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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Vincenzo Pardini: “La mappa delle asce”

15 Marzo 2021

di Bartolomeo Di Monaco
(Per acquistare il libro, qui)

Contiene undici racconti, riuniti dopo essere stati singolarmente pubblicati su varie riviste letterarie e quotidiani (Nuovi Argomenti; Paragone, Panta, Rassegna Lucchese, Corriere della Sera, Gazzetta di Parma).
I racconti, il più delle volte, hanno l’animale per protagonista, che giganteggia sugli uomini. Pardini ne ricava le ragioni dai fatti che accadono. L’animale sia vincitore sia vittima esprime forza e selvatichezza.

Kirobi è un cane incrociato tra una cagna da pastore e un lupo di monte. Siamo in un immaginario villaggio occupato da soldati nemici, denominati “mantelle blu”. Gli assediati cercano di reagire, comandati da Falerno che si porta con sé Kirobi, noto per la sua ferocia. Ma non conta l’esito della guerra, piuttosto il fatto che Kirobi un giorno in cui comparve, come uscito da sottoterra, un branco di lupi, vi si aggregò e scomparve.

Una gatta soriana è la protagonista del secondo racconto: “Era una soriana di taglia media e forme aggraziate. Ma le comari, vedutala, inarcavano le scope; la prendevano a sassate. Lei, che del borgo doveva essere a conoscenza, svicolava e spariva. Salvo ricomparire poi nel mio orto ove, veloce e guardinga, rampicava sul cipresso, nel cui intrico rimaneva a ore.”.

Il maschio, un gattone nero, che l’ha ingravidata, si mangia i suoi cuccioli. La lotta tra il maschio e la femmina è feroce, ma la soriana riesce a salvare solo un gattino, “un glabro micetto dalle zampine rosse e brancolanti, gli occhietti chiusi come una talpa.”. Si rifugia in casa del protagonista, che le si era affezionato, salvandola dall’ira dei paesani, a cui rubava in casa: “Solamente se affamata o ferita veniva da me.”.

Negli animali si trovano, dunque, affetto e selvatichezza mescolate insieme, col predominio di quest’ultima: “A niente, da parte mia, valsero i tentativi di ridarle abitudini domestiche. Trovava sempre il modo di squagliarsela.”.

Una scelta che causerà la sua morte.

“Per me gli eroi delle tenebre erano i muli e il mulattiere che s’allontanavano sui sentieri delle selve nel gran silenzio, oppure tra le strida del vento e gli scrosci della pioggia dimezzati da lampi, tuoni: quest’ultimi parevano rotolare giù dalle vette ghiacciate.”; “Erano tre splendide bestie, quello più piccolo, rosso; gli altri due neri, mantello lucido lucido.”.

È un racconto, “Il mulattiere” che ci immerge nell’armonioso contatto tra uomo e animale. A seguito di un incidente gli muore un mulo e lui si frattura il femore; durante la convalescenza “Il mulattiere contava le imprese dei suoi muli: ogni giorno ne ricordava una diversa.”.

Ma il suo mestiere è destinato a scomparire, poiché stanno costruendo una strada: “Nei giorni dipoi la ruspa avanzò sbranando la montagna; i suoi fianchi subirono veri e propri smottamenti: blocchi di terra, tra nugoli di polvere, precipitarono a valle stroncando alberi, ribaltando seccatoi. Ma il mulattiere rimaneva a giornate in casa; nel pomeriggio scendeva nella cantina per sedere sui rottami di un basto e gesticolava con le mani venose e adunche; poi muoveva le labbra come discutesse.”.

L’inevitabilità del progresso schianterà la sua vita.

Il condor delle Apuane, nel racconto omonimo, vi compare come un uccello mitico, inviolabile. Il padrone Eníº non s’era accorto di lui, che nella nidiata, ossia, c’era un condor, il quale diviene presenza minacciosa e regale: “Da quel giorno ali grandissime (si parla di 6-7 metri d’apertura), alto e terribile fino a oscurare il sole, in quei cieli – proditorio – vola il Condor delle Apuane.”.

“Il capitano Raffo Ghilanti”, così il titolo di questo racconto, ha come protagonista un uomo, Raffo, cui “mancava una gamba intera: camminava appoggiandosi a una gruccia incastrata tra ascella e costato.”. Era stato ferito in un’azione eroica della Prima guerra mondiale, che gli aveva valso il grado. Ama la montagna che ascendeva anche da ragazzo in cerca dell’aquila. Anche ora, fucile in spalla, e gruccia attaccata all’ascella, s’inerpica e ricorda: “Sciami di grilli, traversando l’erba, gli saltavano attorno, s’arrampicavano sulla gruccia. Raffo procedeva a fatica; e il suo barcollare era un rumore di legno sbattuto dal vento, dall’acqua di fiume.”; “Giorni, le urla dei condannati al plotone di esecuzione, non gli davano requie. Stringeva i pugni conficcandosi le unghie nei palmi.”.

Muore ispirando una leggenda.

Il linchetto è uno dei personaggi più noti nella tradizione popolare lucchese e Pardini non ce lo fa mancare, consegnando così ai concittadini il suo personale ritratto di questo spiritello che ne combina di cotte e di crude: “I primi che ne parlarono furono derisi. Poi anche ad altri accadde di trovare, nella stalla, le vacche con la coda fittamente intrecciata; negli ovili, alle pecore era stata invece annodata.”.

Eccolo il linchetto di Pardini: “Ma qualcuno cominciò a dire d’aver veduto, tra il lume e il lustro della sera, un ometto cicchino cicchino, berrettuccio in chiorba alla marinara, aggirarsi per quelle contrade: l’omino, camminava impettito, guardingo come chi, braccato, non vuole lasciare traccia.”.

Cercano di scoprirlo e di afferrarlo, ma niente da fare.

Percepiscono la sua presenza, ma non lo vedono. Uno si intestardì, non volendo arrendersi: “Era un tipo alto e grosso, la faccia scura e gli occhi quasi bianchi. S’era nel cuore della tenebra. Dalla macchia giungevano fruscii e altri rumori, forse sollevati dal vento dei nevai di quella limpida notte di inizio primavera.”.

Si arrende infine. E siccome la presenza del linchetto disturba un po’ tutti, e soprattutto le donne, si mette alla cerca anche il mugnaio che, fra l’altro è un giocatore alle carte imbattibile: “Tanto, sono avvezzo a venire a capo di tutto. So anche dove il demonio tiene la coda, io.”.

L’uomo, “basso e largo, mustacchi sul faccione rubicondo, imbiancato di farina, faceva fuori e dentro in un daffare di sacchi e balle piene, vuote.”.

Ha due cavalli che gli servono per portare la farina ai clienti. La moglie gli fa notare che uno di essi, quello nero, dimagrisce a vista d’occhio. Il bianco, invece, ingrassa di quanto l’altro dimagrisce. Lo racconta anche in giro.

Il mugnaio s’apposta per snidarlo. Lo vede entrare nella stalla e accudire il bianco, sottraendo biada al nero. Ad un tratto l’omino s’accorge d’essere spiato e scompare: “E da quel giorno, allo spietato giocatore (oltre ad aver dentro un buio e implacabile senso di colpa), non gliene andò una per il verso giusto.

Per un Lucchese, questo racconto è da incorniciare. Apparve sulla “Rassegna Lucchese”, n. 11 (nuova serie) del 1982, ma può servire anche da modello agli scrittori di leggende e di tradizioni popolari, tanto l’atmosfera che l’avvolge è suggestiva.

“La vidi da vicino: penne giallognole, punteggiate di nero sul petto; ali e spalle marroni. Allegra, sempre camminando impettita, emise una risatina. Poi, invisibile, prese a squittire. A miagolare. A fischiare. A stridere. A sibilare. A singhiozzare.”. È la civetta del racconto omonimo, dal “becco lungo e adunco; gli occhi bianchi come l’esanguità, sfilacciata e gelida, del pallore lunare; gli orecchi da topo di bosco; le spallucce quadrate.”.

La vede far strage di passerotti implumi, mentre gli adulti “cheti, svolazzavano a grappoli mescolandosi coi pipistrelli.”.

Dà la sensazione della morte in agguato, che insiste, che tenta di preannunziarsi, di farsi conoscere, mentre la scacciano inconsapevoli.

La pantera nera è il simbolo della città di Lucca. È scolpita su alcune porte delle mura della città. Un tempo, una vera era tenuto in gabbia.

Questa di Pardini è un’altra pantera speciale. Perfino il nome del protagonista, Tinche Saccimini, un lestofante, è speciale.

Non si svolge a Lucca, ma oltre oceano, dove Tinche è emigrato. Fa strage di uomini, bisogna cacciarla e abbatterla. Dànno a Tinche, essendo nota la sua abilità nello sparare e centrare il bersaglio, l’incarico di ucciderla. Finisce che gliela mettono davanti nell’arena e gli danno una lancia per lottare con lei. La colpisce al ventre mentre gli si avventa contro: “La si rivide schiantare e disserrarsi addosso all’uomo; e l’uomo crollava a terra. Sotto il peso e gli artigli di quella nuvola d’ira.”.

Ci siamo fatti l’idea, fin qui, di una violenza che permea la natura e le sue creature, siano uomini o animali. D’una lotta perenne, stimolatrice e arbitra la morte. Se si potessero guardare dall’alto le scene di questi racconti, si avrebbe l’immagine di vari posizionamenti di lotte e uccisioni. Un caleidoscopio di ferocia e di sangue.

Una carovana di zingari è in movimento: “Affiancavano la carovana, sopra cavalli morelli dai morsi spumeggianti e il trotto forzatamente trattenuto, uomini in camicia rossa e calzoni neri con nelle cintole infilate acuminate lame; poi, quegli uomini, portavano cappellacci alla brava e baffi, sulle facce dure bruciate dalle intemperie, più lunghi delle falde del cappellacci.”.

Guadano il Serchio, il fiume dei Lucchesi. Nel frattempo, in un paesino nei pressi, tre avventurieri hanno portato un mulo, Giangaina, per venderlo: “E quel mulo fulvo come un cavallo, la testa scarna e fiera come un cavallo, chissà perché, pareva avere nei garretti e negli zoccoli (da purosangue) gli umori dei canti gitani che, nei momenti perduti della notte, facevano da sottofondo alle melodie degli usignoli, disperatamente soli, per l’invisibile e incombente agguato del gufo reale.”.

Non c’è quiete nella natura; anche quando sembra, qualche ferocia è sempre in agguato.

È un mulo imbizzarrito e va domato. Ci pensa il mulattiere del paese a dire come si deve fare. Non riescono a mettergli il basto sulla groppa: “diventava matto e fracassava, con bordate e salti, l’arnese contro i muri.”. Ci riescono, dopo tante bastonate. Ma, inaspettato, il mulo fa di testa sua e ne combina d’ogni specie, divenendo una leggenda. Difficile venirne a capo, pur caricandolo da smuovere pietà in chi lo vedeva passare.

Trascorre il tempo e Giangaina è diventato il mulo più possente e forte di tutti gli altri. Un inverno rigido, lui sopravvissuto al gelo che aveva abbattuto altri animali, fu impiegato per portare viveri agli abitanti rimasti isolati sui monti. Non mostrava fatica.

Lo vedremo invecchiare in questo racconto, apparso per la prima volta su Paragone, n. 414, dell’agosto 1984, che presagisce quello che sarà uno dei romanzi più importanti di Pardini, dedicato al suo mulo Giovale, del 1993.

Giangaina ha perso un occhio ed ha la testa mezzo fracassata per una punizione subita per aver montato, sfuggito ai vigilanti, la puledra araba di un conte, che l’aveva destinata ad uno stallone, nipote del celebre Ribot.

Parliamo ora di un toro il cui padrone si chiama Armelio.

Cresciuto, “Irrequieto e ribelle minacciava di incornare chiunque gli si fosse avvicinato.”.

Giangaina e il toro si somigliano; stesso carattere, stessa inquietudine, stessa voglia d’indipendenza e di libertà. Gli animali di Pardini diventano simboli e metafore.

“Insieme alle vacche non lo si poteva più tenere. Pur di montarle avrebbe divelto, sgangherato l’impianto della greppia. Tanto che adesso, sebbene solo, veniva legato con catene a doppia mandata. Ma chi s’intendeva di tori convenne che un animale da selezione come quello di Armenio era raro averlo. La vacca per la fune, i contadini cominciarono ad andare da lui.”.

Pardini descriverà da par suo una di queste monte, di cui diamo solo un cenno: “Egli marchiava il terreno con gli unghioni; e i muscoli andavano incordandoglisi come una rete che tira a riva i pesci; i testicoli, enormi e duri come non mai, gli scampanavano tra le cosce.”.

Il toro, piombato in mezzo ad una festa, farà una strage. Sarà ucciso: “Con addosso punte quante possono essere gli aculei d’un istrice si riversò su d’un fianco; e rantolando mordeva, i denti digrignati e lo sguardo vivido, la neve e la terra.

Ma solamente all’alba (la più grifagna che si fosse mai vista), dicono smettesse di respirare.”.

“La mappa delle asce”, apparso sulla rivista Panta, n. 1 del 1990, che dà il titolo alla raccolta, la conclude.

Si parla di Leado e Neda, due coniugi vicini ai novant’anni.

Vivono di ricordi, soprattutto Leado che racconta spesso la storia che lo vide andare a caccia della lupa, una delle ultime rimaste nella zona. Dopo che era tornato dalla prigionia in un campo di concentramento nazista, un giorno vede una lupa con tre cuccioli. Si mette a cacciarla, traversando le rovine lasciate dalla guerra. Trova i cuccioli, stranamente senza madre. Spara e ne uccide due, il terzo riesce a fuggire. Sbuca all’improvviso la madre e sta per avventarsi su di lui, quando uno sparo (non si è mai saputo di chi) la costringe a deviare e nascondersi. Leado non la vede più. Prenderà in prestito da un bulgaro, di nome Karedo, un grosso pastore maremmano, di nome Brinche, addestrato per la caccia ai lupi. Si dice che la lupa, in cerca di vendetta, giri intorno alle case, alla sua in specie: “Sua figlia non riusciva però a prendere sonno. Piagnucolava e diceva che la lupa bussava alla porta.”.

Ci godremo un’altra bella descrizione, quella della lotta tra Brinche e la lupa: “Brinche non si reggeva sulle zampe posteriori e la lupa, afferratolo a piena bocca per la gola, lo rovesciò a terra. Il grande maremmano s’afflosciò in uno zampillo di sangue.”.

Leado non riesce a sparare e la lupa si dilegua. Passano gli anni. La vita è tornata a scorrere come sempre, ma Leado tiene pronto il fucile. Sembra che attenda da un momento all’altro l’arrivo della lupa, che vuole prendersi la sua vendetta. La vecchiaia incalza. Sono passati 40 anni ed ecco che la lupa si presenta davanti all’uscio di casa. I vecchi coniugi se ne accorgono poiché un gatto è saltato sul noce, “la groppa inarcata e la coda sferzante, pareva che soffiasse fuoco.”.

Non uscire, gli dice la moglie; lui risponde: È lei. E la moglie: Ma non può vivere 40 anni! È lei, insiste Leado.

Infatti, si tratta di una lupa che ha fatto strage nel pollaio, dileguandosi: “Nei giorni seguenti né la moglie né la figlia né il genero riuscirono a dissuadere Leado dal proposito di cacciare la lupa.”; “Non c’era dubbio: la belva lo fiutava, lo pedinava.”.

Pardini con sapienza narrativa ci prepara ad un duello all’ultimo sangue.

Del bulgaro il quale gli aveva prestato Brinche, il pastore maremmano, non si è saputo più niente. Leado pensa a lui quando si trova di fronte alla sua casa abbandonata; vi entra e trova “la mappa delle asce”, che altro non è che la trappola infallibile decantata da Karedo, il bulgaro scomparso. La predispongono nel pollaio, dove intanto la lupa ha perpetrato un’altra strage.

Sono sicuri di prenderla, questa volta, ma la lupa (forse non la lupa di quel tempo, ma il cucciolo che si era salvato) avrà la sua rivincita mortale.

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Bart