LETTERATURA: Vincenzo Pardini: “Il racconto della Luna”
10 Marzo 2021
di Bartolomeo Di Monaco
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Trovo annotata, come sempre faccio, in calce al libro, la data in cui lo lessi per la prima volta: Nottingham, 19 agosto 1987, ore 12 (la data e l’ora di fine lettura). In quegli anni portavo i miei figli, insieme con mia moglie (era lei che mi stimolava), in giro per l’Europa. In Gran Bretagna sono stato cinque volte, traendone suggestive immagini e perenni ricordi, soprattutto della Scozia.
Il libro si avvale di una prestigiosa presentazione, quella di Cesare Garboli, il quale scrive: “Pardini non scrive ‘come si respira’, ma come si soffre, si rantola, si stupra, si graffia, si morde: scrive come ci si difende.”. È qui che troviamo quella bella definizione, divenuta famosa, della sua scrittura: “Tratta gli animali meglio di London e di Kipling; li tratta da fratello a fratello, senza paternalismo, senza nessuna ombra di superiorità. Li tratta con parole fatte di terra, impastate di terra, come certi utensili ideati e formati per un oscuro progetto dalla stessa materia di cui sono fatti.”.
Veniamo al romanzo.
La scena della carrozza che sale la montagna per condurre il protagonista davanti ad un viottolo, pare immergerci in un’atmosfera fiabesca. Il contrasto con lo stile asciutto e legnoso ne dà la coloritura e la singolarità.
Ha un cane con sé, Lupo: “È un canone nero, focato di rosso; gran coda, grossa testa, occhi ispessiti dagli anni, i denti gialli, ma ancora acuminati.”.
L’uomo si porta sulle spalle uno zaino, con dentro anche una pistola. Pare un pellegrino che ha una meta da raggiungere. Infatti è mandato lassù, in un minuscolo paese (“saranno sei, sette case”) come guardia; gli è affidata la vigilanza di una zona all’intorno di un villaggio quasi deserto posto oltre i mille metri sul livello del mare. Deve badare ai bracconieri e agli incendi.
La storia è narrata in prima persona: “La salita è sassosa, ora: arrampico come un gatto.”.
Si volta a guardare oltre il precipizio: “Guardo indietro: quant’è fonda la valle!, sembra un precipizio; e io sono venuto da lì, da quei sentieri a ragnatela, da quel labirinto di viuzze che paiono smarrirsi una nell’altra come le vene di un ventre.”.
Siamo già immersi ad una altezza di solitudine, di rarefazione della presenza umana: “… forse, in questo angolo remoto alberga la disperazione di un mondo e io ci sono dentro?”; “Qui, l’aria, sa di radici; e pare l’angolo di un altro mondo: il solito che, bambino, con infantile disperazione, immaginavo pensando al regno delle fate.”; “Però la solitudine, quassù, non ha né principio né fine.”.
Entrato nella casa, in un cassetto trova un quaderno, dove è scritto l’inizio di una lettera indirizzata ad un non precisato “Amore”, lettera non terminata.
Pardini sta costruendo l’ambiente in cui dovremo anche noi muoverci.
In un baule trova abiti di donna.
Uscendo per approvvigionarsi di cibo “qualcosa d’evanescente come il residuo d’un’ombra luminosa a un certo punto, scivola davanti. Scompare.”.
Troverà anche, nella perlustrazione, tracce di sangue.
Il protagonista si osserva sempre intorno, nota ogni minuzia dentro i boschi e fuori, nel paesaggio più vasto: “Dopo l’ultimo dosso, acqua, sgorga da rocce frantumate, porose; e sembra inargenti i sassi quell’acqua; ristagnando in doline, tanto il Sole la fa luccicare, quasi brucia gli occhi.”; “Adesso ho davanti una lunga e verde discesa che ondeggia come un mare; nel fondo l’orlatura, cupa, dura d’una macchia. Ma tanti sono gli sciami dei grilli che pare di sentire il ticchettio di mille e falsati orologi.”.
Ecco nel sogno apparirgli una donna che pare figlia della Luna: “… una donna pallida più della Luna dai capelli lunghi e neri sconvolti dal vento, le labbra tumide, gli occhi che entravano dentro come aghi; l’abito rosso dischiuso su un nudo vivo e delicato inseguita da un nugolo di uomini come nei tumulti di piazza veniva – braccia protese – a me…”.
Nella notte assiste ad una rissa tra malviventi nascosti nella boscaglia, uno viene ucciso: “Mentr’io vorrei che, dalle foreste, dalle montagne, venisse soltanto un richiamo d’amore.”.
Riesce a metterli in fuga, sparando.
I fatti che accadono nel romanzo paiono aleggiare, essere penetrabili e trasparenti. Si ha la sensazione di un mondo apparentemente fragile in cui gli uomini credono di essere protagonisti, mentre sono comparse manovrabili, acchinate, supplici. Lo stesso protagonista si muove in una costante ragnatela di dubbi, di domande a cui non sa dare risposta: “Passando le ore mi sento indolenzito, dolorante. Ma sul tramonto, un barbaglio, viene a trovarmi. Allora m’avvedo che, parte di quel tempo, l’ho trascorso in un vuoto.”.
Per dare conto dell’ambiente in cui muove il protagonista, Pardini ci dà la descrizione del servizio di posta, davvero primitivo: “In fondo al villaggio, vicino alla torba, nella roccia, c’è una buca naturale tappata da una lastra che pare una lapide: la cassetta delle lettere.
Ogni due, tre giorni, un uomo alto e magro sale a cavallo fino a quel portello. Arrivato, scivola dal basto e apre il portello, da quanto posso capire, con una combinazione. Poi fruga dentro la buca come un ladro. Più volte nella buca non c’è nulla e, nulla lui ha da recapitare. Quindi col mulo per la fune, perché in discesa si sta male sui basti, riparte.”.
Un ragazzo un giorno gli porta una busta; l’apre; è il parroco del villaggio che vuole che si rechi da lui: “Lo attendo passato il tramonto.”; “È un frate dal saio marrone, il cilicio alla vita; gli zoccoli; la faccia rettangolare e liscia; la testa calva; gli occhi di brace blu.”.
Gli tiene una lezione sulla solitudine; imparare a conviverci è importante, avvicina a Dio.
Alla domanda di lui su quanti siano gli abitanti di quel villaggio, il monaco risponde che sono più di quanto sembri, poiché si muovono di notte, essendo “assassini, contrabbandieri e bracconieri.”.
Ce n’è abbastanza da sgomentarsi, e un po’ di tremore gli prende, al protagonista. Quando racconta al monaco del morto nella boscaglia, questi non si meraviglia: “Ma si uccidono perfino fra padre e figlio; e, il più, per via della madre e della sorella: le verginità delle fanciulle sono del padre o del fratello, difatti. Per questo scoppiano liti bestiali: talvolta di giorni e giorni con più d’un morto; e della stessa famiglia.”.
Ä– l’uomo selvatico, come la natura intorno. Si è stabilita da secoli, forse da millenni, una osmosi tra i due, che li rende somiglianti, se non addirittura uguali, pervasi dallo stesso spirito selvaggio.
Il monaco conclude con una profezia circa l’apocalisse che si abbatterà sull’umanità per disgregarla.
Gli svela, che sebbene il villaggio abbia poche case, la vita si svolge sotterranea, dentro i tanti cunicoli scavati nei secoli.
I colori della storia si fanno scuri, bui, come la stanza in cui stanno parlando il monaco e il protagonista. Si ha la sensazione che quei gradini che, dietro una porta, conducono nello scantinato, siano il principio di un cammino che conduce ad un inferno teso a svilupparsi come un morbo mortale.
Il protagonista ne pare attratto, come si è attratti dal torbido e dal male. Vi accondiscende e ne è preso: “Non avessi nei timpani, com’echi di fiondate, le parole del frate, stanco quanto sono, piglierei sonno. Invece, steso sul letto, mi sembra di affogare.”.
Gli tiene compagnia, come fosse un’amante, la Luna: “L’erba dei sentieri è bagnata, e la Luna invade un mondo indistinto e caliginoso come un pensiero febbrile. I grilli stridono e imprecano. Vado verso i nevai in viottoli che rasentano greppi, nel fondo dei quali scorrono rigagnoli che, sotto il plenilunio, sono smeraldi sbriciolati.” (si noti la bella e concisa descrizione).
Durante il percorso incontra dei cani che riesce a tenere calmi. Subito dopo: “La luna afferra il volto di una vecchia dai capelli bianchi e legati a ciuffo; il vestito lungo e nero.”.
Sembra muoversi in un mondo stregonesco, in cui il volto umano è stato sostituito da ombre e misteri: “È minuscola, rifinita; e cammina come dovesse cadere. Ma silenziosa come la mia ombra. Lo stesso i-cani. Tra macerie e cespugli.”.
Il romanzo si è fatto impalpabile, come una eco di suggestioni e di attese. Gli dice la vecchia: “Non dare caso al ticchettio: è l’orologio murato in una di queste pareti: ogni voce forestiera lo risveglia. E stanotte stiocca più del solito, perché erano tante Lune che una persona non fermava qui.”.
In un dialetto particolare e comprensibile della Lucchesia, gli narra di un rastrellamento di guerra e di morti, ma, contrariamente al monaco, preconizza un mondo in pace: “Ma la tempesta, io credo, passerà; e un giorno si spegnerà il fuoco e arriverà la primavera; il mondo sarà, poi, un solo popolo e nessun viandante verrà più frainteso dal fratello.”.
Si noti il contrasto di visioni tra il monaco sciaguratamente apocalittico, e questa donna, più somigliante ad una strega scarruffata, la quale scorge in lontananza una sopravvivenza possibile e un mondo migliore: “pare che d’ella sia rimasto soltanto l’abito buttato sullo scranno.”
Sono le anime nascoste e vaganti intorno a noi, che all’improvviso compaiono come per una missione di cui ci lasciano tanto l’interpretazione quanto il compito di calarla nella realtà.
Il protagonista è sempre più conscio di trovarsi a vivere un’esperienza singolare. Dai suoi occhi, che si muovono intorno pungenti e accaniti frugatori, sa che talune risposte non possono che venire dal mistero.
Il percorso di Pardini, per il tramite del protagonista, è un percorso che attraversa non solo il mistero della natura, ma la sua magherìa, il suo fascino, entrambi rinvigoriti dalla presenza della Luna: “Vado avanti a caso tra torbiere e promontori, sorvolando quasi crinali e costoni rocciosi invasi dalla Luna. Tantoché ogni ombra è un fantasma.”.
Preso dai banditi e legati polsi e caviglie, vive un’avventura ferocemente erotica con un giovane della banda, dove l’animalità racchiusa nell’uomo da sempre esplode e s’impone.
Chi sono davvero costoro? Uomini materiali, spiriti dei boschi? La storia scorre come fosse preda del sogno, dell’irreale che vuole mescolarsi al reale. Dice il capo di costoro: “Ascolta, noi sappiamo assai di te: abbiamo interrogato i venti, il volo dell’aquila, l’ululato del lupo. Ma ad averci persuaso che sei chi cerchiamo è stata la Luna.”.
Perché cercano proprio lui?
Il protagonista è penetrato come in un labirinto, dal quale è d’obbligo uscire per sopravvivere.
Egli cerca di darsi una risposta: “Sono annichilito: temo d’essere finito fra gli antichi e sanguinari adoratori di lei, allorché calante è una mannaia che di striscio affetta l’universo.” (che è un’altra delle descrizioni miracolose di Pardini).
Sono degli strani rivoluzionari nomadi, che discendono dai seguaci del Profeta (Cristo) e portatori di un segreto universale da cui dipende la sopravvivenza del pianeta.
Una setta insomma, sopravvissuta a cacce e a persecuzioni: “Abbassatisi baciano i sassi, li accarezzano; li spostano. Mormorano una nenia. Forse d’amore.”.
Viene condotto in uno strano accampamento che, sotto la Luna, pare un luogo di eteree presenze. Compaiono delle donne. Tutto si svolge tra sogno e delirio. Pare di aver attraversato la terra e di essere giunti in un luogo di antiche sacralità.
Il protagonista vi si muove meravigliato, sorpreso, incerto e curioso.
Come se all’improvviso, quella notte, inconsapevolmente, con l’apparire dei quegli uomini strani (“c’è gente silenziosa e dai volti stinti come i loro abiti.”), avesse varcato un confine tra due mondi.
Il romanzo ha questi due sipari, il primo si muove nella realtà conosciuta, il secondo in quella nuova e misteriosa.
Gli affidano una missione: “La tua missione è di portare in salvo una principessa. La nostra principessa. Lei e soltanto lei è la discendente reale di questa mia stirpe, perché nata nel giorno in cui nacque l’ava: duemila anni fa. E anch’ella venne salvata da uno straniero: un viandante come te proprio nel mentre che, come adesso, la vita di tutti noi era ed è e sarà in pericolo per una guerra che ci porterà, può anche darsi, lontani da questi luoghi. Perché, come ti dicevo, tra le tante, è una delle ultime e anonime guerre prima dell’Apocalisse…”. È il capo che gli sta parlando.
La principessa: “Fin sotto i ginocchi indossa, stretta attorno alla vita d’ape regina, una lunga e variopinta veste; calza i sandali e la pelle dei calcagni, al lume della lanterna, è rosa e viva come la carne più intima e dischiusa.”.
S’avviano, sotto il chiarore tenue della Luna: “I passi di lei avvengono misurati e eleganti: di una eleganza disperante.”.
Vi è un’atmosfera di premonizione, di attesa, d’un impulso prepotente che sta per esplodere, pur nell’esitazione dei movimenti.
La realtà si sta misurando col sogno, vi si sta mescolando: “Il tempo passa come un orologio mutilato dalle lancette; ed io taccio e respiro, in questa atemporalità, l’aria che lei smuove.”; “Allora mi pare ancora di sognare. Poi m’avvedo d’essere fin troppo sveglio. Tantoché dico che ciò è strano, perché il reale si mescola e convive sempre di più con un sogno inspiegabile.”.
A giorno fatto, entrano in un castello. Intanto, hanno già amoreggiato, lui attratto dalla sua morbidezza e dal suo astuto agire di femmina.
Ma il protagonista non s’accontenta, vuole di più; è sospinto da una incontenibile pulsazione sessuale; l’afferra, lei gli sfugge, sembra offesa, lui insiste con maggior furia: “Con lo sguardo sul piancito e percorsa da tanti e disordinati fremiti, sta ferma. Poi d’impeto, quasi volesse mordere, mi s’aggrappa, occhi chiusi, alle labbra; e preme, preme che l’ossa cervicali mi scricchiolano come volesse farmi male, far pentire di averla, seminuda, tra le braccia.”; “Da me, invece, pulsante, sgorga e si disperde il furore di vivere; la voglia di morire e di rinascere da quelle sue viscere.”.
Nonostante ciò la principessa resta eterea, quasi immaginaria, sospesa tra sogno e vita. Ora la sua carne è consistente, ora si trasforma in velata immagine: “dall’ombra alla luce parve spogliarsi dagli abiti”.
Il protagonista si domanda dove sia finito e che cosa stiano pensando i suoi superiori che non lo trovano più: “Forse le autorità avranno dato avvio a delle indagini. Forse avranno archiviato ‘Il fatto come un caso di morte presunta’.”.
La morte può essere, appunto, il veicolo insensibile, non avvertito, di questo gioco tra realtà e sogno, di questi passaggi di andata e ritorno, di rimescolamenti.
La morte è presente in tutta l’opera di Pardini; l’alternanza tra realtà e sogno, attraverso il passaggio della morte, quando non manifesta, è sotterranea e intuibile, mai nascosta: “Poi torna il vago e l’indefinito: come quel buio avesse maciullato la consistenza del tempo e della visuale; e i pavimenti scricchiolano quasi le tavole fossero sfiorate dagli artigli d’una pantera.”.
E se la Luna fosse espressione della morte: che scruta, vigila, guida e partecipa?: “La Luna giovane di luce, è spillata nel cielo e, nelle radure, s’aggrappa ai frassini; s’abbassa come stanca volesse schiantare su qualche promontorio.”.
E se della morte fosse espressione anche la ragazza?: “Ma io sono la Luna. E quanto lei e più di lei, come vedi, non ti abbandono…”; “Pertanto anche la mia vita capisco dipende da essa.”.
La ragazza, dopo che hanno oltrepassato un ponte di corde pericolante, gli domanda: “Sai, tu, com’è la morte?”. E lui la guarda: “E lei ha le occhiaie gonfie, il volto martoriato; e, per la prima volta da quando siamo insieme, nei suoi occhi, leggo una storia di muti e di strozzati e di indecifrabili tormenti.”. Quando tornano a fare l’amore, lui pensa: “In me poco a poco, invece la rabbia e la voglia di vivere cedono il posto al desiderio di morire.”.
“Il racconto della Luna” è un viaggio in compagnia della morte?
Il romanzo, come si vede, è ricco di spunti e di suggestioni.
È un romanzo sentito, che scandaglia con ostinazione l’avventura umana, non trascura di analizzare i dettagli che devono avere per l’autore delle risposte. Si avverte a volte la disperazione di non riuscire a capire.
Perfino il tempo si è mescolato tra presente e passato, talché abbiamo uno svolgimento che si snoda in un tempo tutto speciale che è il tempo presente-passato (le frasi fra parentesi contengono annotazioni sempre al passato che fanno riferimento preciso al presente): “Esce fuori (dall’ombra alla luce parve spogliarsi dagli abiti) e, dalle sacche dei basti, piglia del pane e delle uova.”; “Allora (i muli tuffarono il muso in una concavità d’acqua gloglottando come otri secchi) penso che essa percorra veramente un itinerario che ben conosce…”: “Se perfino la Luna che mi cammina sopra è sfiorata (le evocò a sé per nascondersi? o per farmi fare la bocca a uno dei suoi oscuri intrighi?) da nubi gonfie come vele nella tempesta.”; “Tantevvero che, incamminatomi (i muli seguirono rapidi e docili come non mai), proveniente non capisco da dove, mi pare di udire una risata.”; “Poi le tempie che si gonfiano e, alzando fulminea i pugni al cielo (pareva un nobile e angelico dipinto che malediva), spalancate le mani protende le braccia avanti.”.
Si tocca con questa speciale temporalità, l’indefinitezza dell’eterno.
Il lettore si sarà intanto accorto come spesso i paesaggi abbiano un’alternanza che annota una specie di contrasto: quando siamo tra forre e rupi, quando su spiagge deserte, quando nella boscaglia di intenso fogliame, e così via, quale in una pittura ottocentesca. È, dunque, un cammino di fitta, intensa spiritualità, come lo furono i disegni di Gustave Dorè sulla Divina Commedia: “Poi, come fossimo in un altro mondo, alla tormenta subentra un vento denso e tiepido: cosicché abbiamo davanti una spiaggia pulita, immobile come uno stagno. Ma con strane e porose pietraie ammonticchiate qua e là.”.
Vi è uno scambio vitale tra la Luna e il protagonista, come se un cordone ombelicale li unisse e l’uomo stesse vivendo una nuova nascita.
È un percorso accidentato e difficile, questo descritto nel romanzo, tutto da conquistare, proprio come la discesa e risalita di Dante dall’Inferno (“E mi pare che i sentieri che scendo siano dei gironi infernali) al Paradiso, per giungere alla conoscenza, alla compiutezza e alla felicità (“Eppure, una via d’uscita per arrivare a loro deve esserci. Dico, per divenire anche noi una stella…”).
È presente una visionarietà alla William Blake, tale che il percorso può benissimo, nella stessa direzione, fare vie diverse e opposte, come in una spirituale circolarità: “Allora, mai quanto adesso e più di adesso, capisco d’essere solo. Solo come prima di nascere dall’oblio di quel prato da dove sorge la Luna e tramonta e tramonterà, perennemente, il Sole.”; “Naturalmente nell’impari lotta, io soccomberò. Ma pago, infine, di lottare, di morire e di perdere. Soprattutto, pago, di porre fine a questo strazio che mi fa scoppiare di quanto non so. Proprio come in quei sogni senza principio né fine. Nei quali la realtà è una tenaglia che stringe, stringe e stritola, finisce e divora come il torchio d’una pena.”; “E lei, ammaliante e radiosa sovrana, mi stringe a sé.
Mi trattiene, mi lega come fossimo carne della stessa carne, ossa delle stesse ossa, mente della stessa mente.”.
Ci prende perfino la paura.
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