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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Vincenzo Pardini: “Rasoio di guerra”

2 Aprile 2021

di Bartolomeo Di Monaco
(Per acquistare il libro, qui)

Il libro si compone di 13 racconti.
Cominciamo con “La segregazione”.

L’essere indeterminato, un mostriciattolo, che ci viene presentato, forse ci fa paura: testa, bocca, orecchie, occhi. Vede e sente. Non ha braccia, gambe, voce. Un’antenna sul mondo della disperazione e della follia. In casa dicono che pare un cucciolo di foca o di coccodrillo.

Viene accudito con nausea e disprezzo. Emana una gran puzza, inavvicinabile: “L’ossessione aumentava quando mi lasciavano sul pavimento, avvolto in una coperta. I rumori della strada, o di chissà cosa, mi rimbalzavano dentro laceranti.”. Ä– lo stesso mostriciattolo che racconta.

Il rimando a Kafka e al suo racconto più noto, “La metamorfosi”, del 1915, è inevitabile.

La mamma non si dà pace per aver messo al mondo quell’esserino. Anche il padre, quando lo accarezza, non può che restarne schifato.

“La mia vita trascorreva così: tra pavimento e muri; qualche topo, gli occhi lacrimosi e la pancia gonfia, mi girava attorno. Poi spariva dietro i mobili a rodere a rodere.”; “Non sapevo quanti anni avessi. Unico orientamento: la luce, il buio e le stagioni.”.

Quando qualcuno fa visita alla famiglia: “mi trascinavano fino alla stanza più vicina, tra odore di polvere e fastidio di pulci. Ridanciane, m’arrivavano poco dopo delle voci. Le odiavo più del freddo e della solitudine. Alcune di quelle voci, per quanto potessi capire, sparlavano di me.”.

Lo stile serrato tiene il protagonista avvinghiato a sé. Viene da pensare all’artista colpito da una ispirazione che ha legato insieme scrittura e personaggio, e al mostriciattolo come metafora della sventura, se non dell’apocalisse.

Gli occhi del bambino frugano dappertutto; le orecchie avvertono ogni rumore. Immagine e suoni ne formano un corpo venato di fremiti e di smarrimento.

Viene portato all’aperto su ordine del dottore, poiché l’aria gli fa bene. Taluni insetti e animali al suo confronto sono giganti. Ma: “Dovevo stare all’ombra. L’intensità della luce avrebbe potuto liquefarmi.”.

I genitori devono subire un processo per averlo lasciato incustodito, ma la nonna reagisce chiamando in casa una strega per una malia: affidare il bambino alla protezione del demonio.

Si respira l’atmosfera stregonesca del film “Rosemary’s baby” di Roman PolaÅ„ski, del 1968, tratto dal libro horror di Ira Levin, uscito l’anno prima.

La madre partorisce un altro figlio, un maschio, a cui viene dato il nome di Avriolino (sui nomi dati da Pardini ai suoi personaggi si potrebbe scrivere un libro). Non ha difetti; ha il colorito roseo dei bambini normali. Il quale, però, ogni volta che vede il mostriciattolo, si mette a piangere.

Il mostriciattolo ha in sé perfidia e cattiveria; gode della sofferenza altrui.

Un giorno, esposto sul terrazzo, rischia di essere preda di un’aquila, per fortuna salvato da un cacciatore.

Per il fratellino è il Bau Bau.

Desolate le sofferenze morali dell’infelice. Cresce in lui il desiderio sessuale e lo avverte con rabbia e dolore. Vede i grandi far l’amore. Ne prova umiliazione. Per un nonnulla lo puniscono anche con bastonate, come fosse peggio di un animale: “Coi lunghi stivali di cuoio neri, appariva mio padre. Io fingevo di dormire, o d’essere morto. Lui mi batteva sulla faccia con un piede. Inferocito, allungavo il collo e tentavo di morderlo.”; “Se passato e presente m’avevano condannato a vivere, speravo che almeno il futuro avesse pietà di me, e mi uccidesse.”.

Finisce che lo chiudono in una porcilaia. Sogna una sua vendetta: “So invece che se riuscirò a camminare gli uomini, tutti gli uomini, non avranno nemmeno il tempo di raccomandarsi al loro Dio. Rimpiangeranno di essere nati. Questa è la mia fede e la mia speranza.”.

Pardini ci consegna una situazione aberrante sotto la metafora del destino avverso che colpisce l’uomo, anche se non ha colpe, e lo nutre d’odio e di una speranza vana.

Con “La segregazione”, tocchiamo le fiamme dell’inferno.

Come il mostriciattolo, tale può essere considerata anche la vipera, dotata di un veleno micidiale, che gli uomini scansano e, se possono, uccidono.

Se ne parla nel racconto “La vipera”: “Le vipere le avevo sempre vedute morte, la testa o il corpo infilzati nel vernacchio che le aveva trucidate. Il vernacchio era incastrato nella fessura di qualche muro; il rettile, che spioveva a terra, emanava odore di lezzo e di pesce sviscerato.”.

Un giorno d’estate, la vede: “Era la vipera: lo confermavano la testa piccola e schiacciata, il collo sottile, la coda corta e spessa. Immobile come fosse morta, si crogiolava al sole.”.

Infine la cattura: “Aveva occhi piccoli, cesellati da una fessura. Un che di spettrale, proprio di chi proviene dalle tenebre, sprizzava dalle sue pupille.”.

Si nota la speciale attenzione ai particolari della vipera prigioniera, che si contorce e anela alla libertà. Ne ricorda la leggenda: “Era dunque vero quanto tramandavano le leggende: le vipere con la forza del loro veleno possono incantare, ammaliare fino a far perdere il senno? Ed era ancora vero che quel veleno, una volta vecchie, tanto vecchie da divenire pelose, forma sulla loro fronte la lucida scaglia del più prezioso dei diamanti?”.

Pericle Dei Fenici è il mutolo del racconto omonimo. Incontratolo la prima volta, il protagonista ne ha paura; diviene balbuziente e ha bisogno di cure. A nulla valgono, ma ora non ha più paura del mutolo: “D’inverno, Pericle si ingegnava a domicilio; riparava ombrelli, appuntiva manici alle vanghe, risuolava scarpe. Seduto sulla soglia di casa, la coppola calata sulla fronte, inchiodava, cuciva indefessamente.”. Adotta una cagnetta trovata per strada, che gli tiene compagnia.

Anche il protagonista acquista un cucciolo di dobermann, che chiama Limpiao, e lo accudisce. Maltrattato un giorno da Pericle, gli insegna ad attaccare e a difendersi, affidandolo ad un legionario in pensione, esperto in allevamento di cani, il quale gli insegna anche che “Gli uomini, tutti gli uomini, valevano meno dei cani.”.

Rispetto al primo racconto, al limite dell’orrido e del raccapricciante, questi racconti hanno ora una quieta scorrevolezza che ne attutisce la violenza animalesca, che pur contengono: “Limpiao era ormai adulto: alto e intarsiato di muscoli era quello che si suol dire ‘un bell’esemplare’. Con agilità ed eleganza, degne di un ballerino, percorreva il cortile, s’avventava al cancello contro chiunque passava dalla via.”.

Il lettore assisterà ad uno scontro, efficacemente descritto, tra il dobermann e il mutolo, che, armato di pennato, vuole ucciderlo. Tra i due è sorta una profonda inimicizia.

Morto il mutolo, lacerato dal cane e gettato in un burrone, una donna racconta di averlo riveduto vivo.

Con Pardini anche le piante sono vive quanto l’uomo, al pari degli animali. C’è una quercia grande e fronzuta che non ammette che altro le nasca vicino. Con la sua ombra rende impossibile la vita.

Ä– la quercia del racconto omonimo: “S’ergeva, colossale e fronzuta in mezzo a dei pianori, con a nord la macchia e a sud un divallamento. In quello, a seconda di come roteava il sole, i suoi rami protendevano o ritraevano il tremolio dell’ombra.”.

Il protagonista vi trascorre le sue ore libere, ad ogni stagione, e osserva minutamente i fenomeni che accadono intorno. La natura vi freme, quasi la venerasse: “Se tirava vento, profumava di foglie e di ghiande. Poi di quell’indefinibile sentore che è l’accumulo dei secoli, contro i quali cozzava e svaniva il mio presente. Mi sentivo solo e prossimo al peggio, ma la quercia non voleva che m’allontanassi.”.

Ci sono immagini che rammentano il pittore inglese William Turner: “Tra folate gelide e calde, zaffate di terra sventrata, gridavano le ghiandaie e strillavano i galli; nembi fumosi s’impigliavano sui contrafforti, abbassavano il cielo sulle cime. Il sole pigliò a offuscarsi e dopo un ultimo, impotente raggio, disparve. Scurirono i prati, s’incupì la macchia. La quercia, la chioma in tumulto, sembrò raccogliersi in se stessa e perfino spostarsi. L’uragano, in una scarica di chiodi, si conficcò sul paleo, frustò me e la quercia. Ammollato, i brividi nel cuore, abbracciai lei.”.

Fossimo stati in mare avremmo pensato a Joseph Conrad e Herman Melville.

È un racconto dalla forza straordinaria. La natura e il sogno vi si stringono in un’alleanza portentosa e magica. Sotto la quercia, nella tempesta, intravede una ragazza, si frequentano all’ombra della grande chioma. Condottolo a casa sua, fanno l’amore. Si affacciano alla finestra: “Il sole prorompeva sulla neve e in mezzo a uno splendore scorsi, inverosimile a dirsi, la quercia: brillava, sfolgorava in un paesaggio ora lontano dalle mie solitudini. Ricordai allora le volte che mi ero rivolto a lei per segretarle timori e pensieri. La ragazza – sollecitata parve da un impeto – mi sussurrò che sì, che aveva esaudito la mia preghiera. Un amore contro il passato e verso il futuro avrebbe forse potuto cominciare.”.

Volete un esempio di quanto la natura, così stupendamente rappresentata dalla sua bellezza, si nutra anche di un’intrinseca ferocia?: “Ubriachi di sole, serpi e ramarri finivano preda dei gatti che, crudeli e spietati, gli spezzavano la spina dorsale; mentre ancora si contorcevano li sventravano lasciando loro intatte le teste e le code, sulle quali calavano mosche d’ogni dimensione e colore. L’aria era un alito fetido.”.

È l’incipit de “La bodda”, con la quale avremo a che fare: “La bodda che avevo davanti mostrava infatti la caratteristica sia nella forma, sia nei colori di foglie secche e di terra, di quelle che da bambino vedevo nei pressi dell’abbeveratoio delle vacche, oppure appartate a ridosso dei poggi esposti a nord: i più umidi, e dove l’erba non essicca mai.”.

Il lettore si sarà accorto come in questi racconti circoli l’atmosfera di una esplorazione a tutto tondo, in cui l’occhio e l’anima si misurano con le profondità misteriche delle creature viventi, siano animali, piante, montagne, pianure, tutte provviste di un loro proprio respiro. L’autore va in cerca di esso per raccoglierlo, interpretarlo e nutrirsene. Vicino casa, nel suo orto, s’imbatte in un’altra bodda (rospo): “Non grossa come quella trovata dal falciatore, aveva l’atteggiamento di chi vuol sfuggire allo sguardo umano. La osservai meglio. Sembrava di scorza e di quercia. I suoi occhi vitrei, colore della carne maculata, sebbene gelidi e indifferenti, avevano l’impressione contraccambiassero la mia attenzione. Prese poi a muoversi con dei brevi, scomposti balzelli.”.

Diventano amici: “Avvicinatomici aveva un fremito e gli occhi le si incupivano. Presala in mano la sollevavo per darle un bacio. Le zampe le brancolavano come gli arti di un neonato. Rimessala a terra prendeva a camminare, i movimenti di un paraplegico.”; “Ormai mi succedeva di pensarla ovunque fossi. Nel suo silenzio e nei suoi atteggiamenti c’era una voce che poteva raggiungermi sempre.”.

Investita da un’auto, la troverà con il ventre rovesciato: “Non riuscii a scordarla nemmeno d’inverno. Mi era dentro insieme alle cose e agli avvenimenti che gli anni accumulano.”.

Gli verrà spesso in sogno: “Lei mi fissava, gli occhi fuori dalle orbite come chi sta per piangere. La sua anima di terra aveva vinto.”.

La gelosia che impregna il racconto “Il cinghiale solitario” è contagiosa. Sara, sposata dal protagonista e da cui ha avuto una figlia, Rita, ha amato Gualtiero, uomo ricco e fascinoso. Il pensiero che abbia fatto sesso con lui, lo sconvolge e gli dà una continua e intollerabile pena. Sara appare scocciata, e la situazione accresce la rabbia del marito.

Fuori, in giro – gli stanno dando la caccia -, vaga un cinghiale ferito. Carabinieri e bracconieri, armi in spalla, lo stanno cercando. In quello stato, sanguinante, è pericoloso.

Ma ecco che Sara fugge con il brasiliano, portando con sé la figlia Rita. La gelosia, torno a dire, è il nucleo del racconto. Il cinghiale diventa solo uno stato d’animo: “Un istante mi viene fatto di pensare al cinghiale solitario che, colpito a morte, gridava e fuggiva. Vorrei essere al suo posto. Sotto un cielo spento.

Vi si trova una scrittura quieta, rassegnata, priva dei fuochi pardiniani, come se lo stato d’animo della sconfitta avvicinasse il protagonista alla morte.

Segue, forse non a caso, “Donna d’altri”. Lei è sposata e in urto col marito. Facile dunque conquistarla, ma non è così. Ha le arti della donna scaltra e consumata, dote naturale che appartiene alla femmina come un dono del creato: “Ma, la sua mano nella mia, si muoveva come un passerotto. Da lì a poco fummo sul greto del torrente. Abbracciatomi, baciò a piccole beccate.”.

La donna non ha nome; ha l’afrore della selvatichezza. La dura vita presa come un gioco d’azzardo: “Ma sul suo volto, persino quando il profondo della notte anchilosa le menti, mai le andò via l’ombra di chi si nasconde a se stesso.”.

La donna, irrequieta, ansiosa e scontenta si toglierà la vita. Il protagonista incontra il prete che sale al villaggio, il quale gli dice che una donna si è uccisa: “Allora, vacillando mi fermai; e l’aria il mondo il cielo furono uno di quegli inverni che una volta nel sangue vi restano eterni.”.

La vita ha di queste dissonanze; l’amore non sempre è felicità, sebbene quando si ari il suo terreno, tutto sembri germogliarvi.

L’amore di Pardini, che qui si è fatto tenero, è però ingannevole e traditore.

Compare un poco anche nel racconto successivo: “Birro Scarabicchi”. Tra il protagonista e la moglie ci sono scambi di carezze e di baci: “Ma io amavo sempre di più mia moglie. Vivere con lei era sogno e favola; era camminare e correre per prati e sentieri che i giorni e le settimane diradavano oltre ogni confine. Pensarla, nel buio e nel freddo delle mie notti, ricacciava incubi e tormenti.”.

Ma lui è attraversato da un’inquietudine. Birro è una specie di brigante; gli chiede dei “fulminanti”, ossia delle pallottole per riempire la sua cartucciera. Per una delle sue imprese, finisce in carcere. Se ne sentirà complice.

Vi è un’aura di segretezza e di mistero, i fatti si accavallano, s’intrecciano. Mormorii, dicerie, alimentano lo spasimo del protagonista, che si sentirà sollevato solo quando Birro tornerà libero.

“L’aviazione ‘alleata’, per annientare l’esercito invasore, ne bombardava le postazioni e gli avamposti, le salmerie e i carriaggi. Tra sibili e deflagrazioni, in un’aria di cenere oltre il cui velame sole e luna diventavano luci lontane, le lande e i declivi della nostra storia erano ormai terra bruciata.”.

S’incontra la guerra ne “L’aviatore”. Siamo sul finire e un cacciabombardiere precipita e si schianta a terra. Il pilota lo si crede morto. In realtà sopravvive e riesce a guarire. Si muove in giro per il paese, vigilato dai carabinieri. Ad un certo punto va ad abitare in una baracca sulla collina. È in attesa di rimpatrio. Nasce tra lui e il protagonista un’amicizia. Il protagonista va spesso a trovarlo. Cercano di dialogare, a fatica s’intendono: “Soltanto un ammiccamento restava immutato: quello rivolto al cielo e a come lassù tutto fosse spaventosamente grande.”.

Un bombardamento sconvolge il paese. Nel cielo, come passasse una croce, sfilano gli aeroplani.

Questo breve racconto ci offre l’esempio di uno smarrimento che colpisce l’uomo (tanto l’aviatore quanto il protagonista) quando i fatti che accadono sono terribili e più grandi di noi.

“I falciatori” è il quart’ultimo racconto: “Incurvati sui pianori e sui poggi, donne dagli abiti svasati e i fazzoletti a beghina, uomini a torso nudo e ragazzi appena vestiti, sembrava facessero a chi più falciava. L’erba, che molto aveva lussureggiato, cadeva sotto il luccichio delle lame. Ma ai rintocchi di mezzodì, le facce rosse e lucide i falciatori, dando un ultimo sorso ai fiaschi dell’acqua, s’avviavano a casa.”.

È un rito millenario che si ripropone, mantenendo la freschezza primordiale.

I vecchi hanno preparato, al modo antico, falci e frullane arrotandole e consegnandole lucenti ai più giovani.

È il racconto, tra questi della raccolta, che più di tutti fa pensare a Federigo Tozzi. Ma con qualcosa di speciale che appartiene solo a Pardini: “Mietevamo. Il terreno si rivelava riarso, polveroso. Grossi rospi saltellavano affamati verso i margini erbosi, formiche giganti si sovrapponevano l’una sull’altra, cavallette dagli occhi a pippolo saltellavano smarrite. La calura sembrava l’ardore di un cratere. Il blu del cielo, quasi a invadere la terra, fondevasi al verde della macchia.”.

Ma arriva il progresso e tutto scompare. Gioiella, la ragazza che da bambino si divertiva a stuzzicarlo, ora pare non riconoscerlo più: “La sola rimasta, ancora bellissima, è Gioiella. Ma le volte che l’ho rivista sembra (o finge di) non riconoscermi. E io ne soffro non saprò mai dire quanto.”.

Nel racconto “La condanna”, tre nomi inconsueti si aggiungono a quelli già incontrati, che fanno di Pardini uno dei più eccentrici e invidiabili dicitori di nomi propri, che assegna quale pennellata di colore ai suoi personaggi. Qui: la cavalla Meda, il padrone Jegora e sua figlia Savina.

Il protagonista ambisce cavalcarla: “Finché non le balzai in groppa. Il suo pelo m’inoculò gioia. Le mie cosce, il mio corpo aderirono alla sua schiena. Camminava, e io godevo della sua grazia, della sua selvaggia armonia. Impennatasi, mi scaraventò a terra. Nonostante lo stordimento, vidi Meda poco lontana. Illuminata in pieno dalla luna pareva sospesa dal suolo.”.

È ancora indomita, selvaggia. Spesso fugge e la si ritrova dopo ore, se non giorni. Certi ladri di cavalli, le danno la caccia, poiché è un purosangue.

Vogliono farla montare da uno stallone e accadrà una tragedia. Sarà come una vendetta della natura sugli uomini.

“La giacca di velluto” è quella appartenuta al nonno del protagonista (qualche volta, come questa, identificabile con la biografia dell’autore). Nelle giornate di vento che penetra dalle commessure della soffitta, si ha la sensazione che qualcuno voglia indossarla.

Il lettore, a questo punto (siamo ormai vicinissimi al termine) avrà notato che di frequente ci troviamo di fronte a situazioni che si somigliano, ma con un particolare: la descrizione rimane suggestiva ma non è mai copia dell’altra. Ciò dimostra che Pardini è un creativo ogni volta che disegna una scena, fosse pure la stessa. Le dona nuove emozioni, nuovi colori, una diversa magia.

Nel racconto torna la guerra: “E siamo a quando un mattino di primavera i soldati dell’esercito alleato invasero i nostri campi di grano e vi scavarono le trincee. Nulle risultarono, per salvare il raccolto, le dimostrazioni del nonno: sulle criniere dei monti insisteva ancora il fronte tedesco. si temeva lo scontro con l’aria che si sarebbe oscurata, con tutto che tremava, esplodeva.”.

Non ha dubbi: quella è proprio la giacca del nonno: “È questa la giacca delle altitudini rarefatte e delle stelle alpine, degli anni della guerra e della pace, dei cavalli e delle diligenze; ancora questa la giacca che egli smise prima dello spasimo e dell’agonia.”; “Riappesa al chiodo, la giacca è poi un’ombra: quasi fantasma che indignato s’allontana.”.

Siamo arrivati all’ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, “Rasoio di guerra”.

Finii di leggere questa raccolta la prima volta alle ore 17 del 31 agosto 1995. Ora sono poco più delle ore 19 del 29 gennaio 2021: Ventisei anni fa! Vi ho trovato le sottolineature di quel tempo, altre ne ho fatte.

Come il primo racconto, “La segregazione”, ha dato vita ad un insolito personaggio, un mostriciattolo senza nome, qui si dà voce ad un rasoio e se ne narra nascita e destino: “Presi forma tra braci e scintille. Il fabbro mi modellava, poi mi tuffava nella sabbia bagnata. Messo su una tavola vicino agli altri, udivo le voci. Gli operai della fonderia. Accostato a una mola divenni quello che sono: un rasoio contrassegnato dalla marca e dal luogo di provenienza.”. Finito in un negozio di Vienna, tra coltelli e pugnali, l’acquista una ragazza, Marelene, per il proprio fidanzato, Joseph (i due sono austriaci: siamo in tempo di guerra), che ha una barba difficile e va in cerca di una buona lama. Joseph deve andare in guerra: “La guerra con l’Italia era alle porte; anzitempo, le reclute dovevano apprendere le arti del combattimento.”.

Finché lui e il rasoio partono per il fronte. Non è Joseph, ma il rasoio che racconta. Pare di veder luccicare la sua lama tra le righe, vedere sulla lama bocca e labbra muoversi. Forse anche gli occhi.

Joseph muore in battaglia e il suo rasoio finisce nelle mani di un alto ufficiale che lo regala alla sua ragazza, la quale lo userà per depilarsi. Il rasoio scorre sulle sue gambe e nelle parti più intime. Si eccita, perfino.

Finisce poi nelle mani di Pelletto, un prigioniero italiano deformato dalla guerra, e con lui giunge in Italia. Sarà usato per uccidere. Ricorda, il rasoio, il suo primo padrone: “Non riesco tuttavia a dimenticare Joseph. La sua carne è stata la più dolce che abbia mai inciso. Sapeva di pane crudo. Rasatosi, mi asciugava e mi guardava, mi guardava fino a specchiarsi nella lama. Sapeva affilarmi con piglio unico. Piano, poi sempre più forte mi sfregava sulla coramella. Al fronte mi affilerà sulla cintola; slacciatala, con una mano la protendeva in alto, con l’altra mi teneva ben saldo e mi faceva volteggiare sul cuoio teso.”.

Quando scoppia la Seconda guerra mondiale, un soldato tedesco, trovatolo nella casa del nipote di Pelletto, ne loda la marca Bismarck Solingen. Morto il nipote di Pelletto, il rasoio finirà dimenticato in un canterale, finché un discendente lo scopre: “Arrotato, la mia lama è tornata quella di un tempo. Il ragazzo mi porta spesso dietro. È ammalato di guerra e sento premedita un delitto. Sono pronto all’uso.”.

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Bart