LETTERATURA: Un puma6 Novembre 2007 [Gli ultimi libri di Vincenzo Pardini: “Lettera a Dio”, Pequod, 2004; “Tra uomini e lupi”, Pequod, 2005, vincitore del Premio Viareggio-Inverno 2005] Le stagioni hanno rinnegato le antiche consuetudini. Il loro equilibrio si è rotto, spezzato come gli arti di un gigante che non riesce più a percorrere monti, valli e pianure. Prigioniero della sua disgrazia. Pioggia, vento o neve, può così accadere che si riversino su di noi nel momento più inaspettato. Addirittura di primavera. M’ero dimenticato del balzo della bestia in mezzo al vento quando, giorni dopo, un uomo del paese mi disse d’aver intravisto un grosso felino,  colore rossiccio, nei pressi dei cassonetti dell’immondizia. Ma, in men che non si dica, era schizzato via, la lunga coda inarcata, scomparendo al di là del parapetto. Ricordai, allora, le teste di volpe, gatto e istrice che, durante l’inverno, i miei cani trovavano nelle piane degli oliveti, ancora  insanguinate. Nel periodo della neve, lungo la via che scende nel bosco, avevo veduto delle impronte di forma rotonda più larghe di  un tacco di scarpone di montagna, inoltrarsi nel folto. Pensavo fossero della lince. Erano invece  del grosso felide. Dovetti, quindi, dare credito a ciò che m’aveva detto, d’estate, un amico: d’aver scorto, mentre in macchina risaliva la strada, le zampe posteriori d’un insolito animale dileguarsi nei cespugli. Conversando  con un orologiaio, che sapevo essere anche cacciatore, gli dissi che, dalle mie parti, era stato avvistato un grosso felino. Toltosi il monocolo, e smesso di lavorare tra molle e rubini, narrò:«Due anni fa, una notte di maggio, nei pressi della rotonda delle  Tre strade , mi sono trovato davanti i  fanali della macchina, quello che  americani e  pellerossa chiamano leone di montagna, ossia il puma. Non credevo ai miei occhi. Se ne andava tranquillo lungo il margine della via maestra, finchè non svoltò nel sentiero dei campi e dei prati. Non ne parlai con nessuno. Chi m’avrebbe creduto? » Gli raccontai, allora, della mattina del vento e il resto. Tirato un sospiro di sollievo, aggiunse: «Bene, non sono più il solo ad averlo visto ». Un puma, dunque, si trovava allo stato brado, forse fuggito o  reso libero da qualcuno a  cui piace tenere bestie esotiche. Intanto, nella zona  più a monte, nel bel mezzo del bosco, era stato veduto uno strano individuo. Piccolo, anziano e coi baffi, aveva scaricato dal furgone un certo numero di galline nane. Galline, fu accertato da chi ne catturò qualcuna,  grasse  e in salute. Altre volte aveva scaricato frattaglie e lembi di carne.   «Servono al puma », mi dirà  infine il confidente. E proseguì: «La bestia sta da queste parti. Se vai in giro nelle selve ne respiri l’odore di carogna e piscio di gatto in amore. Comunque non teme le persone. Giorni fa, dopo pranzo, io e altri eravamo al fresco sotto la pergola, quando l’abbiamo visto nell’aia. Uscito dalla macchia è andato a bere nel truogolo. Peserà un quintale. E’ balzato via solo quando il vento ha sbattuto una finestra. C’è chi gli ha teso la trappola, chi  il laccio, ma per adesso nulla. Se  uno di noi aveva  il fucile poteva, però, farlo secco ». Il giorno medesimo, arrivato a casa, mia figlia mi chiamò: alla  televisione c’era  un puma. Giunsi nell’attimo in cui il felide cercava di aggredire Robert Mitchum per impossessarsi d’un coscio  che stava abbrustolendo allo spiedo. Il felino soffiava, abbassava le orecchie come un grosso gatto e, in un baleno, lui e l’eroe s’affrontano corpo a corpo. Ma esplode una fucilata e il puma  crolla a terra. Due loschi individui, attirati quanto lui dal profumo della carne, sono accorsi appena in tempo. Così, almeno, sembra. In realtà la situazione si rivela assai diversa. Con Mitchum c’è Marilyn Monroe. Sarà lei che i due loschi individui vogliono. Il film è infatti La magnifica preda. Un’avventura che, in parte, si svolge  sopra un zattera, lungo il Mississipi. Nel finale, Marilyn canta la canzone Il fiume senza ritorno. La sua voce  penetra nei sensi e nella fantasia al pari della sua immagine. Nelle piane degli oliveti, alle teste dei selvatici e dei gatti, se n’aggiunse qualcuna di cane. Una, assai grossa, aveva gli occhi sbarrati. Ne rimasi turbato. Dolore e  morte di un cane  credo ci riguardino da vicino più di quelli di altri animali.  Poi fu la volta d’una capretta che soleva pascolare intorno a un casolare. Sparita.  Cambiata mi parve, infine, la vita di volpi e  gatti che, di notte, scorgevo  sul margine della strada. Si mostravano guardinghi e diffidenti. Nei paesi di collina e di montagna non esiste più la vita di un tempo quando la gente,  nei giorni feriali, s’incontrava nelle piazze, all’osteria o alla bottega d’alimentari. Quest’ultime  sono chiuse, e più nessuno sosta sui sagrati. Nemmeno gli anziani. Le loro case le hanno visitate i ladri, alla stregua delle chiese, anch’esse  sprangate. Anziani e bambini rimangono, quindi, presso le abitazioni. Soltanto la domenica il paese   si anima. Le vicende del puma continuavano a tenere banco. Una signora, che abita in una casa  a mezza costa, diceva esserle spariti, nel volgere di un paio di mesi, ben sedici cani randagi  da lei ospitati. Le sparizioni erano iniziate di primavera, insieme a  grosse orme lasciate sul terreno appena arato. Saputo che potevano essere  del puma, lo voleva morto. Lo chiedeva ai  cacciatori, in particolare ai cinghialai. Lusingati e sorridenti, tono ambiguo le rispondevano: “Non si può, la caccia è chiusa. Guai sparare un colpo adesso.  Se, tuttavia, capitasse durante una battuta…” Di notte aveva cominciato a giungermi un lamento: una sorta di mugolio strozzato simile a una voce umana. I cani abbaiavano, forsennati. Consultai una vecchia  enciclopedia. Descriveva il puma come un animale di un peso dai 60 ai 110 chili, il corpo lungo, inclusa la coda, fino a un metro e ottanta; altezza dai 60 ai 70 centimetri. Con gli uomini non si mostra aggressivo, anzi è accaduto corresse in loro difesa quando  erano assaliti da orsi o altri grossi predatori. Ed emette lamenti che sembrano umani.  Quella voce, dunque, era la sua. Nel frattempo si occuparono di lui  i giornali, descrivendolo  come animale  feroce e solitario, terrore degli indiani d’America.  Le mamme  si spaventarono. Temevano che, i loro figli, potessero esserne vittime. L’intensità dei nuovi temporali e l’abbandono in cui versano le foreste provocano, sovente, enormi smottamenti. Strade e sentieri può succedere vengano addirittura  cancellati, gli alberi crollano sovrapponendosi. Le  mie selve, che durante l’Ultima guerra furono  anche  ricetto  di sfollati o di uomini che si nascondevano ai rastrellamenti dei nazifascisti, stanno divenendo la giungla d’occidente. Transitarle non è quindi agevole.  Su di un cumolo di terra esposta a nord, umida nonostante la calura, trovai ben  marcate le impronte del felide. Un silenzio insolito gravava attorno. Non un uccello. Nemmeno le petulanti ghiandaie. Col binocolo esplorai la distesa degli alberi soffermandomi sui rami alti e medio alti dove sostano i volatili. D’un tratto, nel  fogliame di un grande castagno, centrai  un involucro fulvo. Una corrente fredda mi percorse la schiena e il resto del corpo. Il colore s’era mosso, aveva preso forma. Era il puma, in piedi su di un ramo. Poi discese dal tronco alla stregua di un enorme gatto. I pensieri mi si accelerarono, assecondando i brividi.  Il castagno non si trovava granché lontano. Non riuscivo, tuttavia, a fuggire. M’attraeva l’idea di vederlo  allo scoperto confidando sulle nozioni dell’enciclopedia: il puma non attacca gli uomini  se non deve difendersi. Ero intanto arrivato nei pressi di casa. Il sole pomeridiano splendeva ancora alto. Verso sera, quando non pensavo più al puma, mi giunse  il suo lamento. Era di nuovo vicino. La Luna, enorme e vermiglia, oscillava sugli alberi che delimitano il promontorio del paese. Macchine passavano dalla strada ma, il loro rumore, giungeva attutito dal silenzio di una notte che, in virtù della Luna piena, pareva di seta e velluto. I lamenti del felino suonavano così più nitidi. Diversi a quelli già uditi: avevano un ritmo costante con variazioni di tono. Cos’è che voleva dire;  soprattutto, a chi si rivolgeva? Poteva, pensai, aver nostalgia della femmina, oppure emettere il lamento alla stregua d’un canto solitario, forse per salutare la notte, il suo  regno. Tra boscaglia e coltivato, non molto lontano, seppi che  si trovava una bestia riversa a terra. Chi l’aveva intravista s’era ben guardato da fare accertamenti. Temeva fosse il puma ferito. Si trattava, invece, di un grosso cane meticcio divorato nelle parti tenere, tra cui il ventre. Avvolto  in un turbine d’insetti, giaceva al margine di un tratturo. Il puma doveva averlo incrociato e aggredito. La sua caccia vicino le abitazioni proseguiva, come io continuavo a cercarlo spingendomi ogni giorno nei boschi.  Una sera, traversando una radura, mi giunsero fischi allarmati di merli e di non so quali altri pennuti, a cui si unì un frenetico canto di cuculo. Una poiana s’innalzò emettendo il suo stridulo richiamo. Pensai che gli uccelli potevano essere in allarme per lei, sennonché  giunse un rumore di propaggini infrante come se investite dal vento.  Scorsi ventre e coda del puma balzare da un albero all’altro, scorrendo sulle ramificazioni con la disinvoltura di un cane  sul terreno. Un conoscente, incontrato per caso al bar, mi chiese se, di notte, tenevo il cane libero. La domanda mi sembrò insolita e gliene chiesi il motivo. Rispose d’aver veduto, nella stradetta d’accesso a casa mia, un molosso enorme di colore fulvo. Tacqui. Chi poteva essere se non il puma? Sapere che continuava a venire nei pressi di casa mi dette tuttavia preoccupazione. Temevo per mia figlia ancora piccola. Pensai volesse aggredirla. Telefonai a un etologo chiedendogli se esisteva questa probabilità . Mi rispose ch’era molto remota. Anche se, da materiale di sua conoscenza, un puma aveva di recente aggredito una signora americana mentre passeggiava al margine di un bosco, ferendola.  Ma era un caso assai isolato: si trattava di una femmina col cucciolo, la quale  doveva aver veduto nella donna un avversario. Il mio caso era  diverso, dal momento che doveva trattarsi di un soggetto probabilmente vissuto in cattività , visto che mostrava dimestichezza con gli umani. Quindi, non lo reputava pericoloso per la gente. Risposta che, tuttavia, non mi soddisfece. Il mio puma, diciamo così, uccideva e sapeva destreggiarsi tra rami di alberi e boscaglie con la spigliatezza e la maestria proprie della sua specie. Assalire una persona, per di più un bambino, gli sarebbe quindi stato facile. Pensiero che, in breve, mi si tramutò in una sorta di incubo. Una mattina molto presto, mentre  in macchina risalivo la strada, in prossimità d’una curva fui costretto a inchiodare: per poco non entrai dentro un branco di cinghiali, adulti e piccoli. Dietro avevano il puma che, schivata la macchina, scomparve nel sottobosco. I  cinghiali erano invece rimasti allo scoperto nella piana di un uliveto; fatto cerchio attorno ai piccoli, gli adulti non  accennavano a muoversi. Finché un  verro irsuto non scattò in avanti. Nell’erba alta vidi il puma balzare e, nello stesso tempo,  ritrarsi insieme a un grido che si spostava. Nei giorni seguenti m’accadeva di ripensare all’attimo in cui m’era apparso davanti la macchina e  avevo veduto i suoi occhi d’un giallo trasparente. Poi m’era rimasto impresso il suo modo di camminare a piccoli balzi. Ne trovai le  impronte vicine una sorgente; dal terreno umido e renoso, si spostavano nel bosco scomparendo tra le piante. Da uno spiazzo argilloso circondato da alberi caduti, giunse il suo odore. Cominciai a esplorare il circondario. D’un tratto ebbi la sensazione d’essere spiato. Nel mezzo di due carpini vidi brillare la sua testa. Seduto mi osservava, le orecchie appena tirate indietro. Eravamo distanti una ventina di metri. Stranamente, non m’incuteva paura. Ci guardavamo. Immobili.  Sprofondai in un silenzio fatto di voli d’api e di mosche. Alcune delle quali ronzavano attorno il suo muso. Mi mossi per andar via. Increspò le fauci come fanno i gatti.  Svoltato che ebbi  dal bosco alla strada, lui emise un lamento. Mi voltai. Uscito allo scoperto camminava lungo i cespugli, zoppicando su una zampa anteriore.  Aveva una spalla lacerata. Inoltratosi nel bosco scomparve. Il messaggio che m’aveva lanciato  era  chiaro. Non potendo cacciare, sarebbe morto di fame. Dovevo  soccorrerlo dandogli della carne. Un amico veterinario mi consigliò di portargli frattaglie  con dentro antibiotici. I cacciatori, che nelle loro perlustrazioni in vista dell’apertura della stagione venatoria avevano ricostruito i  movimenti del felino, decisero di eliminarlo. Uno di loro m’era venuto a dire del suo covo: si trovava poco lontano da casa mia, nelle impenetrabili sterpaglie che si estendevano, quasi a picco, al limitare di un oliveto.  Sogghignando, aggiunse ch’era tutto pronto per tendergli l’agguato: noceva alla caccia e doveva essere eliminato. E mi chiese se, per caso, non l’avessi veduto. La sera medesima, in una corte al centro del paese, presi parte al loro convegno. Erano una decina di individui, di piccola statura, le pance prominenti e i capelli  grigi o bianchi. Appassionati di calcio, trascorrevano i meriggi domenicali con le radioline all’orecchio, oppure al circolo davanti il televisore. Se la squadra del cuore era in difficoltà o subiva un gol, le loro facce  s’incupivano come quando  condannavano il puma. Decisero di attaccarlo al calasole poco prima che uscisse dai roveti. Gli avrebbero sparato a raffica con fucili d’alta precisione, caricati coi proiettili da cinghiale. L’avrebbero fatto all’indomani. Disponevo, quindi, del tempo necessario per ordire un piano in sua difesa. Con questo pensiero mi coricai.  Appena desto, sentii d’essere in sintonia col puma come quando n’avvertivo la presenza. Avevo la mente lucida e l’animo  sereno. Era una bella giornata. Andai alla volta delle sterpaglie. Volevo accertarmi che  ci fosse. M’affidai all’olfatto. Il suo odore era fresco. Mi ritrassi. Cominciavano le ore dell’ansia e dell’attesa. Non mi spostai da casa. Mi bastava il binocolo. I cacciatori sarebbero discesi da un certo sentiero traversando boschi e coltivato. Dovevano agire in incognito. Per la legge erano bracconieri. Venne infine il momento che li vidi incamminarsi. Procedevano in fila indiana, accosto agli alberi sfiorati dal tramonto. Sembravano un drappello d’ombre. Anch’io mi mossi e, assai prima di loro, giunsi sul posto. L’odore del puma era greve: era rimasto lì il giorno intero. Presi dei sassi, li scagliai nella sterpaglia. Subito, udii dei soffi. Parevano gli sfiati di un camion che frena. Seguì un forte scricchiolio di arbusti che si spezzano. Stava andandosene. Dovevo battere la ritirata prima dell’arrivo dei cacciatori. Appena ebbi scollettato, crepitò la raffica della fucileria. Silenzio. Finché il vento della sera non mi recò le loro voci. Certi d’averlo crivellato, se ne compiacevano come quando la  squadra del cuore vinceva la partita.  Invece l’avevano persa.  Ho infatti saputo che lui si trova sull’altro versante della montagna, in una riserva. L’hanno visto cacciare caprioli. Ma, prima o poi, sento che ci rivedremo. Forse sarà lui a tornare. La sua mente selvaggia, proprio perché selvaggia, non può avermi dimenticato. Letto 2033 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||