattia, e prima di rientrare presso le loro famiglie dovettero sostare in vari ospedali del Nord Italia, tra cui, in modo speciale, quello di Merano. L’avvocato, sempre premuroso con lei che considera come una figlia, la invia presso un amico, il barone Gabrio Ascanio degli Almieri, che la ospiterà nel suo castello di Cerroalto, dove il clima è più sano e, con la costante assistenza di un medico, potrà guarire. Scende alla stazione di Reggio Emilia, dove l’attende Osvaldo, l’autista del barone, mandato a prenderla. Alla stazione c’è tanta nebbia: “Da una carrozza di terza classe scese una giovane donna con in mano una valigia di cartone pressato tenuta insieme con lo spago.”; “La giovane aveva il volto pallido, parzialmente nascosto da una sciarpa di lana che le fasciava il collo, ma sufficientemente lunga da coprirle anche il capo.”.   Queste due citazioni, insieme alle altre che già si sono fatte, danno l’idea della felice scrittura compositiva di questo autore, il quale riesce in pochi semplici tratti a disegnare immagini e atmosfere. Non ho timore a dire che è una scrittura che mi ricorda quella del grande Charles Dickens. Oltre alla semplicità e alla felicità descrittiva possiede anche quella della fascinazione, mettendo il lettore in una situazione di speciale attenzione e curiosità. Quando è, sull’auto guidata da Osvaldo, in prossimità del castello, il panorama la incanta: “Pigramente adagiato sopra un costone roccioso, Maria notò un paese da cartolina illustrata, in parte contornato da mura possenti e da case addossate le une alle altre edificate sull’orlo dell’abisso. Come nei sogni, l’antico borgo pareva una bella addormentata sulla cui fronte, a farle da corona, si ergeva un castello da fiaba.   (…) Il suo giardino di vetro, a lungo fantasticato nel suo immaginario, era proprio lì sotto i suoi occhi e ora finalmente poteva toccarlo con mano.”.

È avvertibile l’intento dell’autore di compensare, con le sue virtù descrittive e l’amore per il suo personaggio sofferente, l’esule che è stata ferita nel fisico e nello spirito e che sta tentando di ritrovare la serenità perduta. Se ne è fatto compagno e guida. La sensazione di dolcezza che emana dalle pagine è tenera e sussurrata, intima. La si percepisce solo attraverso il candore più prezioso dei nostri sentimenti. I dialoghi sono espliciti e adeguati ai personaggi che si confrontano. Questa prima parte è senza dubbio la migliore del romanzo, la più ricca di virtù narrative.

A Maria sembra di vivere una favola. Sono lontani i tempi di guerra; il suo ricordo sta sfumando, vinto dalla bellezza che le sta attorno. Scende nel salone, un po’ buio, dove il barone – ancora non si conoscono – l’attende per la cena. Ciò che vede è ciò che ha soltanto visto nei suoi sogni: “Mentre avanzava, la giovane ebbe tutto il tempo di guardarsi intorno. Vide un salone enorme che l’oscurità rendeva ancora più grande; intravide dipinti antichi alle pareti, alcuni ritraevano personaggi in costume, forse gli antenati del barone; notò due rastrelliere simmetriche contenenti armi medievali da taglio, alabarde incrociate e armature da torneo. Completavano l’arredo grandi arazzi, trofei di caccia grossa e una pelle di tigre stesa sul pavimento con la testa impagliata e gli occhi di vetro. Al centro della sala notò un grande tavolo di legno massiccio, al di là del quale s’intravedeva un camino acceso di stile rinascimentale. Tra il bagliore delle braci, si consumavano crepitando i resti di un grosso ciocco di rovere. Dalle pieghe annerite dalla combustione uscivano timide fiammelle e qualche scintilla saliva vorticosamente nella cappa del camino, come inghiottita dalla bocca di un enorme orco nero. Poco discosti dal camino, due enormi mastini napoletani, con collari di cuoio e borchie d’acciaio, se ne stavano mollemente sdraiati, con gli occhi chiusi, come se dormissero.”. Come si può vedere l’atmosfera medievale è resa con la facilità e l’esattezza di un Walter Scott. Se non fosse che si sta parlando della storia di un’esule istriana, potremmo credere di trovarci immersi in uno dei romanzi del grande scrittore scozzese. I dialoghi tra Maria e il barone sono improntati alle perfette regole della cavalleria. Sono momenti in cui anche il lettore trova una pausa dal delirio e dalle atrocità della guerra. Anche a lui (oltre che a Maria) l’autore concede un momentaneo ristoro dalla sofferenza. La ragazza ne è ora lontana e ricorda ampiamente la sua infanzia: “Nel mio giardino di vetro comunicavo con le piante oppure parlavo con le cose inanimate che mi circondavano, dando loro dei nomi. Un giorno incominciai a colloquiare con il muro di cinta dell’orto, sperando che mi rispondesse.”. Spiegherà che il giardino di vetro “È stata la visione immaginifica di un sogno fantastico, una realtà dell’anima, o meglio il mio sogno di bambina, a cui sarebbe bastato un sospiro per farlo svanire.”. Un sogno come un arcobaleno disegnato su di una bolla di sapone: stupendo e fragile.

È un tentativo di liberazione, ciò che Maria va facendo. Togliere l’infezione della guerra dai suoi ricordi: “Non voglio più abbassare la testa. Non voglio più essere triste. Non voglio più aver paura di soffrire, devo trovare la forza per raccogliere i cocci del mio cuore, incollarli e riprendermi quella felicità a cui tutti i giovani della mia età hanno diritto.”.  Il tentativo dell’autore di donare a Maria un mondo diverso e forse anche di favola, collegando il futuro alla felicità della sua infanzia, è esplicito e dimostra quanto anch’egli abbia ricercato nella propria vita questa unione tra il passato e il futuro e ne conosca le difficoltà: difficoltà di tale asprezza che solo la felicità di una narrazione può consentire di superare. Siamo immersi in un’oasi di pace; il Natale è descritto con tutta la bellezza e l’armonia della tradizione; i canti natalizi davanti al castello e la neve che è caduta quella notte hanno reso l’atmosfera colma di suggestione e di magia. La ragazza sta vivendo davvero un sogno tradotto nella realtà. Il romanzo offre la sensazione che Maria abbia oltrepassato una porta speciale, oltre la quale la cattiveria del mondo è cancellata, è sconosciuta. Vengono in mente le atmosfere di tanti libri di favole in cui si cerca la felicità, in particolare quella narrata ne “L’uccellino azzurro” di Maurice Maeterlinck, del 1908, da cui, nel 1976, George Cukor trasse il film “Il giardino della felicità” con Elizabeth Taylor. Il mondo favolistico, di cui è piena l’opera di questo autore belga, che fu premio Nobel per la letteratura nel 1911, sembra assai vicino a quello che compare in questo romanzo di Tarticchio. La guerra è profondamente lontana. Le vibrazioni che emanano dalla storia hanno ora la coloratura romantica del sogno, e si avvertono con la grazia di una carezza. Si sprigionano sul limitare di un confine indicibile e raro, e ciò è percepibile specialmente nei dialoghi tra il barone e Maria. Ed è proprio il barone ad alimentare e incoraggiare l’illusione di un rapporto effettivo tra realtà e sogno: “Maria Peschle sentì dentro di sé che stava arrivando il momento di aprire il suo cuore a colui che, seppure diverso per status e cultura, le dimostrava umiltà e pazienza nell’ascoltare le sue storie fantastiche.”. Nel corso di uno di questi dialoghi, Maria gli dice: “Prendiamo per esempio i fiori: è incredibile come siano felici i fiori, sprigionano felicità e la regalano senza chiedere nulla in cambio. Le margherite di campo, con la loro semplicità e purezza, donano una sensazione di gioia e di serenità a chi li osserva.”.

Quando il barone conduce Maria nella sua tenuta in Maremma, incontriamo altre belle descrizioni che confermano l’attenzione accurata di questo autore per l’ambiente e il paesaggio. Non poche volte, e in particolare ora che siamo in Maremma, vengono in mente i disegni macchiaioli: “Nella valle circostante, una piccola mandria di buoi dalle lunghe corna si stava spostando al piccolo trotto spinta da tre butteri a cavallo.”. Ma questa abilità è confermata ogni volta: “Il sole stava facendo capolino dalla cima dei monti dell’emiliano, tingendo di rosso l’orizzonte parzialmente coperto da nuvole alte e sfilacciate. Il chiarore dell’aurora stemperava nel cielo l’ultimo baluginio delle stelle e uno spicchio di luna, dai contorni alonati, svaniva a poco a poco nell’azzurro, sempre più intenso, del cielo. L’aria era ancora fresca e pungente.”. Il barone Gabrio Ascanio degli Almieri e Maria, rientrati al castello dalla visita in Maremma, stanno facendo una passeggiata mattutina su di un sentiero di montagna innevato “tracciato dal passaggio di animali” e “si sentiva il rumore degli scarponi che affondavano nella neve.”.

Maria vive un suo Eden tutto speciale, anche con esperienze nuove e inattese: “Legati alla vita con una corda doppia, il barone e Maria salirono per un vallone scosceso fino ad arrivare davanti a un pianoro innevato e inondato di luce.”. Sono diretti ad un eremo, “un capanno in mezzo ai boschi”, abitato da Tosco, “un uomo imponente, un vero gigante alto un metro e novanta. Un personaggio solitario, schivo e riservato, a volte perfino ruvido.”. La natura le è amica e le si manifesta con generosità. Come se stesse pagando un suo debito verso di lei. Maria “era consapevole che stava vivendo un sogno fantastico.”. Questa è la descrizione dell’eremo: “una casupola semplice e rustica, costruita in parte con pietre grossolanamente squadrate e il resto con tronchi di abete. A di là della casetta si vedeva un laghetto di montagna dalle acque verdi, limpide e freschissime.”. E qui sono dentro il capanno con Tosco: “Illuminati dalla luce incerta di una lampada a petrolio, i tre parlarono della natura circostante e della beatitudine di una vita da eremita in quell’angolo di paradiso.”. Si tocca il punto più lontano dalla guerra. La stessa Maria pare cambiata. Ora il suo carattere è divenuto deciso e forte. Può tenere testa a chiunque, non ha più soggezione. Cede solo all’amore: “Ricordo solo vaghi fremiti di piacere che mi travolgevano fino a farmi perdere la testa.”. È successo al ballo di fine anno 1949 tenutosi nel castello del barone, verso cui Maria avverte una attrazione che non aveva mai provato di tale intensità, e si sforza di soffocarla.

L’autore apre le porte anche per questa esule ad un sentimento opposto all’odio che contraddistingue ogni guerra. La ragazza sta vivendo il contrappasso che taglia nettamente e rovescia il suo passato con un presente foriero di speranze. Ma sarà davvero così?

Tarticchio è generoso con la sua protagonista. L’accompagna in questo viaggio di redenzione con la trepidazione e la generosità di un padre. Ogni volta che appare questo sentimento, la scrittura vi si modella con una marchiatura fortemente romantica.

Il lettore si domanda quale effetto possa provocare su Maria un cambiamento così repentino rispetto al suo doloroso passato. Avverte la virulenza che si agita in lei, e che forse il mondo che si era creato all’interno del suo giardino di vetro non corrisponde alla ben più complessa e difficile realtà. Il rapporto con essa dei sentimenti muta, e a volte in modo inatteso, confondendola. Maria non è ancora donna, deve fare molta strada: ha attraversato la guerra ed ora affronta una realtà che non conosce, in cui i sentimenti si affinano e diventano pervasivi. È posta dinanzi al dilemma della sua maternità. È rimasta incinta, ma desidera liberarsi del barone, poiché non vuole sacrificare all’amore la sua indipendenza: “Voglio decidere da sola, voglio essere padrona di me stessa e non abbassare la testa davanti a nessuno, tanto meno assecondare le smanie di chicchessia.”. Bianca (che ha il doppio dei suoi anni, e attende un bambino), la moglie dell’avvocato Confalonieri, presso cui Maria è di nuovo tornata una volta lasciato il castello del barone, l’aiuta e le dà consigli, e ammira la forza della ragazza che può perfino esserle di esempio. È una nuova guerra quella che sta per affrontare l’esule istriana? Il giardino di vetro si è infranto? Ha saputo colorare di speranza e di suggestioni il suo futuro, ed ora si allontana dal suo ricordo? Così parrebbe: “Per la mia dignità non intendo calarmi nella parte della povera ragazza sedotta e abbandonata.”. Sembra che Maria se ne stia rendendo conto, ma subito reagisce affidando il suo futuro al bambino che deve nascere: “Il mio bambino è la visione di un sogno custodito per anni dentro di me e concluso in un paese da fiaba chiamato Cerroalto.”. Bianca le risponde: “Però ti sei servita di lui per realizzarlo.”. Dopo la guerra, riprende da qui il suo cammino per diventare donna: “Che altro ho al mondo, dal momento che il destino mi ha tolto ogni cosa che avevo… (…) Oggi mi sento una persona diversa, il mio animo è più temprato, più forte e consapevole che il resto della mia esistenza la dovrò condividere con l’essere che verrà.”. La maternità, dunque, la farà diventare donna.

La scrittura asseconda il percorso e si riconduce al modello iniziale, in cui le tracce romantiche sono appena percepibili. È la scrittura che preferisco. Basteranno questi esempi a darne la misura assai controllata: il nonno Toni sta morendo e confida a Maria, la sua nipote prediletta: “Nel corso della mia vita sono stato fortunato, il buon Dio mi ha fatto dono di due cose meravigliose: la mia terra e la gioia di vedere nei tuoi occhi la grazia, la bellezza e la determinazione di mia madre della quale porti il nome. Bambina mia, devi giurarmi che sarai per sempre fedele a questa nostra terra benedetta. L’Istria è una grande madre generosa con i suoi figli e dona i suoi frutti a chi la vive e lavora.”. Maria non la pensa proprio allo stesso modo: “La nostra terra è povera, arida, fatta di pietre e di vento. Come una puledra nevrile è bellissima ma difficile da domare. Una minuscola porzione del pianeta sulla quale si sviluppa a grumi una natura meravigliosa e primitiva insieme. Una terra bruciata dal sole d’estate e spazzata dalla bora d’inverno.”. È in occasioni descrittive come queste che l’autore dà il meglio di sé. La parentesi maremmana ha svolto, dunque, una sua funzione di collegamento rivelandosi come un bozzolo in cui ha dovuto annidarsi una gestazione necessaria, quella che ha condotto alla maternità.

Siamo tornati al tema principale del romanzo: le ragioni di un esilio e la sua dimenticanza da parte di chi dovrebbe conservarne la memoria: “Temo che le tribolazioni della mia gente saranno presto dimenticate, ma rimarranno per sempre nella memoria di chi le ha vissute. La propaganda legata alla Resistenza partigiana sta negando le nostre storie e le farà passare come le fantasie di elementi sovversivi, reazionari e fascisti. Ne sono certa.”. Di nuovo è messo al centro del romanzo il tema della denuncia riguardo alle ostilità ideologiche impegnate a negare questa parte scomoda della nostra storia sul fronte orientale. Il romanzo torna a impregnarsi di impegno civile fortemente avvertito e gridato. Dopo l’8 settembre 1943: “In meno di due settimane i partigiani di Tito scesero dai monti, diventarono padroni del territorio e diedero inizio alle vendetti più truci. (…) Circa 800 persone – alcuni dicono di più – scomparvero nelle foibe senza lasciare traccia.”; “Ogni idea politica non allineata con il comunismo di Tito fu perseguita ed eliminata.”. Maria, che sta raccontando all’avvocato Gonfalonieri, gli fa leggere l’articolo apparso su “l’Unità”, il giornale del Partito Comunista Italiano, il 30 novembre 1946, in cui si trova scritto: “Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico calzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva e coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle nostre città e vi sperperano le ricchezze rapinate non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.”. Questa presa di posizione dei comunisti italiani riporta al caso dei migranti di forte attualità, e mostra quanto la politica italiana sia facile ai cambiamenti e, dunque, scarsamente affidabile. La denuncia insita nel racconto di Maria non può che essere anche nostra. Dirà Maria, colma di rabbia: “Mi osservi bene avvocato: secondo “l’Unità” io sarei una brigante nera, una criminale che ha trovato rifugio in Italia per sperperare le ricchezze rapinate al popolo slavo.”. Viene in mente lo stesso errore che il Partito Comunista Italiano commise negli anni Settanta quando apparvero le Brigate Rosse e l’Italia fu percorsa da delitti efferati. Dichiarò che si trattava di compagni che sbagliavano e solo quando fu ucciso un comunista, la medaglia d’oro al valore civile Guido Rossa, compresero che a sbagliare era il partito. Troppi errori gravissimi che hanno pesato sul prestigio e la credibilità della politica, ritenuta ormai inaffidabile e corrotta, ma anche incapace di analisi veritiere sulla società.

L’avvocato pone a Maria una domanda interessante: “Quale differenza passa tra i comunisti di Tito che hai lasciato in Istria e quelli che ti hanno accolto in Italia?”. La risposta della ragazza è perentoria e sferzante: “Quelli italiani vanno in chiesa.” Come darle torto, vista la nostra attualità in cui fanatismo religioso e fanatismo ideologico si stanno saldando e mettono in discussione la laicità dello Stato. A riguardo di Tito si ricorderà nel finale   che fu “coperto di onorificenze dallo Stato italiano.”.

Il romanzo ci narrerà, infine, con un ritmo serrato, il succedersi dei fatti che vedranno crescere i figli di Maria, Oberon, e di Bianca, Lodovico. La vita anche per loro avrà alti e bassi, turbolenze e acquietamenti. Maria Peschle, l’esule istriana, che tanti anni prima, sbarcando ad Ancona, era stata insultata coi suoi compagni di viaggio, da una folla di odiatori, ora è colei che con saggezza e pazienza saprà ricucire gli strappi del destino. Sarà lei, che vide morire i suoi genitori falciati dalla guerra d’odio, che con il suo amore diventerà il perno di ciò che resterà delle due famiglie, la sua e quella dell’avvocato: “Maria Peschle ormai ottuagenaria, col passare del tempo, non diventò mai la nonna bonaria ma continuò ad essere per tutti mamma Maria.”. Quando Maria morirà, il 24 aprile 2012, scopriremo anche che il barone Gabrio Ascanio degli Almieri aveva nutrito in silenzio, nonostante fosse stato respinto, un grande amore per lei: “Durante tutto questo tempo, l’ho amata con la mente e col cuore”. Lodovico lo farà capire a Oberon domandandogli, a proposito del matrimonio celebrato in articulo mortis tra il barone e Maria: “Come definiresti la perseveranza di un uomo che ha aspettato pazientemente oltre cinquant’anni per riparare un torto fatto a nostra madre sposandola?”.

Il romanzo ricorda anche la “più grande strage terroristica italiana”, quella di Vergarolla, avvenuta il 18 agosto 1946 nel porto di Pola, “in cui morirono 110 italiani, soprattutto bambini.”, ancora immersa nel silenzio della Storia.


Letto 1160 volte.


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Bart