LETTERATURA: STORIA: SCRITTORI DI GUERRA LUCCHESI: Nazareno Giusti: “Giovanni Palatucci. Una vita da (ri)scoprire”27 Marzo 2019 di Bartolomeo Di Monaco Giornalista e disegnatore, Nazareno Giusti ha voluto cimentarsi con una figura storica che è stata oggetto di una accesa discussione circa la sua vera funzione nella sciagurata tragedia della Seconda guerra mondiale. Dichiarato “Giusto tra le Nazioni” per aver salvato la vita a più di cinquemila ebrei, c’è chi lo ha accusato di essere un fanatico collaboratore dei nazisti. Due punti di vista tanto mai contrapposti da consegnare al libro un interesse straordinario, visto anche che nel 1995 la Repubblica italiana gli ha concesso la Medaglia d’Oro al Merito Civile e la Chiesa cattolica lo ha definito Servo di Dio. Lucca gli ha dedicato un grande parcheggio che si trova davanti ad una delle antiche porte della città, Porta San Donato. Tutto nasce dalle accuse che, partite da New York, sono rimbalzate sui più importanti quotidiani del mondo: “Nuove prove dimostrano che lo ‘Schindler d’Italia’, onorato per aver salvato cinquemila ebrei durante la Seconda guerra mondiale potrebbe essere stato un collaborazionista che inviò le famiglie ad Auschwitz.”. L’autore non crede a questa versione, tuttavia lascia aperta la questione fornendo agli storici una serie di testimonianze che li aiutino a trovare la verità: “a noi non interessa rimanere simpatici a l’uno o l’altro schieramento pro e contro Palatucci, ci interessa invece raccontare i fatti documentati, testimoniati.”. Intanto chi era Giovanni Palatucci? Un poliziotto irpino che faceva servizio a Fiume, come vice-commissario. Qui si sarebbero svolti i fatti. Già in principio erano apparsi i primi contradditori, ma la polemica si accese a forti tinte nel 2013, quando la corrispondente italo-americana da New York del Corriere della Sera, Alessandra Farkas, scrive un articolo pubblicato il 23 maggio, in cui rivela che Palatucci è stato messo sotto accusa per la sua vicinanza, come collaboratore, al nazismo: “il mito di Palatucci non sarebbe altro che una truffa clamorosa orchestrata da amici e parenti del presunto eroe che si dice abbia salvato oltre cinquemila ebrei in una regione dove non ve n’erano neanche la metà.”. La giornalista riprende quanto era emerso tempo prima da un incontro sulla figura del poliziotto irpino organizzato dal Centro ‘Primo Levi’, tenutosi a New York. Dalle relazioni svoltesi in quell’occasione risultava che Palatucci era stato un collaboratore dei nazisti e si era prodigato per la deportazione degli ebrei a Auschwitz. E da quel momento erano stati rimossi alcuni riconoscimenti concessi al poliziotto italiano, salvo conservargli “il rispetto in quanto prigioniero del campo di concentramento di Dachau, dove morì nel febbraio 1945.”. L’autore è intenzionato a controbattere tutte le accuse e lo fa puntigliosamente. Intanto riportando la testimonianza del dottor Carmelo Scarpa della Questura di Milano che in una lettera del 28 agosto 1946 scrive di due ebrei messi in salvo da padre Enrico Zucca nell’inverno del 1944 su richiesta di Palatucci: “Questi ultimi, braccati dalle Autorità tedesche, mi erano stati indirizzati dal mio carissimo amico, il dottor Palatucci, commissario in quel tempo della Questura di Fiume, internato successivamente in un campo di concentramento in Germania perché ritenuto elemento infido.”. La figlia di Scarpa così ricorda la sua azione in favore dei perseguitati ebrei: “Riuscì a salvarli per quanto ne so io attraverso la collaborazione che trovò nelle parrocchie e nei conventi. Anche la collaborazione di alcuni colleghi o subalterni coraggiosi talvolta rese possibile la fuga.”. Il figlio di un subalterno di Palatucci, Raffaele Avallone, ricorda: “Successivamente abbiamo capito, io e mia madre, che mio padre e Palatucci facevano queste improvvise uscite nel cuore della notte per cercare di aiutare gli ebrei.”. Anche lo zio di Giovanni, Giuseppe Maria Palatucci, vescovo di Campagna, “un paesone in provincia di Salerno”, dove era stato istituito un campo per internati, ritenuti pericolosi dal regime, si adopera in aiuto degli ebrei e tiene una fitta corrispondenza con il nipote, cercando di esaudirne le richieste di aiuto. Dirà ad una radio israeliana: “so che egli evitò la cattura di molti israeliti, o facendo in modo che l’ordine non arrivasse o personalmente estradando gli israeliti verso l’Italia, tanto è vero che molti da Fiume passavano a Campagna, sicché dalle mani sue venivano poi alle mie.”. L’autore riporta varie testimonianze che confermano l’operato di Palatucci in favore di loro familiari. Ne scegliamo alcune, dalle quali scaturisce la figura di un uomo buono e generoso, altruista, che non ambiva ad alcun riconoscimento o ricompensa per il suo lavoro. Ogni volta che qualche articolo getta ombre su di lui, sempre qualcuno interviene a sua difesa. Goty Bauer, deportata a Auschwitz, ricorda: “il dottor Giovanni Palatucci contribuì, con le sue coraggiose azioni, a salvare centinaia di ebrei fiumani da sicura morte.”; Elizabet Quitt Ferber: “Come noi, ha aiutato una moltitudine di persone e per questo doveva pagare con la sua vita e morire da martire.”; Elsa Herkovitis-Blasich: “ha dato tutto il possibile aiuto agli ebrei fiumani ed in seguito anche a quelli jugoslavi riusciti a riparare in Italia, sfuggendo alla morte.”; Rozsi Neuman: “Credo che questa mia breve narrazione possa far conoscere la tempra di quest’uomo, che in tempi tanto difficili si compiaceva di rischiare la sua vita per salvare quella degli altri.”; Antonio Luksich Jamini, “membro di ‘Giustizia e Libertà’, arrestato a Fiume prima dai fascisti e poi dai titini”, nel 1955 scrive: “Il Comitato di Liberazione Nazionale fiumano esortò il dottor Palatucci a restare al suo posto onde ‘il canale’ continuasse a funzionare per gli ebrei. Così il dottor Giovanni Palatucci divenne il ‘dottor Danieli’, del movimento di liberazione nazionale.”. Teo Ducci, “superstite di Auschwitz e Mauthausen” conferma: “quando Fiume cadde praticamente nelle mani dei nazisti, si unì alla Resistenza. Nella sua posizione ha fornito passaporti e altri documenti falsi a innumerevoli antifascisti, partigiani ed ebrei che dovevano far perdere le loro tracce o fuggire. E non solo. Con l’aiuto di uno zio, un vescovo, nascose – e quindi salvò – intere famiglie nelle case di contadini o in monasteri. Alla fine venne arrestato dai servizi di sicurezza tedeschi mentre cercava di far pervenire agli alleati un piano per la liberazione di Fiume.”. Ce n’è già quanto basta per respingere i tentativi di infangarne la memoria, per non si sa quali reconditi fini. Il lavoro minuzioso dell’autore non si ferma qui, tuttavia. Paolo Santarcangeli, “avvocato e poeta ebreo”, che fu amico di Palatucci, così ce ne dà un ritratto, anche fisico, nel suo “Cattività babilonese”: “Non aveva la vocazione dell’eroe: ma era un uomo pietoso. Furono i tempi a farne un eroe. Era piuttosto minuto, curato nella persona, d’un colorito pallido, esile, salute cagionevole. Amava la vita, gli scherzi, le nostre ragazze: in quel tempo era innamorato di una giovane, per combinazione ebrea. Era patriota, ma le intemperanze dei fascisti gli davano fastidio e considerava come un’onta personale il razzismo in crescente espansione.”. Una analoga testimonianza è resa dal commissario Carmelo Scarpa. Come Palatucci arrivò a Fiume? A causa delle sue critiche alla troppa burocrazia che ostacolava il lavoro della polizia. Una sua intervista del 26 luglio 1937 rilasciata al “Corriere mercantile” di Genova, ne segnò il destino. L’intervista conteneva aspri giudizi, coraggiosi per quei tempi. Segnaliamo questo: “Se invece di tenerci chiusi negli uffici, ci mandassero a contatto con la vita, ci facessero vedere il mondo com’è! Si conceda della fiducia al funzionario e se di qualcuno si diffida, lo si allontani, ma non si sprechino tante energie a far la polizia alla polizia!”. Il trasferimento da Genova a Fiume fu ordinato dal vice prefetto Carlo Schiavi, “capo del personale”. L’autore vi intravvede la mano della “Divina Provvidenza”. Ci riporta anche queste parole di Palatucci: “Io resto saldo nelle mie posizioni per la Chiesa, per l’Umanità, per la Patria, perché questo è il mio dovere che mi impone la coscienza e la storia nel servizio del mio popolo, il più derelitto di tutti i popoli di questo mondo. Di fronte alla sofferenza della gente e della mia nazione, la mia stessa sorte non ha nessuna importanza.”. Da un giornalista di “Avvenire”, Angelo Picariello, intervistato dall’autore, si apprende che “Palatucci era scapolo”. Il numero di cinquemila ebrei aiutati a fuggire dal vice commissario viene da un ex finanziere, Giuseppe Veneroso, che fu un suo instancabile collaboratore, il quale fa presente che gli ebrei aiutati non erano solo quelli di Fiume, ma provenivano “dall’Austria, dalla Romania, dall’Ungheria.”. Di questi passaggi tenevano il conto poiché dovevano rifornire i fuggiaschi, non solo ebrei, di falsi documenti e lasciapassare per l’espatrio. Un altro testimone, Alberino Palumbo, giovane poliziotto mandato più volte in missione da Palatucci, ebbe l’impressione che questi avesse “precise informazioni sui movimenti dei servizi di vigilanza tedeschi in base ai quali pianificava tutto.”. Tra le testimonianze anche quella di Rocco Buttiglione, noto politico del recente passato, il quale racconta che suo padre, questore e poi vicecapo della Polizia, nutriva “molta ammirazione per Palatucci, anche se lo conosceva solo di fama.”. Un altro giornalista, Rolando Balugani, ebbe l’incarico dalla Chiesa, avendone avviato il percorso di beatificazione, di verificare se certe accuse fatte soprattutto dagli jugoslavi circa la fede fascista di Palatucci, fossero vere. Così precisa: “Vi aderì per il solo scopo di completare la sua opera. Solo così poteva continuare ad aiutare gli ebrei.”; “collaborò alla Resistenza italiana con collegamenti con l’Inghilterra e con quella jugoslava.”. L’autore si mostra un infaticabile ricercatore di informazioni che facciano chiarezza sul personaggio Palatucci e a poco a poco rintraccia ed intervista tutti coloro che se ne sono interessati, e che possano riferirgli testimonianze e documenti rintracciati nel corso delle loro ricerche. È un lavoro condotto con la generosità di chi voglia restituire ad un uomo violato da una specie di superficialità conoscitiva, l’intera pregnanza e il profondo significato della sua opera rischiosa e altruista. Significativa l’intervista allo storico dell’Olocausto Roberto Malini che, in principio allineato con i critici di Palatucci, ha dovuto riconoscere le manchevolezze contenute nei loro resoconti e, al contrario, le numerose e solide testimonianze a favore del vicecommissario. È sicuramente l’intervista più interessante, poiché, richiamando una lettera di Wolf Murmelstein in cui si ricorda l’attività parallela e più nota di Oskar Schindler, il quale si sforzava “in ogni modo di essere ben accetto ai nazisti” onde allontanarne ogni tipo di sospetto, fa notare come fosse indispensabile che Palatucci non incrinasse i suoi rapporti con il regime nazifascista, potendo solo così avere successo nella sua azione in favore degli esuli. In realtà, come sappiamo, Palatucci fu più sfortunato di Schindler, e finì rinchiuso nel campo di concentramento di Dachau a causa di una spiata, si dice fatta dalla moglie di uno dei suoi colleghi, dove morirà il 10 febbraio 1945, “qualche settimana prima della Liberazione. Aveva 36 anni. Era rimasto nel campo 112 giorni.”; “il suo povero corpo venne gettato in un’enorme fossa comune sulla collina di Leitenberg, assieme a oltre 31.950 morti.” . A Dachau finì anche un altro personaggio a cui l’autore dedica un doveroso ricordo, essendo stato dimenticato, il funzionario di Polizia Feliciano Ricciardelli, che operava a Trieste come “Capo dell’ufficio Politico” e collaborò continuamente con Palatucci nell’aiutare i perseguitati: “Entrambi originari della stessa terra, entrambi funzionari di Polizia, entrambi sbattuti nell’estremo lembo orientale dell’Italia l’amicizia e la simpatia tra Palatucci e Ricciardelli fu naturale.”. Ricciardelli riuscì a sopravvivere a Dachau e “quando morì, nell’aprile 1968, una folla immensa partecipò ai suoi funerali.”. Si accenna anche ad un altro Giusto tra le Nazioni, assai più noto di Palatucci, Giorgio Perlasca, rammentando che anche per lui furono sollevati strumentalmente dubbi sulla sua opera in favore degli ebrei. Si cercò di accreditarne il merito all’ambasciatore Angel Sanz Briz “che eseguiva le disposizioni di Franco. Fatto storico che nessuno contesta ma la storia ci dice che a inizio dicembre Sanz Briz andò via dall’Ungheria e rimase Giorgio Perlasca che ne prese il posto. Su questo e sui 45 giorni vi sono decine e decine di testimonianze scritte e filmate e ancora adesso vi sono testimoni viventi.”. Sono le dichiarazioni del figlio, Franco Perlasca. Sull’opera di Perlasca fu realizzato nel 2002 un film, “Perlasca”, per la regia di Alberto Negrin e l’interpretazione di Luca Zingaretti. È un libro scrupoloso, costruito su documenti e testimonianze ineccepibili che confermano non solo il ruolo svolto da Palatucci in favore degli ebrei e degli altri perseguitati, ma ci fa conoscere anche altre figure che si sono adoperate allo stesso scopo, affinché i lettori ricordino che ci sono stati uomini che hanno preferito rischiare la vita piuttosto che restarsene a guardare immobili e in silenzio. Ne indichiamo alcuni: Feliciano Ricciardelli, Giorgio Perlasca, Carlo Angela (padre di Piero Angela e nonno di Alberto Angela), il noto campione di ciclismo Gino Bartali (“Se sei bravo nello sport le medaglie te le attaccano sulle maglie e poi splenderanno in qualche museo. Quelle guadagnate nel fare il bene si attaccano sull’anima e splenderanno altrove.”), don Arrigo Beccari, il medico Giuseppe Moreali, Goffredo Pacifici, Pellegrino Riccardi, Giacomo Bassi, Guido Morganti, Andrea Schivo, Lorenzo Perrone, ricordato da Primo Levi (“Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.”). L’autore precisa che gli “italiani che hanno salvato perseguitati ebrei che sono stati insigniti del titoli di Giusto tra le Nazioni sono per ora 563.”. Incontriamo anche la figura di Pio XII, accusato di silenzio di fronte alla Shoah e di connivenza. L’autore ne approfitta per ricordare l’opera della Chiesa, che attraverso la sua rete di sacerdoti e di contatti con altre organizzazioni umanitarie, riuscì a salvare molti ebrei e molti altri perseguitati, e ci offre, a riprova dell’impegno di Papa Pacelli, quanto scrisse nel febbraio 1944 il “rabbino Maurice Perlzweig, direttore politico del Congresso mondiale ebraico”: “I ripetuti interventi del Santo Padre in favore delle comunità ebraiche in Europa evocano un profondo sentimento di apprezzamento e gratitudine da parte degli ebrei di tutto il mondo.”; “Il 7 aprile 1944 il gran rabbino di Romania, Alessandru Safran, spediva al nunzio apostolico Andrea Cassulo la seguente lettera: ‘Eccellenza, in questi tempi duri i nostri pensieri si volgono più che mai con rispettosa gratitudine a quanto è stato compìto dal Sovrano Pontefice in favore degli Ebrei di Romania e della Transnitria.’”. Il 7 luglio 1944 il “Jewish News” scriveva: “Risulta sempre più chiaro che gli Ebrei sono stati salvati dentro le mura del Vaticano durante l’occupazione tedesca di Roma.”. Seguono altre importanti dichiarazioni, tra cui quella del rabbino capo di Roma Elio Toaff e di Golda Meir, ministro degli Esteri d’Israele, che rendono giustizia all’operato della Chiesa e di Pio XII, eliminando al riguardo ogni minimo dubbio. Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII, nunzio in Turchia, riuscirà a salvare “una nave piena di bambini ebrei tedeschi”. A conclusione, facciamo nostra quella dell’autore del libro, necessario ad avviare un percorso di chiarezza, “senza il paraocchi delle ideologie.”: “Abbiamo ripulito un volto infangato. Non lo abbiamo fatto per aumentare il nostro ego o per altri vari interessi. Lo abbiamo fatto perché lo dovevamo a quel giovane uomo che con le sue azioni ci ha insegnato la strada da percorrere. Quella giusta.”. Letto 913 volte. Nessun commentoNo comments yet. 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