LETTERATURA: Vincenzo Pardini: “L’accecatore”
22 Novembre 2021
di Bartolomeo Di Monaco
Non è difficile indovinare quali sono gli scrittori italiani che preferisco. Ad essi ho dedicato un omaggio, raccogliendo per ognuno le mie letture di tutte le loro opere.
Il primo l’ho intitolato “Omaggio a Carlo Sgorlon. I romanzi”, il narratore friulano nato per raccontare, la cui scrittura da sola rivela una forte vocazione e la capacità di liberare la fantasia, trasferendo il lettore in un mondo fantasioso e magico.
Il secondo è intitolato: “Omaggio a Vincenzo Pardini. Tra racconti e romanzi”, lo scrittore della mia terra di Lucchesia, la cui robusta ispirazione è sempre coniugata ad una natura suggestiva e primordiale e il cui stile narrativo gli appartiene senza che nessun altro possa arrivare a emularlo. Scrissi in occasione della lettura di una delle sue opere: “Grande secolo d’oro e di dolore” (2017): “Pardini è, a questo riguardo, un caposcuola. Si dovrà dire, d’ora innanzi (e lo si sarebbe dovuto fare da un pezzo) che la scrittura di questo o di quest’altro scrittore ricorda quella di Vincenzo Pardini.”. Pardini non imita nessuno, la sua scrittura è unica e distintiva.
Ho dedicato il terzo libro ad uno scrittore della Garfagnana lucchese, sconosciuto ai più: “Enrico Bertozzi. Un grande da scoprire”, lasciando ai critici più bravi di me una eredità di approfondimento e di conferma. Per quanto mi riguarda, non ho dubbi, e se penso, ad esempio, allo scrittore altopascese Remo Teglia, che fu pubblicato da Einaudi, riconosco che Bertozzi non gli è inferiore.
Ora Pardini ha dato alle stampe “L’accecatore”, edito nel 2021 da PeQuod e dovrò per questo provvedere all’aggiornamento dell’omaggio che gli ho dedicato.
Vediamola insieme quest’opera, che non è una raccolta di racconti, ma un romanzo.
Pardini ha la fama di grande raccontatore e suoi lavori sono comparsi e compaiono sulle maggiori riviste italiane e su molti quotidiani, sempre accolti entusiasticamente dai lettori, non essendo mai banali, e eccellendo quando si tratta del mondo animale che Pardini conosce benissimo e rappresenta con partecipazione e maestria.
Il libro nel risvolto di copertina ha una breve presentazione di Mario Desiati che ricordo con affetto ancora oggi per quella telefonata che mi fece per dirmi che la mia lettura del romanzo di Arrigo Benedetti “Il passo dei longobardi” era tanto mai piaciuta che Enzo Siciliano ne aveva pianto.
Chi sa che qualcuno, magari lo stesso Desiati, non voglia dare uno sguardo alle tante mie letture presenti sul mio sito e farsi promotore (ora che sono giunto agli 80 anni e al termine quasi del mio cammino) di un’antologia di esse, che vorrei intitolare “La lettura come viaggio. Antologia di mie letture”, visto che sono state giudicate innovative da importanti scrittori e critici, primo fra tutti Giorgio Bárberi Squarotti.
Ma veniamo al romanzo.
Il suo inizio con brandelli di narrazione ci offre l’immagine di una escursione nel tempo. Gli episodi si susseguono in una visione sincopata nella quale il mondo appare come in pericolo, vicino alla perdita di significato e di destino. Il misterioso uccello dalle quattro ali (“due come di falco, due di piccione”) che corre nel cielo, violento e libero, è il simbolo di una maestà che vigila e ci punisce. Sotto la sua ferocia, e imprigionata dagli artigli, c’è l’umanità, accidiosa e indolente: “Un uomo del paese, che ogni giorno passeggia lungo la strada poggiandosi a un bastone, mi riferì che un uccello aveva ficcato gli artigli nelle pupille di un ciclista, asportandogliele.”.
Il narratore, che racconta in prima persona e somiglia tanto all’autore, anzi lo è, decide di proteggersi con degli occhiali onde salvarsi dall’uccello predatore.
Pardini sta spargendo simboli e metafore dappertutto. La realtà che ci disegna è intrisa di un contenuto che sfugge all’uomo, che riesce a vederne solo la superficie: “Dittatori fra di loro e verso il Creato, gli umani stanno annientando il pianeta.”. Da qui, la necessità di un’operazione dissimulatrice e liberatoria: “M’avesse aggredito, avrei così avuto il tempo di afferrarlo, non tanto per ucciderlo, ma per consegnarlo agli esperti, affinché ne capissero natura e provenienza.”.
Lui stesso vuol provarci: “Meglio sarebbe stato ne avessi individuato il nido che, forse, aveva in qualche luogo scosceso: una parete rupestre, oppure sopra un grande albero.”.
Comincia così un viaggio verso la consapevolezza e la conoscenza tanto bistrattate dall’uomo.
Lo presiede una ispirazione multiforme e fantastica che a mano a mano si inoltra nella realtà per denudarla e nello stesso tempo mostrarcene la natura contraddittoria, ma anche magica e misteriosa.
L’uccello dalle quattro ali è anche, infatti, il riassunto del mistero e della magia.
Pardini ne avverte il fascino e l’affronta con il godimento di chi vi si inoltra per sconfiggerne il contagio. Ciò che accadrà anche al lettore: “I suoi attacchi costringono a capire in fretta, molto in fretta. Proprio come quando si vorrebbe uscire da una sofferenza.”.
L’attività di giornalista che segue da anni gli accadimenti quotidiani e matura con ciò una preziosa esperienza, consente a Pardini di dare alle sue immagini la concretezza che deriva da una tale consuetudine, e così dalla ricerca avvincente e misteriosa dell’Accecatore, emergono i segnali di una civiltà che va alla deriva più per colpa delle Istituzioni che del popolo, che ne è vittima sacrificale: “Gente comunque nascosta, che tramava nei meandri di un potere innominato.”; “Non così si poteva dire per la nostra classe politica, ladra e profittatrice della povera gente e incapace a porre fine alle inique gesta dell’Accecatore, ormai vero e proprio despota.”.
I brevi capitoli stanno diventando a poco a poco i tasti cromatici di un canto di disperazione.
Pardini, oltre che dalla curiosità di una conoscenza anelata e necessaria, è spinto dalla rabbia per l’assenza dei buoni sentimenti e dei doveri che dovrebbero reggere una società di uomini.
Conosciamo le capacità descrittive dell’autore. Eccone, comunque, un esempio: una signora è aggredita dall’uccello: “La scena si svolse proprio davanti la veranda, sotto la quale gli avventori stavano ancora mangiando. Calato sulla testa, l’Accecatore le si aggrappò alle guance, e coi rostri le svelse gli occhi. Un bulbo cadde. Mentre la signora si dibatteva, alcuni, coi telefonini, ritrassero le sequenze; altre ne fecero quando l’Accecatore tornò per ingozzare l’occhio rimasto a terra.”.
Fa capolino anche l’ironia: “Chi avesse ucciso l’Accecatore si sarebbe aggiudicato un premio assai ambito: un safari in Africa contro leoni ed elefanti.”; “In molti ristoranti, su consiglio dell’ente del turismo e dell’associazione di commercio, si cucinava polpette a forma di bulbo oculare, denominate ‘I bocconi dell’Accecatore’. Un successo insperato.”.
L’Accecatore sta dominando e a poco a poco si diffonderà nel mondo. Attento alla cronaca di questi ultimi due anni, Pardini farà in modo che il lettore ne attualizzi la natura e richiami le responsabilità di chi dovrebbe guidare la società ed invece l’inganna e la tortura, causando la comparsa dell’Accecatore e il venir meno della libertà.
Il romanzo ha anche gli accenti del pamphlet (specie la prima parte), di una denuncia, cioè, suggerita da una pandemia che si è prestata a giochi di potere e a millanterie pregiudizievoli.
Pardini non solo la sta conclamando con questo breve romanzo, ma da tempo denuncia in più di un’occasione sui quotidiani e sui social la sua posizione contro ogni abuso e restringimento delle libertà individuali.
Il lettore scoprirà un Pardini diverso, come un autore che vuole staccarsi in volo, osservare, denunciare e sanare con i mezzi di cui dispone, specie la scrittura. È un impegno generoso, la traccia di una vita spesa per gli altri senza trucchi e infingimenti. E anche senza pietà e sconti per nessuno.
Ma il Pardini migliore, quello che conosciamo e che ci ha fatto emozionare con la sua scrittura non sparisce dietro questo misto di invettiva e di satira che ha preso di mira pandemia e Istituzioni, e lo ritroviamo tale e quale quando ad agire sono chiamati gli animali. In questa descrizione l’Accecatore perde la sua simbologia e si trasforma in un uccello vero che aggredisce un albatro: “Iniziava il cala sole, e il mare pareva uno specchio. Rotti gli indugi, l’Accecatore, dispiegate le ali ed emesso lo strepito del laccio che fende l’aria, piombò addosso all’albatro. Il quale, per poco, non lo arpiona col becco. Schivato il colpo, l’Accecatore resta sospeso in aria, come a osservare l’avversario. Che parve non dargli peso. L’Accecatore avrebbe sferrato un nuovo attacco, se l’albatro, aperte le ali, e proteso il collo a mo’ di picca, non avesse preso a correre sulla superficie delle acque, finché non prese quota. Affiancatolo, l’Accecatore cercò di conficcargli il becco in un fianco. L’albatro gli cinse il collo col suo; l’avrebbe decapitato, se le penne dell’Accecatore non si fossero inumidite di un sebo vischioso e maleodorante. Mollato, l’Accecatore sembrò precipitare. L’albatro, trovate le correnti ascensionali, aveva iniziato a solcare l’etere, dove solo un suo pari poteva seguirlo.”.
Dunque, l’Accecatore è vulnerabile. Calato nella natura può essere sconfitto.
Il lettore ne troverà altre di tale significato: “Chissà che nella giungla indiana, regno anche di magie ed incantesimi, l’Accecatore non finisse col trovare la morte.”. Anche il progresso è sotto accusa: “Alcuni componenti di una tribù, di non ricordo quale etnia, intervistati, hanno dichiarato che loro, protetti dagli spiriti dei morti, niente temevano da questi uccelli, figli del benessere e del progresso dei bianchi, colonialisti e soverchiatori dei deboli e gli indifesi. Tranquilli si facevano ritrarre mentre, in fila, con lance archi e frecce, seminudi, andavano a caccia, sfiorando gli Assalitori, sparsi a sonnecchiare nell’erba secca e paglierina.”. Però, prima o poi, ci fa capire l’autore, toccherà anche a loro soccombere.
Quando l’Accecatore è liberato dalla sua metafora ecco che ci appare al naturale, messo a fuoco da una scrittura ragguardevole: “Accostato al suolo il pennacchio della coda, le ali appena dischiuse, becchettava il terreno col rostro uncinato e duro, fino a sembrare di ferro. E di ferro mi parevano gli artigli, grandi come quelli di un falco. Gli occhi, dal colore del sangue, passavano a quello della cenere, fino a divenire bianchi come quelli dei ciechi. Fu con quest’ultimo colore che mi guardò, scagliandomisi contro. Inutile che lo rintuzzassi a calci e pugni. Non solo non riuscivo a colpirlo, ma ad ogni mossa venivo centrato da una sua beccata. Lacerato, raggiunto la macchina me ne andai; sollevatosi in volo, lui mi precedeva, ad altezza di alberi.”.
Pardini sta entrando più direttamente nel racconto, affianca l’Accecatore come protagonista e dà una svolta positiva all’affabulazione, che coinvolge ancora di più il lettore.
La sua vita privata si mescola al dolore che circonda l’umanità aggredita dal mistero.
Nel suo corpo le stesse incognite, la stessa sofferenza.
Abbattere l’Accecatore e cercare di farlo con un impegno personale, senza limiti, significa sempre di più addentrarsi nel mistero. L’Accecatore è il prodotto di una corruzione diffusa e la sua sconfitta non potrà che essere risolutrice e liberatoria: “Mi sentivo un apolide al centro di un mondo ostile e sconosciuto. Era accaduto, o stava accadendo, sentivo, qualcosa di irreparabile. Una punizione, per l’umanità, analoga a quella della colpa di Adamo ed Eva. L’Accecatore era nero, il colore del peccato, che mistici e veggenti vedono sulle mani degli empi.”.
La religiosità (s’incontra anche una citazione della santa lucchese Gemma Galgani) è un’altra componente della ispirazione di Pardini, qui suscitata dalla misteriosa presenza dell’Accecatore.
La realtà non esiste in Pardini se non accompagnata dalla suggestione di Dio: “Non sapendo a chi rivolgermi, confidai ad un sacerdote i miei patemi sull’Accecatore, aggiungendo che lo trovavo, spesso, attorno casa. Rispose che facessi un atto di fede totale a Dio, invocandolo che liberasse il mondo dalla nefanda creatura. Un vero e proprio castigo, forse una personificazione diabolica, che solo Lui poteva vanificare. Sesso, soldi e bramosia di potere avevano tolto di senno l’umanità. Era comunque interessato a venire a casa mia. Con un esorcismo, avrebbe cercato di allontanarlo.”.
Le sciagure che si diffondono in forza della presenza dell’Accecatore creano una speciale atmosfera di ansia e di terrore che richiama alla memoria il celebre film di Alfred Hitchcock, “Gli uccelli”, del 1963: “Gli uccelli insistevano ancora sul corrimano, e altri, m’accorsi, erano dislocati sulle gronde delle case attorno. Silenziosi, sembravano di vedetta.”.
Questi uccelli, chiamati Assalitori, sono anch’essi degli Accecatori, capaci di provocare perfino degli incendi: “Avevano larghi ventri, zampe identiche a quelle dell’Accecatore, e occhi rossi screziati di nero.”; “Il sospetto era che gli Assalitori, scampati alle fiamme, incorporate le essenze del fuoco, le sprigionassero, come pietre focaie, appena sfiorato il suolo.”; “Finché si scopri che alcuni stormi emanavano un tale calore da asfissiare chi sfioravano.”.
Dirà il narratore: “Dovevo, semmai, cercare di prendere coscienza di chi veramente fossi, e fosse l’uomo. Il tempo degli abbagli era finito.”.
Si avverte un’aria di smarrimento, di sedimentazione distruttrice alla quale dovrà necessariamente seguire una catarsi rigenerativa, come in una nuova specie di diluvio universale: “… la calamità degli uccelli avrebbe finito col renderci tutti più dinamici e intelligenti, abituandoci a tralasciare agi, piaceri, vizi ed eccessi. Un nuovo stile di vita che, annientati gli uccelli, ci avrebbe aiutato a stare meglio.”. Un accenno al diluvio universale lo troveremo più avanti, verso la fine.
La sensazione di uno smarrimento collettivo e del singolo è palpabile, talché il lettore avverte come propria l’ecatombe che si ammassa nel racconto ed è preso dallo sconforto dettato dall’impotenza e dalla solitudine.
Il racconto si è trasformato. Ora è un viaggio dentro l’ignoto e dentro il mistero dell’anima: “Ogni giorno sento avvolgermi da un avvilimento diverso, una spirale, da cui non riemergo. L’oscurità di un pozzo senza fine si apre dentro me, accecando ogni mio stato d’animo e impulso. Sono davanti ad un muro invalicabile, leggo la vita dei santi, penso ad alcuni di loro, e mi raccomando a Dio. Sempre, debbo dire, mi giunge un sollievo che non so spiegare.”.
Ci troveremo di fronte ad una sollecitazione di intensa spiritualità: “Conquistato e consolidato il potere di non farci più sentire sicuri nemmeno a casa nostra, ai nostri antichi e consueti schemi di vita, erano subentrati paura e sgomento che ci portavano a vedere persone, cose e natura in maniera diversa. Tanto che perfino gli alberi sembravano avere il tronco rattrappito e i rami doloranti alla stregua di enormi dita deformate dall’artrosi. Non andava meglio al profilo dei monti che anziché innalzarsi e stagliarsi nel cielo parevano discostarsene, aprendo fra loro e l’infinito un vuoto incommensurabile, come se l’allineamento dei pianeti, avesse infranto gli equilibri voluti da Dio nell’atto della Creazione.”; “Figlio di Dio e di questo mondo, mi sembra di condividere con Adamo qualche affinità della sua antica solitudine. E come lui confido nell’Eterno, che nel vento continua ad arrivare; quel vento col quale più volte mi ha carezzato, mormorandomi nei pensieri il suo immenso Pensiero.”; “Bambino, quando emigrai dal paese natale, a lenire il mio avvilimento non furono le parole dei familiari, ma quelle di Dio. Nitide e forti, entratemi nella mente dicevano vai, non temere, io sarò con te e in te, specie di fronte alle avversità che dovrai affrontare.”; “… recitare, con fede e convinzione, le preghiere. Momenti belli, a volte unici, durante i quali avverto di non avere altro che Dio.”.
La pandemia è ormai soverchiata dalle pene del mondo: “Come ormai ero abituato, sopraggiungevano giorni in cui gli uccelli non si vedevano. Ma niente era più come prima. Da loro mangiati, avevano smesso di cantare anche i galli. I pochi cani e gatti sopravvissuti, restavano nascosti nelle case, rifiutandosi, sovente, di uscire. Stessa cosa avrebbe fatto il mio, non gli avessi messo il guinzaglio, obbligandolo a seguirmi. Spostamenti brevi, attorno casa, pronto a rientrare in caso fossero comparsi.”; “Si mormorava, infatti, che fossero quasi più numerosi della popolazione umana del pianeta, e che fossero destinati ad aumentare.”.
È il cataclisma, quasi l’annuncio della fine del mondo.
Il lettore ne respira cupezza, tormento e dolore: “… di questo passo, potrebbero rivelarsi battistrada dell’avvento di un regime dittatoriale planetario, allo scopo di relegare l’umanità dentro l’ordine che impera nei campi di sterminio e nei cimiteri.”.
È anche un libro in cui Pardini svela se stesso e si confessa senza remore, come in un testamento spirituale. E ciò rende, a chi ama lo scrittore, il racconto doppiamente interessante: “Talvolta, appena preso sonno, finisco in un deserto grigio, sotto un cielo incolore e privo di orizzonte, dove cammino a piccoli passi, sommerso da un peso di immani proporzioni.”.
Questo libro, Pardini doveva scriverlo.
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