LETTERATURA: Vittorio e Carla
29 Novembre 2007
racconto di Enzo Ferrari
Si preannunciava una bella giornata di sole in quel giorno d’inizio giugno. Una luce tutta mediterranea, mare piatto come un lago, senza nuvole in cielo.
Si respirava già aria d’estate nel borgo di Cornigliano.  C’era un silenzio quasi irreale, rotto solo dalle parole cariche di sonno e di fatica pronunciate a bassa voce dai pescatori mentre sbarcavano le cassette del pesce. Â
Vittorio, seduto sulla spiaggia poco lontano, guardava il mare. All’improvviso alcune bombe cominciarono a cadere all’intorno. La flotta francese partita da Tolone, il 15 giugno 1940, cinque giorni dopo l’inizio del conflitto, stava bombardando la città .   Una brutta doccia di ferro, un brutto risveglio al buio. La guerra si era presentata.   Masse plaudenti l’avevano voluta, l’avevano cercata.  Altri, come in quel borgo, l’accettarono con un sinistro brivido, nel ricordo delle sciagurate avventure in trincea di non molti anni prima. Era l’inizio di un periodo pesante della vita non solo per Vittorio.  L’osannata guerra non sarà proprio lampo: Albania, Grecia, Libia, Russia, lasceranno negli anni a venire una scia di ansie, di lutti e di dissennati allarmismi.
Dopo altri tre anni, nel luglio del 1943, nella seduta del Gran Consiglio del Fascismo, Mussolini viene sfiduciato da una parte dei gerarchi. All’uscita della riunione persino arrestato per disposizione del Re d’Italia. Â Il fascismo pareva finito. Sembrava iniziare un nuovo periodo. Â Un po’ tutti speravano nella pace.
A Cornigliano, periferia di Genova, Vittorio viveva in una decorosa, ma assai modesta casa con i genitori, altri due fratelli e una sorella. Â
Il padre era un fattorino comunale, assunto quale reduce di guerra.
Aldo, il fratello più grande, era soldato in Russia.  Di lui da oltre un anno non si avevano più notizie.  L’ultima lettera, fortemente censurata, parlava di un momento di stanca nell’offensiva.  Da allora più niente.  La “gloriosa campagna bellica contro il nemico bolscevico” si era dimostrata una ritirata strategica.  Molte le famiglie che nel frattempo avevano avuto notizia del decesso per causa di servizio dei propri figli.  Di Aldo neppure quello.  La mamma sperava ancora di vederlo arrivare o di saperlo perlomeno prigioniero.  Di Aldo è rimasta solo una foto in divisa.
La sorella Olga, più grande di lui, era apprendista in una sartoria.
L’altro fratello, Mauro, assai vivace e sempre affamato, andava ancora alle elementari.
La madre, diabetica, con difficoltà governava la casa e si occupava del figlio più piccolo. Morirà nel giugno del 1944, lasciando sulle spalle di Olga compiti e doveri domestici.
Vittorio era un bel giovane, alto, curato nella persona, per quanto si potesse essere curati in quel periodo.  Sicuro di sé, generoso, in alcuni casi altruista, aiutava volentieri amici e parenti.  Della fatica non aveva mai paura, tutti glielo riconoscevano: due braccia sempre pronte per guadagnare qualcosa.
Vittorio non frequentava più la scuola. La vita di casa non glielo permetteva.  Doveva anche lui contribuire all’economia familiare.  Per aiutare la famiglia, specie dopo la partenza di Aldo per la Russia, si era prodigato nella ricerca di qualche lavoro. Vivendo in un borgo marinaro, abituato a conoscere natura e storia dei pesci, non gli fu difficile imbarcarsi sui gozzi per le uscite di pesca. Era capace di fare nodi anche complessi, aveva un’attitudine innata per questi giochi con le corde dai nomi speciali, bandiera, margherita, gassa d’amante.
Era stato anche in una piccola officina meccanica, acquisendo conoscenze tecniche sui motori.
I primi tempi aveva lavorato persino in una pasticceria.  Di quest’esperienza n’aveva però un brutto ricordo. Il padrone del negozio l’aveva, infatti, licenziato perché scoperto a mangiare una pasta con lo zabaione rimasta invenduta alla conclusione della giornata. Il suo temperamento esuberante aveva mal sopportato questa decisione, da lui considerata eccessiva. Non troppo velatamente riteneva che l’essere stato maltrattato fosse stata una vera e propria ingiustizia. Â
D’ingiustizie e difficoltà erano piene le vite di quel periodo.
I bombardamenti erano pressoché quotidiani.  I ricoveri nelle cantine o nelle gallerie erano spesso delle tombe per i malcapitati. Ci si cullava nell’illusione che vetri oscurati, sacchetti di sabbia e barriere di legno, potessero costituire un valido scudo protettivo. Di recente, in un palazzo delle vicinanze della casa di Vittorio, una bomba, infilatasi in una cantina adibita a rifugio antiaereo, aveva seminato la morte.  Di quel condominio nessuno si era salvato.  Due suoi compagni di gioco e di lavoro persero la vita in quel rifugio.
A Genova, specie dal 1942, si soffriva letteralmente la fame.  La gente che abitava soprattutto nei quartieri popolari della periferia industriale doveva fare i conti con la scarsezza dell’acqua potabile, con una sporcizia dilagante, con la difficoltà di procurarsi cibo. Con la tessera annonaria non si riusciva più ad ottenere certi generi di base, quali uova, riso, farina.  Carni e salumi erano prodotti quasi introvabili: prelibatezze che si apprezzavano nei sogni e poco nella realtà quotidiana.
Per procurarsi del mangiare spesso bisognava andare fuori città , in campagna o sottostare alle ruberie della borsa nera.  Con ogni mezzo di trasporto la gente andava nelle campagne e nelle colline piemontesi per acquistare qualche derrata alimentare, correndo il rischio di vedersi confiscati i beni così faticosamente procurati.  C’era il sospetto che questi controlli fossero suggeriti da qualcuno, che per invidia o cattiveria, fornisse alla milizia notizie sugli spostamenti.  In alcuni casi oltre il sequestro del cibo, c’erano anche le botte e i maltrattamenti.         Â
Stefano, inserito da tempo nella Resistenza, era stato incaricato di formare un gruppo di azione armata che operasse in città .  Stefano, che aveva combattuto in Spagna, acquisendo esperienza di armi e persone, doveva trovare alcuni validi giovani, non compromessi col regime, affidabili, coscienti della situazione e soprattutto anonimi nei loro comportamenti quotidiani.   Doveva scegliere giovani che possibilmente svolgessero un qualche lavoro, anche saltuario, disposti a qualche sacrificio personale, possibilmente non legati sentimentalmente a qualcuno. Il compito di Stefano non era solo quello di reclutare persone. Con le sue scelte, decideva della vita di costoro.  Si faceva quasi regalare la loro esistenza, li inseriva in un programma che metteva in conto anche la morte.
Stefano conosceva Vittorio fin da ragazzo: sapeva come si comportava e come agiva, cosa pensava del momento, del fascismo e della guerra.  Sapeva che già una volta era stato richiamato dal maresciallo dei carabinieri per alcune sue affermazioni contrarie al regime.  Osservazioni, per fortuna, considerate di poco conto, non degne di seguito, parole pronunciate da un “giovane esuberante e ignorante”,  sentenziò il maresciallo.
Vittorio non era fidanzato.  Piaceva alle ragazze, anche per il suo carattere esuberante, estroverso.  Gli amici lo rispettavano, anche se si scaldava con facilità . Da ragazzo talvolta era venuto anche alle mani con i suoi coetanei.  Â
Dopo averci pensato, Stefano si decise a contattarlo. Â Colse l’occasione di un trasloco.
Con le giuste parole lo fece partecipe del suo progetto ideale e concreto.  Riuscì, senza grande difficoltà , a scuotere e scalfire la sua iniziale titubanza.  Vittorio, infatti, accettò volentieri, consapevole di assumere su di sé rischi e responsabilità . Â
Il  gruppo sarà composto da poche persone, scelte tutte con gli stessi criteri.  Oltre Stefano, ne faranno parte Bruno, Italo, Paolo, Mario e ovviamente Vittorio.  Tutti giovani, animati dalle stesse sensazioni e dagli stessi ideali.
La prima convocazione definita operativa, fu dopo una settimana a Murta. Â Il luogo era una trattoria lungo la strada che portava al Santuario della Guardia in Val Polcevera.
In quel giorno d’inizio primavera del 1944, Vittorio all’appuntamento andò in tram e poi a piedi.
Splendeva un tiepido sole sulle macerie della guerra.
Arrivato in paese incontrò uomini in divisa che portavano fucili pronti a sparare. Li comandava un sottoufficiale dal viso cattivo con un berretto ampio in testa e un frustino nero in mano.  L’uomo gridava gli ordini, gesticolava, incuteva timore persino ai suoi sottoposti.
Vittorio non si attardò molto.  Tipi così, con il teschio sul berretto, li aveva già visti altre volte. Ma oggi era diverso. Sapeva di andare ad un appuntamento da cospiratore. La sua curiosità avrebbe potuto avere conseguenze nefaste.  Per un attimo incrociò lo sguardo di quel comandante, fronte aggrottata, occhi penetranti, baffi ben curati. Â
Entrò nel locale dove gli altri già mangiavano.  L’osteria era satura di fumo. A tavola, uova sode, insalata, pane nero e frutta.  Vino bianco.
“Dobbiamo guardare in faccia la realtà ” iniziò Stefano, dopo un piccolo brindisi.
La popolazione era allo stremo, stanca, arrabbiata, delusa.  Era necessario rimboccarsi le maniche, lottare anche in città contro i fascisti. Bisognava individuare gli obiettivi giusti.   Bisognava agire, colpire e poi sparire, con la stessa velocità con cui si era agito.
Mentre altri avevano scelto la via della montagna, anche “su queste colline”, il loro impiego era previsto in città .  Un lavoro di  collegamento e di sabotaggio. Per questo avrebbero formato una piccola brigata, una GAP. Â
GAP era proprio questa la parola misteriosa e, perché no, magica intorno alla quale girava il loro patto. Avrebbero fatto parte di uno schema più ampio.  Unico lo scopo.  Diversi i mezzi.
Stefano, mentre parlava, vedeva negli occhi di tutti montare l’interesse, la febbre, il desiderio di darsi da fare.
In quella stanza satura di fumo era evidente che persino la più possente e vitale delle personalità , era poca cosa dinnanzi a questa efficace combinazione di parole, per quanto poche esse fossero. Quella di Stefano era una dialettica stringente, che non lasciava molti appigli.  Parlava con calma, senza fretta.  Pronunciava frasi semplici, brevi, ma incisive.  Le sue parole facevano forza e perno sull’odio verso il fascismo, in quanto nemico, avversario da odiare, pur non allontanando l’oscurità disumana e squallida della morte.  La vita era sempre in bilico, sempre in gioco per tutti loro.
L’amico oste aveva portato dell’altro vino.
A conclusione del suo intervento, Stefano li avvisò che ciascuno di loro avrebbe avuto in dotazione una pistola, unica arma, più per offesa che per difesa. Sul quando e dove ritirarla, avrebbero avuto istruzioni più dettagliate in seguito. Vittorio aveva già in mente dove nasconderla, nel vaso di porcellana che sua madre teneva sul mobile in sala da pranzo.
Prima di scendere a valle, Vittorio volle salire fino al Santuario, in cima al monte.  Voleva vedere la sua città , i boschi, i paesi, le strade, i sentieri che la circondavano, sentire sulla faccia il vento, capire cosa si provava in vetta al monte, se era vero che da lassù apparivano differenti le miserie e le difficoltà della gente.  Da lassù comprese la radice stessa del cuore folle di quest’umanità . Era a pieno titolo coinvolto nel turbinio degli eventi.  Sentiva che si doveva colpire colpo su colpo alle ingiustizie, che si doveva annientare completamente il fascismo.  Il velo nero e triste che sovrastava la sua città andava spezzato con decisione.  Bisognava poter nuovamente correre per quelle colline tra gli alberi ed i fiori, accompagnati dal sole o dalla pioggia, ma sotto un simbolo nuovo.  Un simbolo che – l’aveva detto Stefano – “gli uomini, spesso senza capire, dicono libertà ”.
Tra i vari compiti c’era quello di scegliersi un nome di battaglia.
In un primo momento Vittorio aveva pensato a nomi altisonanti, adatti alla lotta, alla guerra: Spartaco, Libero, Annibale, Achille, Ettore.  La scelta poi cadde su Gino. In fondo gli piaceva, suonava bene, era corto e facile da pronunciare.  Vittorio voleva sinceramente diventare un buon partigiano.  Si sentiva pronto al gran passo. Il nome per lui era, in ogni caso, importante.  Sentiva che parte della sua forza gli poteva venire anche dal nome.  Scelse Gino, diminutivo di Luigi influenzato anche da quanto Don Carlo gli raccontava da ragazzo su San Luigi, re di Francia.  Vittorio era nato il 25 d’agosto, giorno dedicato a quel santo.  Luigi di Francia, monarca energico e giusto si era molto impegnato nella tutela dei diritti dei poveri e dei deboli.  Scegliendolo, si sentiva anche lui un po’ paladino dei poveri.   Pur non amando molto i preti e la Chiesa, gli piacevano molto le favole e le leggende, specie quelle a sfondo sociale. Oramai per Vittorio, che non frequentava più la chiesa da tempo, che non sentiva più neppure i rintocchi delle campane la domenica per la messa, la storia di San Luigi era lo stesso una bella favola.  Una favola che gli poteva tornare utile in un momento come questo. Â
I giorni passavano. Viveva due vite parallele. Vittorio continuava la sua normale attività , Gino partecipava alle prime azioni, dai volantinaggi all’attaccare qualche manifesto la notte. Poi furono dei pedinamenti e qualche consegna o ritiro di materiale compromettente, armi comprese.
Finalmente gli avrebbero consegnato la pistola.
Una staffetta in bicicletta il giorno dopo gliela avrebbe data nascosta in un cesto di mele.
Andò all’incontro con il cuore in gola.  La giornata era nuvolosa, carica d’elettricità .  Di lì a sera un temporale avrebbe bagnato la città ferita dalle bombe.  L’appuntamento era per le tre del pomeriggio a Pegli alla fine del lungomare.  Doveva passare per un normale incontro tra amici in riva al mare.  Puntuale si presentò con un impermeabile un po’ largo per la sua corporatura.  Giornale sottobraccio come segnale convenuto.  Alle tre nessuna bicicletta.  Dopo parecchi minuti, finalmente la bici arrivò.  In sella una ragazza vestita di nero con un foulard al collo.  Per Vittorio sembrò Venere, spuntata dalle acque del mare.  Capelli lunghi e sciolti, nero corvino.  Non molto alta, sorridente e spigliata.  E soprattutto con dei begli occhi azzurri.
“Ciao. Sei in ritardo?” esordì Vittorio.
“C’è stato un controllo. Tutto a posto. Ti ho portato la frutta, delle mele.”
“Grazie anche da parte di mia madre”, replicò, fortemente distratto dal sorriso degli occhi.
“Salutamela. Â A presto” E via con la bici. Â Il tempo minacciava pioggia. Â Il mare era un po’ agitato, poco amico. Â Un forte odore di salmastro invadeva l’aria.
La staffetta era ripartita, senza che lui gli avesse neppure chiesto il suo nome.
Aveva però le mele e la pistola.   Possedere un’arma significava passare all’azione.  Finalmente – pensava – si poteva fare qualcosa di veramente concreto ed utile per la causa.
Alla sera, quando Vittorio era solo nella sua camera, si ricordava di suo fratello e d’altri suoi amici partiti per l’Africa e la Grecia, non più tornati.  Si sentiva stanco.  Montava in lui il risentimento per il fascismo.  Era esasperato per i momenti da incubo durante i bombardamenti, per le prevaricazioni e i soprusi quotidiani. Non riusciva molto a controllare i suoi pensieri. N’era quasi spaventato.  Non erano pensieri buoni. Â
Ma se la furia lo tirava verso l’azione immediata, il suo istinto gli suggeriva attenzione e prudenza, quell’accortezza che giusto chi conosce la perfezione dei nodi sa come essenziale.
Capiva che tutta questa rabbia occorreva tenersela dentro, ben stretta dentro il cuore. Â Non doveva essere impaziente. Â Si dovevano rispettare gli ordini e le regole. Â L’ardore, l’entusiasmo eccessivo e intempestivo potevano essere cattivi consiglieri.
Seguirono altre missioni di poco conto, seppur pericolose. Â Alcune volte dovette coprire altri patrioti al momento della consegna di volantini davanti alle fabbriche. Â Una domenica mattina presto con altri del gruppo fecero saltare una serie di scambi davanti ai depositi delle vetture tranviarie.
In tutte queste ed altre azioni vi era in lui e in tutti gli altri, una gran disponibilità , l’ansia di far proprie con piglio giovanile ogni causa generosa.  Non mancava purtroppo in alcuni comportamenti, una certa superficialità , che in un’occasione  costò cara all’amico Paolo.
Paolo era stato incaricato di prelevare volantini e manifesti da una tipografia. Quella mattina ci era andato da solo e in bicicletta, nonostante l’ordine di non usarla.  Negli ultimi tempi, infatti, i tedeschi e la milizia fermavano tutti quelli in bici, specie se uomini.  Paolo era incappato in un controllo dei tedeschi e fu arrestato. Forse un delatore aveva segnalato i suoi movimenti. E ciò che aggravava la sua posizione è che gli avevano trovato addosso un coltello e un pacco di copie del giornale “Il Ribelle”, che non era ancora riuscito a consegnare.   La notizia arrivò improvvisa e dolorosa.  Paolo era stato subito trasferito alla Casa dello Studente. Il luogo era tristemente famoso per i soprusi e le torture cui erano sottoposti gli arrestati. Una settimana dopo sarà fucilato.
La sera che seppe della morte, seduto sul letto, Vittorio pianse.  Non gli restava in pratica più nulla, neppure il calore dell’amico perduto e di quelli lontani, il conforto del fratello più grande, l’affetto della madre scomparsa da poco.  Il gran nemico, il buio, il ghiaccio della notte, calava su di lui.  Si sentiva solo, ma al tempo stesso capiva che Paolo ed altri soffrivano e morivano per rompere il ghiaccio, per far cambiare la direzione di quel vento freddo e feroce.  Capiva che avrebbe potuto anche lui  morire per lo stesso motivo.
Il fascista era uomo forte e deciso.  Amava Mussolini, ma ancor di più Farinacci. Era sottoufficiale delle Brigate Nere.  Era figlio di una ferrea volontà littoria, squillante nei proclami, risoluta nei comportamenti.  Non si era mai tirato indietro, partecipando alle azioni più ardimentose e cruente.  Non aveva nessuna paura della morte, si metteva in gioco fino all’ultima goccia di sangue.  Da qualche tempo si era accorto che la gente lo odiava e rumoreggiava al suo passaggio. Anche lui odiava questa gentaglia, non degna di un grande ideale, solo pronta a piangersi addosso, mai contenta.  Lui apparteneva ad una razza superiore, fatta di persone per bene, degna di tramandare una civiltà basata sull’onore, la dignità e l’eroismo.  “La salute della patria ha bisogno delle maniere forti”.
Il grido estremo del soldato in cambio della gloria, questo era.  La consapevolezza che il suo agire avrebbe potuto bruciare in un attimo, non lo preoccupava affatto.  Era bello pensare che il buio improvviso dardeggiasse su di lui più d’ogni luce. Era una macchina di guerra. Era grato ai suoi superiori di essere stato scelto per la sua crudeltà spesso gratuita. A breve era prevista la sua promozione ad ufficiale.  Era temuto anche dai suoi stessi uomini.  Alcune volte non si era fatto scrupolo di punirli severamente per non aver visto in loro quest’amore per la morte, per la loro scarsa disposizione al male in nome del supremo valore della morte eroica.  “Voglio il sangue da voi, come io do il mio”, gradiva ripetere.
In questo delirio d’onnipotenza e di disperazione aveva visto allontanarsi persino i suoi amici di un tempo, fascisti della prima ora, non meno intransigenti di lui.   Non se ne preoccupava più di tanto.   Era sicuro del fatto suo.   Sovente usciva di casa e girava armato per la città da solo, con il suo frustino che batteva ritmicamente sugli stivali neri sempre lucidi, regalo di un comandante delle SS.  Era talmente sicuro di sé che, tutte le mattine, andava sempre al solito caffè in pieno centro città per la colazione.
Quella mattina d’inizio febbraio del 1945 nel caffè non c’era praticamente nessuno.  Il tavolino era defilato rispetto al bancone. Il fascista si sedeva sempre lì per abitudine, spalle alla porta.  Da solo come tutte le altre volte.  Si sentiva sicuro con la sua pistola ed il suo frustino nero.  Erano gli altri che dovevano preoccuparsi.  L’odio era la muraglia invalicabile, il potente muro d’acciaio che lo circondava anche in questa occasione.
Entrarono, come da accordi, in due nel locale, Gino e Stefano. Â Italo di copertura all’esterno.
L’arma in pugno, nascosta sotto una copia del quotidiano locale.
Lo chiamarono per nome.  La voce risuonò nella sala come una condanna.
Neppure un grido d’aiuto o di rabbia.
Seguirono tre colpi alla testa ben assestati.
Neppure un gemito. Â
La vittima crollò sul tavolino, facendo cadere il bicchiere e il posacenere. La sigaretta ancora accesa sul pavimento.
Nel caffè l’aria era divenuta improvvisamente irrespirabile. A Gino montò un conato di vomito in gola.  Le mani gli tremavano.  La fronte era imperlata di sudore.
Non bisognava perdere tempo. Gino si ricordò degli ordini. Agire, colpire, sparire.  Mentre Stefano usciva dal caffè dirigendosi verso il centro, Gino si allontanò nell’opposta direzione senza correre, per non creare allarme negli eventuali passanti.  Camminò, quasi in apnea, per i vicoli verso il porto.  In pratica non incontrò nessuno fino ai portici di Sottoripa.   La pistola era ben nascosta sotto l’impermeabile.  In fondo ad un vicolo una ronda armata stava facendo un controllo di documenti.   Continuò con passo deciso.  Non lo fermarono.  Poco dopo salì sul tram. Trovatosi da solo tirò un profondo sospiro, come per liberarsi da un peso che lo mordeva nel petto.  In quel momento gli venne in mente il pasticcino allo zabaione.   La crema era divenuta acida.
Carla abitava in un ampio viale del centro, segnato da una doppia fila di platani.  Bei palazzi d’inizio novecento ospitavano famiglie della borghesia cittadina: professionisti, impiegati e commercianti.   A metà circa della strada era il loro caseggiato.  I suoi genitori c’erano andati a vivere poco dopo la sua nascita.  Posto fortunato e importante, ove si svolgerà la gran parte dell’esistenza presente e futura di Carla.
Carla era figlia unica. Bella ragazza, non molto alta di statura, capelli lunghi, spesso raccolti, di un nero corvino.  Gli occhi color azzurro chiaro, con un leggero strabismo di Venere, causato da un banale incidente da piccola che le aveva lievemente compromesso il nervo ottico. Sportiva, aveva anche frequentato un corso di scherma.  L’arma l’aveva conservata e riposta in un baule.  In casa  tanti libri ed un pianoforte.  Il padre, uomo di cultura, funzionario in un’importante banca nazionale, era spesso a Milano e qualche volta persino all’estero per affari.   Pur spesso assente, ebbe una grande influenza sul carattere e sulla formazione intellettuale e morale dell’unica figlia. La madre si dedicava quasi interamente al mestiere di casalinga. Â
Carla aveva frequentato un collegio femminile di suore ove aveva conseguito il diploma di maestra.  Amava la lettura e specialmente la poesia. Riconosceva di aver ereditato dal padre il grande amore per i libri ed una certa tensione spirituale.  Leopardi, D’Annunzio, Pascoli, Gozzano erano i suoi poeti preferiti.  Parlava con correttezza il francese, anche per gli insegnamenti della madre.  Suonava con discreti risultati il piano.  La sua era stata una giovinezza tutto sommatofelice, senza alcun problema materiale. Aveva un buon ricordo del suo periodo scolastico. Pur nutrendo un gran rispetto per le sue insegnanti suore, non amava però molto le ritualità e le gerarchie ecclesiastiche.   Questa sua riluttanza, se non proprio rifiuto delle gerarchie, le veniva certamente dal padre, d’idee liberali e mazziniane. Â
La guerra modificò di molto le abitudini di Carla e di tutta la sua famiglia.  Suo padre aveva ridotto le trasferte fuori d’Italia.   La madre, specie dal 1943, dovette anche lei affrontare i problemi legati alla scarsezza o mancanza di cibo.  Sovente ricorreva alla borsa nera.  Bombe incendiarie avevano danneggiato il tetto del loro palazzo.  Furono costretti ad abbandonare per un po’ di tempo il loro appartamento.
Il conflitto aveva stravolto nel profondo i luoghi della loro vita, profanando le loro memorie, intaccando le loro cose e la loro casa, rompendo certi equilibri.  I loro luoghi, in cui quasi in segreto avevano vissuto, in cui avevano sperato, s’erano sparpagliati.    Per Carla era la rovina delle tracce dell’infanzia e dell’adolescenza, la fine traumatica di una stagione della vita e, perché no, dell’anima.
Carla, per la sua parte, voleva fare qualcosa.  Capiva che il momento richiedeva un impegno diverso da quello del semplice dissentire.   Voleva essere in qualche maniera utile, partecipare, dedicarsi alla realizzazione di un’idea.  Era necessario liberarsi dal fascismo, dal perbenismo, dal provincialismo, dalla retorica gretta e meschina che a scuola aveva ascoltato e digerito.  Già in casa sua  sentiva discorsi diversi, leggeva altre cose, respirava un’altra aria.  Un’aria non schiettamente ed apertamente antifascista dalla prima ora, ma certo non viziata dalla propaganda e dal comune sentire. Â
Dopo il 25 luglio ed ancor più dopo l’8 settembre, comprese che si doveva cancellare la lezione del passato per lasciare libera la speranza di un nuovo presente. Dubbi n’aveva.  Deviazioni, inganni e difficoltà erano ancora possibili.  Ma tutto si poteva aggiustare.
Talvolta i fatti contribuiscono ad accelerare le decisioni personali.
Era una sera d’autunno del 1944.   Pioveva una pioggia fine e insistente.  Soffiava un appiccicoso vento di scirocco.  Nonostante la stagione non faceva per nulla freddo.  Il coprifuoco imponeva, tra le altre cose, di chiudere ed oscurare tutte le finestre.  Quella sera madre e figlia erano in sala a leggere.  Carla, Il richiamo della foresta di London.  La madre era immersa nel fascino di Flaubert e di Madame Bovary.  Il padre quel giorno era a Milano, alla direzione generale della banca.   Una fioca luce di una lampada ad olio posata sul tavolo bastava appena a rischiarare l’ambiente.  Il silenzio era assoluto.   Dalla strada, all’improvviso, dei rumori e delle grida.   Si riconosceva bene il timbro delle voci dei militi fascisti.  Voci infernali, da girone dantesco.  “Staranno inseguendo qualcuno” disse la madre.  Le grida aumentavano d’intensità .  Per curiosità , spenta la luce, spostati i pesanti tendoni scuri, sbirciarono entrambe.   La scena non se la dimenticheranno mai più.  Pur con la poca luce dei fari del camion e dell’auto, sicuramente usate per il trasporto, videro tre ragazzi, mani legate, spintonati a calci all’angolo del palazzo di fronte.  Dopo poco bendati, fatti appoggiare al muro e fucilati.   Nel buio della sera distinsero chiaramente i lampi delle detonazioni di cinque o sei fucili.  Seguirono tre colpi di pistola, dal rumore diverso, più squillante di quello dei fucili.  Un rumore che penetrò  nelle menti di tutte e due. Â
In Carla un’oscura ragione di sangue ebbe il sopravvento.
Scorgeva il senso tragico e violento di quanto aveva veduto. Â Rimase sconvolta del forte e gratuito infierire di queste persone contro altre persone. Â Â Sentiva di vivere in un labirinto, voluto dagli uomini per non comunicare.
Nei giorni seguenti si decise al gran passo, dopo essersi consigliata col padre.
Giovanni fu il contatto.  Tramite una sua amica fidata fissarono un appuntamento con lui.  Era una domenica mattina, d’inizio dicembre 1944.  Quello era un momento di stasi nell’attività partigiana. Il comando alleato aveva chiesto alle bande di sospendere ogni attività . Si sarebbero dovute riprendere a primavera.  La gente che viveva in montagna doveva solo difendersi, mimetizzarsi, attendere.
Giovanni si comportava come un capo. S’intuiva che lo era già dai primi discorsi.  Descriveva le difficoltà , i problemi della situazione cospirativa attuale.   Fece persino dei nomi, facendo intendere chiaramente che  fossero fittizi.  Forse anche il suo lo era.
Giovanni parlò della guerra e del fascismo, dei partigiani e della loro giusta causa.  Parlò di quanto si faceva in montagna, delle possibilità di riscatto morale e civile,  di fratellanza e dell’idea che il mondo potesse cambiare.
Giovanni, conoscendo Carla e sapendo di trovarsi di fronte ad una persona di una certa cultura, non usò termini retorici e pesanti.  Si limitò a fissare alcune regole di comportamento etico e pratico, intuendo che Carla non avrebbe mai accettato di andare in montagna.  Capiva, dai suoi occhi, dalle sue espressioni, dalle sue domande, che anche lei avrebbe contribuito ad “eliminare barriere e confini, miserie e sofferenze”, però con un azione più culturale che di pratica guerresca. Â
In effetti, per Carla le montagne erano un’altra cosa.  Non le vedeva così idealizzate. Per lei erano le belle escursioni al Monviso, al Gran Paradiso, a Courmayeur. Quelle gite anche un po’ disagevoli fin sulle cime da dove rimanere ad ammirare per un’eternità le valli.  Un paesaggio che da lassù le ricordava più plastici ferroviari, che un mondo da salvare e redimere.
Accettò di divenire staffetta partigiana e di rischiare la vita nel consegnare armi, documenti e materiale clandestino in giro per la città e fuori.    Aveva una bicicletta.  Scrisse volantini e articoli di propaganda, inforcò molte volte la sua bici.
Di Carla non si ricordano eventi eccezionali e straordinari da raccontare.  Non mancarono certo le situazioni difficili e rischiose.  Come quella volta che consegnò una cesta di frutta ed una pistola ad un partigiano a Pegli.
La corsa in bicicletta l’aveva compiuta quasi con allegria, senza incidenti.  All’entrata di Pegli, dietro una curva, l’attendeva una brutta sorpresa.  Una pattuglia di militi aveva intimato l’alt.  Fu costretta a scendere dalla bici.  I fascisti le fecero alzare le mani e cominciarono a perquisirla.  Aprirono la giacca, frugarono in tutte le tasche, ma nulla trovarono.  Il cesto con la frutta, legato al portabagagli, non attirò miracolosamente la loro attenzione.  Dopo tutto erano mele bruttine, anche un po’ acerbe, non degne neppure di essere requisite.  Dopo un ulteriore controllo dei documenti e qualche domanda, la lasciarono andare.  Carla aveva mantenuto il suo sorriso.
La sua ingenuità e i suoi occhi celesti l’avevano protetta.
Dell’esperienza di guerra, Carla aveva digerito il suo ruolo, come diligentemente a scuola aveva digerito la letteratura.   Il suo essere staffetta partigiana la portava semplicemente in contatto con altri, con esperienze nuove, in  un miscuglio d’idee.  In questo mondo che scricchiolava cercava di trovare una nuova via, col desiderio di ripopolare quel vuoto ideale che aveva vissuto in quegli anni.
In guerra c’è sempre un nemico. Un nemico è qualcuno da odiare.  Questa insulsa guerra metteva in campo anche l’anima delle persone, oltre che il corpo.  Pur trovando difficile perdonare a chi ha portato dolore e lutti, Carla avrebbe preferito vivere in pace, non imprecare, né inveire più.  Voleva tenere lontano le immagini della guerra e rintracciare un filo per costruire un’esistenza secondo principi certi e giusti. Voleva tirare un bel frego su quegli anni sciagurati, voltar pagina e ricominciare da capo.  Sperava, alla fine di questa guerra lunga e dolorosa, di poter ricostruire un mondo di vero progresso.  Viveva di un ideale, forse di un sogno.
20 aprile, i giorni dell’insurrezione.
Si tiravano le somme di tutti questi mesi.  Si doveva salvare la città , le sue industrie, il suo porto, si doveva riuscire a far arrendere, senza spargimenti di sangue, fascisti e tedeschi. L’orientamento era quello non tanto di molestare e combattere il nemico, la cui sconfitta era ormai certa, ma di disporre cose e persone in modo che la vittoria non fosse vana.  C’era il pericolo che, per quanto depressi, i nazifascisti non avrebbero ceduto facilmente senza combattere.
A scuotere l’eccessivo ottimismo si venne a sapere che Stefano, mentre tentava di convincere dei fascisti asserragliati in un edificio ad arrendersi, fu gravemente ferito ad una gamba. Â Corse il rischio di vedersela amputare.
Gino, assieme ad altri venuti dai monti, partecipò alla conquista senza colpo ferire, della polveriera sopra Coronata. Â
Carla per tutti quegli ultimi giorni correva in giro per la città con la bici a portare messaggi, volantini e medicinali.
Finalmente scoppiò la pace. Era finito il tempo che tratteneva nel suo intimo una trama cupa e allarmata.  La luce era finalmente euforica.
Carla entrò a far parte del distretto militare su piazza dopo il 25 aprile.    Si dovevano aiutare i partigiani a riprendere una vita normale, a trovare lavoro. Venne creato un nuovo ufficio di collegamento.  Carla fu nominata responsabile dell’ufficio, tutto composto da personale femminile. Â
Ai primi di giugno, Gino, alla ricerca di un lavoro meno pericoloso di quello di sminatore nelle acque del porto, si recò al distretto.
Si presentò con l’unica giacca rimastagli, un po’ pesante per la stagione, camicia e pantaloni militari.  Al collo un fazzoletto rosso.
Così come fa il vento quando s’alza portando qua e là le foglie, così fece Gino entrando in quella stanza. Tutte le ragazze si voltarono. Gino dimostrava di essere un personaggio. Anche Carla si mise a camminare per la stanza in preda ad una strana eccitazione. Poco dopo tutte, non appena udirono la sua voce, si acquietarono e si misero a sedere.  Gino parlava con voce lenta ma grave.  Il suo incedere riscuoteva rispetto ed interesse.  Anche se qualche piccola ruga intorno agli occhi dava un senso di malinconia al suo sguardo, la fierezza non mancava.
Gino capì subito che di fronte aveva la ragazza incontrata un anno prima. Era lei la staffetta partigiana dagli occhi azzurri.
Anche lei lo riconobbe, nonostante i baffi, che non aveva prima. Â Da un po’ di tempo, in effetti, Gino aveva lasciato che sul labbro superiore gli si disegnassero un paio di sottili baffetti neri.
Lui riprese il discorso interrotto quella volta a Pegli, chiedendole il nome. Â Trovava piacevole conversare con lei, anche se si trattava di lavoro.
Gino avrebbe voluto passeggiare con Carla, scambiare idee e progetti, ma non in un ufficio come quello.  Poco prima di congedarsi, Gino ebbe il coraggio di invitarla: “Ti verrò a prendere sabato”.
La risposta, senza particolari tentennamenti, fu positiva.
Per non sfigurare Gino pensò nei giorni seguenti persino ad un regalo.  Comprò un grazioso foulard di un nuovo tessuto americano mai visto prima.
Era l’inizio dell’estate. Cominciava a fare caldo. Il sabato successivo verso sera non c’era più il coprifuoco.  L’incontro era in riva al mare, in quel borgo marinaro che Gino ben conosceva.  L’aveva portata a mangiare del pesce.  Carla indossava una camicetta di raso bianco con degli inserti a fiori ed una gonna grigia non molto lunga.  Lui una camicia bianca pulita di bucato ed un paio di pantaloni avuti in prestito da un amico per l’occasione.  Il regalo sottobraccio.  Prima di cenare fecero due passi in spiaggia.  Una leggera brezza increspava appena la superficie del mare.  Si accorsero che l’azzurro del cielo stava impallidendo nel rosa e che la luna stava sorgendo in quel languore luminoso.  Gino fremeva e sudava per l’emozione.   Il pacchetto si stava spiegazzando.  Anticipando un po’ i tempi, non conoscendo molto le regole della buona educazione, forse con poca eleganza, le consegnò subito il pacchetto.  Carla apprezzò tantissimo il regalo.  Lo chiamò “il primo regalo di pace”.  Il foulard, di un bel verde bandiera, se lo mise subito intorno al collo.
Erano entrambi stanchi di veder soffrire le persone, di vedere grondare sangue.  Erano stufi di vedere terra, alberi e mare dover sopportare le stupide e arroganti sofferenze provocate dal terrore degli uomini. C’era in entrambi la fretta di vivere, di ricostruire, di amare.  In quel borgo, nonostante le tragedie vissute e i dolori patiti, respiravano un’aria nuova, sentivano di riabbracciare il mondo e la vita.  La fragranza del pane bianco (non più nero) e il profumo del pesce fresco carezzavano i loro sogni, allontanavano i brutti pensieri, i loro vissuti di guerra.  Insieme speravano di ricostruire le loro realtà , i loro futuri.  Con la Liberazione si vedevano aprire un mondo senza costrizioni e oppressioni, senza paura per sé e i propri cari, senza clandestinità , forse addirittura senza fame e stenti, forse senza più odio per un nemico che viveva nello stesso paese.
Nella vecchia trattoria sul mare il pranzo era pronto. Sedettero ad un tavolo l’uno di fronte all’altra. Gustarono un buon vino bianco della collina di Coronata, dal sapore delicato. Si dissetarono con grande piacere. Il buon pesce li mise di buonumore.  Fu una serata finalmente serena.  Allacciata a questa sensazione, Carla s’innamorò di Vittorio.    Vittorio si era innamorato di lei quella volta delle mele.
8 maggio 1945. Nel pomeriggio le sirene fecero sentire il loro suono prolungato.  La popolazione, un po’ sorpresa, intuì che si trattava di un evento nuovo, ma lungamente atteso.  Per la prima volta quel suono era armonioso, non funesto.  Non ricordava le corse nei rifugi, in cantina, i pianti dei bimbi e i boati delle bombe. All’annuncio per radio della fine della guerra, per strada si formarono diversi cortei spontanei con bandiere rosse e tricolori al grido di Viva l’Italia, Viva gli Alleati, Viva i Partigiani.
Per Carla e Vittorio la guerra era finita il 25 aprile. Â Non si accorsero che era sgocciolata ancora per altre due settimane. Â
Imperia, ottobre 2007
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