STORIA: I MAESTRI: La rivolta studentesca. I vecchi e i giovani1 Agosto 2013 di Giulio Preti In questi giorni animosi gruppi di giovani studenti fanno il diavolo a quattro: occupano facoltà, redigono ordini del giorno in tumultuose assemblee, avanzano richieste as surde e redigono utopistici progetti di riforma… Ragazzi variopinti, che evidentemente non hanno tutti le stesse idee (se pure di idee si può parlare), né gli stessi interessi, confessati o inconfessati che siano… Come contraddittorie, continuamente variabili, persino volta per volta opposte negli scopi e nei contenuti sono le loro pretese. Dal fondo emerge un furore distruttivo, una rabbiosa decisione di farla finita con la scuola, con la disciplina, con gli esami e con la cultura stessa. Convergono qui posizioni radicali di risentimento piccolo e minimo-borghese con posizioni di rivolta anarchica a tutta quanta la struttura della so cietà industriale avanzata. Molti sono matricole: e prima ancora di iniziare la vita universitaria essi sentono l’Università ostile ed estranea. Colpa dell’Università? Forse; ma intendiamoci: da che mon do è mondo i ragazzi non sono mai andati troppo d’accordo né con la scuola né con qualsiasi forma di inquadramento e disciplina sociale. Si dirà che tutta la scuola italiana, e l’Università in particolare, è un’istituzione malata. E’ vero: e nessuno lo sa meglio di chi ci vive dentro. Ma è malata perché « tutta » la società è malata â— perché tutte le istitu zioni sono oramai nella medesima situazione di squilibrio tra gli scopi per i quali erano state create e le funzioni (peraltro estremamente incerte e ancora indeterminate) cui oggi dovrebbero adempiere. Ma per stabilire queste nuove funzioni bisognerebbe determinare la direzione ver so cui si indirizza lo svolgimento della società attuale. E fino a che questa direzione non risulterà chiarita (e non solo la nostra, qui in Italia, ma in tutti i Paesi affini e collegati) ogni riforma sarà avventata, rischiando di diven tare, come dice un vecchio proverbio veneto, un rammen do peggiore del buco (« xè pezo el tacòn del buso »). Pessi mo il progetto di legge che si sta discutendo in Parlamento; semplicemente folli le caotiche proposte studentesche. Ma comunque ciò che colpisce è il « modo » di queste agitazioni. Forse sono state scatenate da politici per i soliti interessi politici: ma pare che oramai anche questi siano stati travolti. C’è un’ostinata volontà di ribellarsi, di det tare leggi ai maggiori, di prevaricare sugli stessi compa gni di scuola e sui loro stessi rappresentanti elettivi; la gioia infantile (e chi da studente non l’ha provata?) di in giuriare i rettori e sfidare i carabinieri. Il fenomeno richia ma troppo, peraltro, molti altri fenomeni di anarchia gio vanile scatenatasi in questi anni: teddy boys, provos, hip pies… Vaste zone del mondo giovanile si scatenano, ribelli alla disciplina e all’autorità sociale. Però i giovani, lo ripeto, sono sempre stati disadatti non solo alla scuola, ma alla società come tale: la società è costituita dagli adulti per gli adulti, non per loro. Ma sono sempre stati tenuti a freno dagli adulti: dall’autorità, dalla severità, dalla forza degli adulti. Ora, quello che più mi dà da pensare non è l’anarchia dei giovani, bensì la pavida impotenza, la vigliaccheria male mascherata da in consistenti ideologie, dei « matusa ». Nel caso di disordini universitari come in tutti gli altri casi. La polizia, che pure in altre occasioni ha il manganello così facile, qui esita ad intervenire. 1 professori, i rettori, i genitori non vogliono che intervenga; ma essi stessi non sanno, e non vogliono, prendere provvedimenti energici. Anche nel caso dell’Uni versità, come negli altri, i « matusa » lasciano che i ragazzi si scatenino: ed è proprio questa la « causa vera » (come si dice in filosofia) per cui questi si scatenano. Ma perché, mi domando? E se si va al di sotto delle mo tivazioni psicologiche contingenti (preoccupazioni politi che, timore d’impopolarità, e simili), la ragione profonda mi sembra essere una sola. Ed è che nel profondo i vecchi temono che siano proprio i giovani ad avere ragione. Di un vecchio mondo di valori (tra i quali la cultura accade mica, con i suoi limiti, la sua pedanteria, ma anche la sua solidità) restano in piedi solo le bucce, le forme, le istitu zioni, qualche slogan: ma i contenuti sono in crisi â— in cri si la patria, in crisi le chiese, in crisi l’esercito, in crisi la scuola… Si sa, i « matusa » sono attaccati alle forme entro le quali sono cresciuti, dei cui valori, almeno negli anni di formazione, si sono nutriti: ma le « sentono » vuote, anche se non hanno il coraggio non solo di dirlo, ma neppure di pensarlo. Perciò, anche se soffrono di fronte al vandalismo delle torme di giovinastri che spaccano tutto senza senso e senza scopo, non osano dare loro torto; l’olio che c’è dentro a quegli orci che i ragazzi spaccano e oramai ina cidito. Questi sono solo episodi della grande ondata di irrazio nalismo che da decenni invade la cultura occidentale. Non è, con buona pace dei sociologi culturali, una crisi della ragione. La ragione non va in crisi: ma ciò perché essa non crea contenuti, bensì è solo forma, principio di sintesi, cioè di armonia, ordine, coerenza. Finché i contenuti si reg gono, vigono, il loro sistema culturale, razionalmente asse stato, appare la norma valida per ogni essere ragionevole. Ma quando i contenuti vanno in crisi la forma razionale del loro insieme non vale a salvarli, bensì diventa soltanto una forza di conservazione reazionaria e mistificatoria. E allora non la ragione, ma la ragionevolezza va in crisi: e si preferisce ciò che, per ora, appare come assurdo.
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