LIBRI IN USCITA: Meridiano Zero 12/20094 Settembre 2009 blog: http://meridianozer0.blogspot.com/ Facebook: _____________________________________ biogiannozzi.splinder com, 18.7.09 La rivolta degli angeli ha inizio nella Parigi di inizio Novecento perche’ le figlie degli uomini sono belle e gli angeli non sono immuni alla bellezza. Ma c’e’ anche un altro motivo, ben piu’ importante: Dio e’ stato riconosciuto colpevole di crimini contro quella umanita’ che lui asserisce d’aver creato di punto in bianco dal niente. Il Dio che Anatole France disegna ne La rivolta degli angeli e’ una divinita’ talmente fragile, sottomessa al peso del suo stesso nome, che assomiglia piu’ a un azzeccagarbugli male in arnese che non a un creatore di infinite possibilita’. E’ un demiurgo, un impostore che ha avuto ragione dei Cieli solo grazie all’inganno e alla menzogna. Arcade, angelo ribelle, decide di affrontare di petto la questione, giacche’ i mortali sembrano interessarsi di tutto fuorche’ del problema che e’ Dio. Arcade comprende che l’umanita’ e’ sottomessa a un Dio di parvenze e menzogne; e comprende pure che forse qualcuno ha sospettato la verita’ ma per la pace della propria anima – cioe’ per calcolata convenienza – fa finta di niente e continua cosi’ ad adorare un “falso” gridando i suoi alleluia in Chiesa, genuflettendosi al cospetto di ogni pretino e non mancando quasi mai di baciare la Croce. Anatole France e’ un distruttore di idoli, che nega la bonta’ di un Dio creato ad arte dagli uomini per nascondere le proprie malefatte e per sottomettere e schiavizzare interi popoli. Contro il naturalismo, contro Émile Zola, il pensiero di Anatole, convinto classicista, par essere indirizzato verso quei filosofi che scavarono nel subconscio umano: il mondo e’ volonta’ e pessimismo, come Arthur Schopenhauer sottolineo’ in “O si pensa o si crede”: “Quando uno comincia a parlare di Dio, io non so di cosa parli, infatti le religioni, tutte, sono prodotti artificiali”. Ed ancor piu’, Anatole abbraccia l’idea axiologica nietzschiana che “Dio e’ morto”, che tutto e’ eterno ritorno, che non c’e’ volonta’ senza spirito dionisiaco. In “Ecce Homo” il celebre filosofo sottolineo’ che “l’ateismo non e’ un risultato, e tanto meno un avvenimento – come tale non lo conosco: io lo intendo per istinto. Sono troppo curioso, troppo problematico, troppo tracotante, perche’ possa piacermi una risposta grossolana. Dio e’ una risposta grossolana, un’indelicatezza verso noi pensatori. In fondo e’ solo un grossolano divieto che ci viene fatto: non dovete pensare!”. E Anatole France, attraverso la rivolta degli angeli, invita quel poco che resta dell’umanita’ a pensare. A ribellarsi. E’ sempre F.W. Nietzsche a mettere a nudo la scomoda verita’, che e’ poi al centro del capolavoro di Anatole France: “C’e’ un solo mondo, ed e’ falso, crudele, contraddittorio, corruttore, senza senso… Un mondo cosi’ fatto e’ il vero mondo… Noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa verita’, cioe’ per vivere… La metafisica, la morale, la religione, la scienza… vengono prese in considerazione solo come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si crede nella vita”. “La revolte des anges” e’ del 1914, ma in Italia una prima traduzione di Luigi De Mauri apparve soltanto nel 1928. In vita Anatole France godette di grande attenzione, dopo la sua morte nel 1924 fu quasi l’oblio, grazie soprattutto alla cecita’ dei surrealisti e della pruderie di Andre’ Gide. Questi non e’ ancora capace di emanciparsi dal moralismo borghese e dalle sue menzogne; si tenga poi conto che e’ reduce dall’abbandono della moglie sua cugina Madeleine, la quale accortasi dell’ambiguita’ sessuale del marito lo abbandona, lasciando nell’animo dell’uomo un grosso vuoto esistenziale. Il Gide che definisce Anatole uno scrittore “senza inquietudine di cui si capisce tutto subito” e’ un personaggio succube dell’invasamento religioso che lo maledi’ tra il 1885 e il 1888 grazie alla cugina Madeleine: Andre’ e la cugina ebbero un fitto rapporto epistolare, che porto’ Gide a tuffarsi nello studio metodico della Bibbia. Nonostante abbia gia’ scritto “I sotterranei del Vaticano” e il saggio socratico “Corydon” contro i pregiudizi verso l’omosessualita’ e la pederastia, Andre’ Gide e’ purtroppo ancora prigioniero dell’imprinting borghese, cosi’ nell’opera di Anatole France ravvisa soltanto una superficialita’ che in realta’ non c’e’. Dati questi motivi, chiaro che Gide non vedesse di buon occhio un ribelle tout court come Anatole: “La rivolta degli angeli” gli premeva il piede sul petto, lo soffocava. Non potendo combatterlo, Andre’ dovette ribassarsi a schernirlo. Il romanzo di Anatole narra le tribolazioni di Arcade, angelo custode del giovane Maurice D’Esparvieu, rampollo d’una famiglia piuttosto in vista nella Parigi di inizio Novecento. Maurice e’ un tipo ne’ carne ne’ pesce, che vivrebbe senza troppi scossoni le sue avventure amorose occupando il resto del proprio tempo a coltivare l’ozio, non fosse che un giorno il suo angelo custode gli si mostra per dirgli chiaro e tondo che ha deciso di muovere guerra a Dio. Maurice accoglie la notizia prima con incredulita’, poi con sospetto, in ultimo con disperazione: Arcade l’ha abbandonato e lui si sente come se gli avessero amputato un arto. In una Parigi anestetizzata, Arcade trova altri angeli ribelli: insieme si decidono per rovesciare una volta per tutte Dio. Lucifero avra’ presto il trono che merita e verra’ cosi’ adorato come Dio! Ma per riuscire nell’impresa bisogna organizzarsi, o sara’ una mezza disfatta uguale a quella che vide Lucifero confinato per la prima volta negli Inferi. “La rivolta degli angeli” e’ oggi piu’ che mai attuale. Il crimine e’ uno soltanto: ci si e’ dimenticati di Anatole France per troppo tempo, per colpa dei surrealisti, dei futuristi (dei fascisti). Negli anni Sessanta e Settanta ci furono dei tentativi di riesumare la grandezza del premio Nobel per la Letteratura (“La rivolta degli angeli”, tr. di Alessandra Baldasseroni, Firenze, Sansoni, 1966; “La rivolta degli angeli”, tr. di Lisa Tullio, Roma, Curcio, 1978), ma con scarsi risultati. Nel 2004 i tipi Meridiano zero riportano sul mercato “La rivolta degli angeli”, finalmente in una traduzione aggiornata; nel 2009 esce in edizione paperback il capolavoro dello scrittore francese, con una valente introduzione critica di Roberto Saviano. E’ questa un’occasione imperdibile per restituire ad Anatole France la grandezza che merita: “Cio’ che viene definito bene e’ soltanto cio’ che e’ imposto, null’altro che l’ordine e le consuetudini costituiti. Anatole France, continuando a manipolare l’infinita ludica letteraria, risolve l’annoso problema del bene e del male occupando con i suoi angeli ribelli un posto al di la’ delle due determinazioni. […] I demoni di Anatole France, con questo romanzo assurgono nell’Olimpo del mito letterario a numi della crisi capaci di disgelare cio’ che vi e’ di falso e disumano dietro l’ordine del bene. Questi demoni letterari indicano le strade che portano alla vita presa nel vortice del sapere, rapita nel tempo della passione, nell’ordine dell’anarchia, educata nel dubbio e nella musica, nell’amore per la materia e per le scienze della natura, al di la’ di ogni determinazione morale, giuridica, religiosa” (dall’Introduzione di Roberto Saviano). Condannato all’oblio, tratto in salvo da pochi ma valenti demo’ni illuminati, Anatole France e’ la Letteratura di cui questo secolo buio – precipitato nel piu’ volgare e ignorante medioevo – ha bisogno: la sua scrittura scardina pregiudizi culturali religiosi e sociali, ed e’ questo che ancor oggi fa paura ai tanti ipocriti e arrampicatori sociali, che giorno dopo giorno si adoperano in favore dello sterminio dei liberi pensatori, con le terribili conseguenze che si possono immaginare. (recensioni LA RIVOLTA DEGLI ANGELI) _____________________________________ mariodesantis.blog.deejay.it, 15.7.09 C’e’ qualcosa di pulp nel mandare in libreria un libro (una raccolta di racconti per di piu’!) di un esordiente italiano con un nome impossibile in un luglio italiano infuocato e dargli pure il titolo invernale di “Christmas Pulp”. L’editore Meridiano zero – ovvero Marco Vicentini from Padova, che pure sa quello che fa, avendo all’attivo molto buon lavoro letterario e una serie di esordienti battezzati e poi partiti con la fama verso lidi confortevoli di grandi editori – ha deciso evidentemente di sposarne la causa e puntarci molto su questo autore che tanto talento quante consonanti nel cognome: Ennio Kitterlegnosky. A Kitterlegnosky evidentemente non piace il Natale che conosciamo tutti noi specie se accompagnato da quel fintone di vecchio con guance rosate e barba bianca. Il Babbo Natale di Kitterlegnosky e’ piu’ un uomo un po’ marcio, sbracato su panchina con fiasca di vino e in mutande come da copertina. Un personaggio equivoco piu’ impegnato a portarsi a casa ragazze che a far contenti i bambini. Anzi… Il Natale di Kitterlgnosky e’ una farsa popolata di mezzi balordi comici spaventati e franati al punto giusto, per esempio i due travestiti da Re magio e Pastore che decidono di rapire il bambinello Gesu’, Alis il paffuto e ricco erede dell’imprenditore piu’ importante della zona. Un universo di provincia e paure skizzato nel vasto mondo del no-where italiano che potrebbe proprio per questo essere pure un non-luogo all’americana. Amosfere nere e ghigno comico, come potrebbero esserlo le grottesche avventure di soliti ignoti all’italiana ( o poveri diavoli, se preferite la metafora sacra, visto che siao in tema…) “Christmas Pulp” e’ un libro di racconti con un filo comune: la perdita di innocenza. Per questo l’uso di una figura – per il resto trita anche nella dissacrazione (vedi Sedaris) – come il Santa Claus si giustifica ancora come simbolo di un’idea. Per il resto c’e’ la scrittura di Kitterlegnosky gia’ sicura e apprezzabile per i suoi 29 anni di eta’ che sa bruciare come un bicchiere di tequila tracannato in malo modo senza sciogliendo anche in modo giusto quel tanto di scuola di genere che pure c’e’ anche negli autori che quel genere lo hanno fondato. “Christmas Pulp” e’ un colorato affresco pieno di facce buffe e personaggi strampalati, grotteschi e surreali, spiazzanti e soprendenti, in un’atmosfera priva ormai dei sensi di colpa di una cultura provinciale e piccolo-borghese che sa produrre i suoi anticorpi magari a suon di micro-violenza, di finali impietosi, in un paesaggio complessivo che convince, come convince la capacita’ di tenuta stilistica di cui e’ capace il giovanotto Kitterlegnosky. Lo aspettiamo con prove letterarie, magari un romanzo, in cui tutte queste premesse e promesse saranno mantenute al 100%. Con questo cognome chi lo dimentica…. _____________________________________ _____________________________________ sugarpulp.it, 25.6.09 Definito dal New Yorker “uno scrittore di straordinaria potenza”, Harry Crews ci offre un viaggio folgorante, originale e mozzafiato nel profondo Sud degli Stati Uniti, nelle atmosfere epiche rurali e selvatiche tanto amate da Sugarpulp. In questo romanzo ambientato negli anni Settanta (e scritto nello stesso periodo) l’autore della contea di Bacon (Georgia) racconta la sua stessa infanzia (allevato da un patrigno alcolizzato e violento). Siamo in Georgia, precisamente a Mystic, in un paese di terra e polvere posto nel buco del culo del mondo, laddove regnano incontrastate le bieche leggi del razzismo, le prepotenze dei piu’ forti e i soprusi di chi la legge la dovrebbe rappresentare. Qui vive Joe Lon Mackey, terrificante protagonista di questo durissimo romanzo. Joe Lon passa il suo tempo gestendo un locale “ereditato” dal padre, in cui smercia birra e whiskey di contrabbando con l’aiuto di due neri tuttofare schiavizzati. Il suo vecchio padre e’ un violentissimo e crudele addestratore di pitbull da combattimento, la cui spietatezza con gli animali e’ riverita dalla popolazione locale. La sorella di Joe Lon e’ invece una disturbata mentale che si spalma merda fra i capelli e passa le giornate incollata davanti alla televisione. Poi c’e’ lo sceriffo di Mystic, un tizio che ha perso una gamba in Vietnam e rinchiude in prigione le ragazzine di colore che rifiutano le sue avances per violentarle indisturbatamente. Tutti sanno, ma nessuno parla. Per la maggior parte del tempo Joe Lon Mackey se la prende con se stesso per i maltrattamenti fisici e psicologici che impartisce alla moglie, che si prende cura dei due piccoli figli; e si crogiola in un miscuglio di passate glorie e presenti rimpianti al pensiero che gli incidenti di football degli anni del liceo gli sono costati il futuro. Una volta all’anno a Mystic si svolge la “fiera dei serpenti a sonagli”, che attira lunatici ubriachi e fuori di testa da tutti gli stati confinanti, e non solo, i quali arrivano nella piccola cittadina per cacciare, uccidere e mangiare serpenti, in realta’ di ogni specie. L’avvenimento e’ coronato da un concorso di bellezze in bikini e da una nottata di festeggiamenti in vista della caccia. Joe Lon decide che il raduno e’ l’opportunita’ ideale per attirare un po’ d’attenzione. Ma l’elaborato progetto che escogita per evadere dal grigiore di Mystic gli sfugge di mano, e cosi’, uscito di senno, scatena una strage iniziando a sparare su poliziotti corrotti e predicatori da quattro soldi, scatenando un’incredibile serie di eventi che tengono il lettore con il fiato sopeso e che Crews presenta, come e’ solito fare, come una macabra, ma esilarante e irresistibile versione della commedia umana. Eppure, nonostante questo finale cruento e “impazzito”; e nonostante dalla prima all’ultima pagina del romanzo Joe Lon non rappresenti nulla di esemplare o anche soltanto di buono, alla fine della fiera per lui non si prova ne’ antipatia, ne’ rancore, ne’ tantomeno odio. Perche’ tra la feccia che lo circonda, lui appare comunque meno ignobile degli altri, e pertanto meno disgustoso rispetto al conformismo verso il basso e alla omologazione sub-culturale di cui e’ permeato l’ambiente in cui si svolge la vicenda. “La fiera dei serpenti” e’ un romanzo che segue lo schema classico della tragedia. Una tragedia magnificamente descritta e dipinta con i colori piu’ cupi di cui e’ capace Harry Crews, uno dei massimi autori americani contemporanei forse troppo poco considerato dalla critica. (recensioni LA FIERA DEI SERPENTI) _____________________________________ Alias, 4.7.09 _____________________________________ il Gornale, 27.7.09 Finalmente, perche’ i lettori hanno avuto poco tempo per approfittare della sua prima edizione, messa in circolazione da una casa editrice in seguito assorbita da un gruppo editoriale maggiore. Ma Chester Himes e’ uno di quegli autori che altri autori leggono e consigliano, uno di quei romanzieri che molti scrittori prendono a modello stilistico. La sua maestria nel creare la cornice ideale per una storia di violenza fisica e di abbattimento morale ne fa un precursore. Penna cinica e di un pessimismo piu’ nero della sua stessa pelle, Himes fa di una trama noir individuale il ritratto di una comunita’ afroamericana pavida, non ancora infervorata dai primi venti di quella lotta progressista per i diritti civili che avrebbe infiammato una lunga stagione americana. Jimmy Johnson e’ il perfetto esempio del nero americano medio che, per un gioco crudele del destino e non per scelta, non puo’ fare a meno di gridare al mondo le sue ragioni. Non e’ solo la polizia a non credergli, non e’ solo un universo di bianchi a irriderlo e nemmeno la comunita’ profondamente afroamericana di Harlem a diffidare di lui, ma e’ persino la sua fidanzata a dubitare della sua sanita’ mentale, di fronte all’enormita’ delle accuse da lui mosse. “L’aveva raccontato a un sacco di gente… Alla sua ragazza; al procuratore distrettuale; a questo o a quell’agente… all’avvocato… E nessuno gli aveva creduto. Eppure, era certo che gli sarebbe bastato abbordare il primo nero che passava di li’… per suscitare in lui quel senso di fiducia che nessun altro gli aveva dimostrato”. Un’illusione che nemmeno un finale agrodolce, tutto da scoprire, riesce a sgombrare. Questa e’ una storia in cui la violenza, piu’ sottintesa che descritta, la fa da padrona, una storia che una generazione intera di pensatori vicini al Blackpower deve aver consumato avidamente. (recensioni CORRI, UOMO, CORRI!) _____________________________________ Carmillaonline.it Sunset Limited. E’ il nome di un treno. Quello che portava dall’est all’ovest, dalla Louisiana proletaria alla California dei sogni di gloria e di ricchezza. E’ anche il titolo di un libro, edito da Meridiano Zero, scritto da James Lee Burke. Il decimo dedicato a Dave Robicheaux. Un poliziotto. Non siamo di fronte al solito noir, perche’ dietro ai libri di Burke ci sono un universo e una mitologia. L’universo, inteso come mondo circoscritto, microcosmo, e’ quello dei cajun. Che sarebbero poi gli antichi “acadiens” (letto all’inglese suona piu’ o meno come “a-cajun”) del Canada francese deportati nelle paludi della Louisiana alla fine del ‘700, con la malcelata speranza che in quello sputo di posto prima o poi morissero tutti. Invece, sono ancora la’. Abitano nel distretto di New Iberia. Suonano lo zydeco e mangiano pesci sac-au-lait. La mitologia e’ quella del sud. Della guerra civile. Di una vecchia aristocrazia che si ripropone in nuove forme, spesso mostruose, spesso addolcite dai modi e dal cosiddetto southern comfort, che non e’ soltanto un bourbon ma anche un luogo comune. Ma Burke e’ anche estetica. I suoi romanzi non sarebbero cosi’ implacabili e abbaglianti senza quelle immersioni nel paesaggio. Mai stucchevoli, mai oleografiche. Perche’ la natura, le albe sanguinarie sulle paludi o le notti umide e traslucide, riflettono lo spiritualismo tenebroso del quale i romanzi sono pregni. Come in Flannery O’Connor. O come nei film di Terrence Malick, dove la natura assiste alla tragedia umana come un coro greco, facendosi con il proprio silenzio e la propria indifferenza testimone critica del Male. Il Male per Burke non ha nulla di metafisico, in questo la radice ideologica dei suoi noir non e’ diversa da quella dei classici dell’hard boiled (Hammett in particolare) o degli illustri contemporanei (James Ellroy e James Crumley soprattutto). E’ un fenomeno umano. Ha un inizio. Ed e’ questo inizio che ossessiona Robicheaux. “Sunset Limited” puo’ essere benissimo letto anche se non si conoscono i romanzi precedenti. Basta conoscere un paio di cose. Robicheaux e’ un cajun, un reduce del Vietnam, un ex poliziotto di New Orleans, un ex alcolista che ancora frequenta gli alcolisti anonimi, e’ un agente dello sceriffo di New Itaca, la sua prima moglie e’ stata assassinata tempo fa, ha adottato una bambina sudamericana, il suo migliore amico e’ un irlandese di un quintale che non esiterebbe a sparare a qualcuno in mezzo agli occhi, se solo pensasse che lo meriti, la sua partner una sbirra lesbica con un terribile passato di molestie sessuali. A tempo perso, Robicheaux gestisce un negozio-bar per pescatori nel bayou, insieme a un nero dall’eta’ indefinita che si chiama Batist. In “Sunset Limited” viene contattato dalla figlia di un uomo, un sindacalista, che lui e suo padre trovarono crocifisso molti anni prima. Lei vorrebbe proteggere un carcerato che ha cercato di fregare la mafia, quella centenaria italoamericana di New Orleans, quella che c’era dietro il delitto Kennedy. Ma i tempi sono cambiati, e adesso la Louisiana e’ terra di conquista: Triadi, Dixie Mafia… Il caos. Che diavolo c’entra, con la lotta di potere ai vertici criminali, l’atroce massacro di un sindacalista sepolto da anni? E qui sta il punto. Perche’ Robicheaux disseppellisce. Scava. Si ostina a voler risalire alle radici del Male. Alla strage degli scioperanti di Ludlow, Colorado, compiuta dagli sgherri di Rockefeller, al linciaggio impunito degli afroamericani da parte del Klan o di poliziotti fascisti e poi ancora piu’ giu’, fino agli eccidi della guerra civile e al genocidio degli indiani. Scava. E una volta che pare scoprire il movente della malvagita’ e’ costretto a ricominciare, ad andare ancora piu’ a fondo, mentre tutti i suoi fantasmi gli gridano forsennati nelle orecchie. La grandezza del personaggio di Burke e’ che lui l’indagine la fa soprattutto nella memoria. Non che non sia un uomo d’azione, ma sono soprattutto i suoi amici a fare il lavoro sporco. In “Sunset Limited”, per intenderci, perde le staffe una sola volta, quando arresta platealmente il potente di turno, e la cosa gli si ritorce subito contro. No, lui spulcia gli archivi, parla con la gente, legge i giornali, scova la verita’ in un dagherrotipo ingiallito e, guarda caso, sotterrato. E poi, ha una tale empatia con quella terra di bellezze e di orrori che l’istinto finisce per essergli piu’ utile dell’intuito. Una terra, quella delle paludi, dove anche la ciclicita’ del Male, il suo continuo ritornare, ha un che di fatale. Come dice quel vecchio detto cajun? “Se hai cercato in tutta la palude l’alligatore che si e’ mangiato il tuo porco e non lo hai trovato, torna da dove hai iniziato e ricomincia da capo. Devi esserci passato sopra”. _____________________________________ nybramedia.it, 18.7.09 Il 31 ottobre 1992, dopo 360 anni, Galileo fu riabilitato dalla Chiesa cattolica, con la cancellazione definitiva della condanna inflittagli nel 1633 dal Sant’Uffizio. Cio’ avvenne in seguito alla determinazione cui giunse una commissione pontificia, istituita per lo studio della controversia tolemaico-copernicana, che ammise la non colpevolezza di Galileo. In altre parole, al Vaticano sono serviti oltre tre secoli e mezzo per accorgersi che lo scienziato pisano non aveva tutti i torti a sostenere ch’era la Terra a girare intorno al Sole. Da qui s’evince che chiunque fino al 30 ottobre 1992 avesse affermato la stessa idea di Galilei, fosse da giudicarsi eretico rispetto alla religione cattolica. Questo capolavoro d’irresistibile comicita’ involontaria deve far concludere che qualunque affermazione in campo scientifico provenga d’oltre Tevere e’, come minimo, da guardare con legittima diffidenza, specie poi se, come avviene in Italia, quelle affermazioni intendono perfino dettare leggi dello Stato. Qualcuno potra’ pensare: meglio tardi che mai, dopo 360 anni finalmente… no, le cose non stanno esattamente cosi’. Inoltre, un cardinale, nel 1990, sbeffeggio’ in un suo discorso Galilei per ribadire che “il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto”. Si dira’: vabbe’, un matto c’e’ sempre. Gia’, ma quel cardinale si chiamava, e si chiama, Ratzinger e, mi pare, che oggi abbia qualche incarico di rilievo in Vaticano. Nel 2009, ricorre il quarto centenario delle prime osservazioni astronomiche del grande scienziato e Meridiano Zero ha mandato in libreria un volume di Oddone Longo intitolato Galileo Galilei “L’uomo che contava le stelle”. L’autore, nato a Venezia nel 1930, e’ professore emerito dell’Universita’ di Padova dove e’ stato Preside della Facolta’ di Lettere e Filosofia. Dal 2003 e’ Presidente dell’Accademia Galileiana di Padova. Ecco l’incipit del volume: “Alla base della storia di Galileo si pongono lo scontro fra i due modelli cosmologici a cui egli intitolo’ nel 1632 il suo capolavoro ‘Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano’, e il favore a lui accordato al sistema copernicano. ‘Sistema tolemaico’ era quello consegnato all’Almagesto da Claudio Tolomeo Alessandrino (ca. 100-175 d.c.): l’estrema e piu’ esauriente elaborazione del modello escogitato da Aristotele (384-322 a. C.) per descrivere il sistema planetario. Al centro dell’universo una Terra immobile intorno a cui ruotavano, oltre alla Luna, i cinque pianeti allora conosciuti (Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno), oltre al Sole”. Da qui prende il via una veloce e puntualissima storia dello scienziato seguendo su cursori paralleli la vita di Galilei, le sue tappe scientifiche, i rapporti con gli scienziati del tempo, fino al processo cui fu sottoposto. Il tutto raccontato con uno stile lontano da ogni accademismo, vicino ad un alto giornalismo che rende ancora piu’ avvincente l’intera storia. Ho letto alquanto su Galilei perche’ e’ una figura che da molti anni m’interessa (mi costo’ pure una censura alla Rai nei primi anni ’70), ma finora mai avevo trovato un testo divulgativo cosi’ chiaro, capace di comunicare in modo comprensibile a tutti l’avventura scientifica del Pisano. Libro prezioso, da leggere e far leggere. _____________________________________ il Manifesto, 15.03.2009 Una colonna sonora per il coccodrillo della buon giornalismo Delizioso! E se non e’ frequente usare un aggettivo del genere per un romanzo, e’ sicuramente ancor piu’ raro farlo con un thriller. Tra i pochi esempi possibili forse potremmo mettere la serie degli ineffabili cinque del recentemente scomparso Donald Westlake. Ma proprio ai migliori romanzi humor-polizieschi di Westlake puo’ essere paragonato questo “Crocodile rock” di Carl Hiaasen, autore americano che ha avuto il picco della popolarita’ da noi in occasione dell’uscita cinematografica di “Striptease”, film del 1996 di Andrew Bergman con Demi Moore e Burt Reynolds tratto da un suo omonimo romanzo. Oggi riprende ad occuparsi di lui la casa editrice padovana Meridiano zero traducendo “Basket Case”, del 2002. E si tratta, come detto all’inizio, di un romanzo delizioso dove s’intrecciano non solo crimine e umorismo, ma anche niente affatto scontate considerazioni sul giornalismo e sul panorama economico in cui si muove la stampa, e dimostrando una grandiosa passione per la musica rock, quella vera, fatta di note, sudore, sangue e sesso (e tanta droga), non i quattro quarti tutti uguali delle musichette scritte apposta per scalare le classifiche. E in questo il parallelo che viene in mente e’ con lo scrittore francese Jean-Claude Izzo, che pure per altro non potrebbe essere piu’ diverso, ma che come Hiaasen lascia respirare al lettore la musica che egli e i suoi protagonisti ascoltano, non concedendo mai un riferimento facile ai nomi da classifica ma costruendo un continuo gioco di rimandi che deliziano l’appassionato vero. Hiaasen si fa pure aiutare, per il testo della canzone al centro dell’intrigo poliziesco, da Warren Zevon, scomparso poi l’anno seguente. Tutto comincia da un “coccodrillo”, ovvero da un necrologio (da qui anche il titolo italiano) che Jack Tagger, giornalista in disgrazia di un quotidiano di provincia della Florida, deve scrivere sulla scomparsa durante un immersione di James Stomarti, alias Jimmy Stoma, ex cantante e leader degli Slut Puppies, una band che nella finzione del romanzo avrebbe influenzato addirittura i Red Hot Chili Peppers prima di sciogliersi e scomparire dalla volubile attenzione dei fan. L’istinto da cronista di Tagger fiuta l’intrigo intervistando la moglie – giovane stellina del pop balzata alla notorieta’ per aver girato un video col pelo pubico bene in vista – e la sorella di Stoma, che si mantiene con chat-line a luci rosse. Districandosi tra improbabili guardie del corpo e produttori improvvisati, tra vecchie star del rock col cervello bruciato, ma soprattutto dribblando i nuovi proprietari del quotidiano, Tagger scopre un hard disk con le registrazioni a vario livello di mixaggio di un nuovo album solista di Stoma. Al centro di tutto la canzone Shipwrecked Heart che avrebbe potuto diventare un formidabile hit. Se gia’ l’intreccio si preannuncia un divertente slalom tra gli eccessi del rock e i virtuosismi delle indagini giornalistiche, al centro di tutto c’e’ la figura del protagonista: da un lato capace professionista dell’informazione e percio’ frustrato in massimo grado nel fare un lavoro che consiste nel ricucire brandelli di articoli d’archivio per poter descrivere brevemente l’esistenza di celebrita’ locali teste’ scomparse; dall’altro nevrotico ossessionato dalla morte che continua a paragonare la propria eta’ a quella del decesso di celebrita’ della musica e della letteratura. Un appassionato infine di musica, tanto da conoscere tutta la musica pop americana e da riconoscere un’artista fasullo quando lo vede. Insomma un eroe recalcitrante, terrorizzato dalla possibilita’ di vedere un cadavere ma col sangue freddo sufficiente per colpire in testa un rapinatore con un varano congelato. E la cosa piu’ improbabile e divertente e’ che sara’ proprio Jack a decidere da ultimo delle sorti del giornale, rivendicando in modo “romantico” la priorita’ delle notizie vere – esattamente come quella del rock vero – sugli affarismi e sugli arrivismi reciproci di editori e presunte star. Francesco Mazzetta _____________________________________ milanonera.com, 23.7.09 Prima Sonia, la sua ex moglie, gli chiede di cercare Chess, un loro vecchio amico comune scomparso misteriosamente. Poi Sauvage, suo ex collega in polizia. Cavallier avrebbe altro a cui pensare. Anita, ad esempio. Ventenne di cui si innamora follemente (e altrettanto follemente ricambiato). Oppure Dizzie Mae, una Ford V8 a cui e’ attaccato come un marito geloso. Ma poiche’ la sua vita prende decisioni senza consultarlo, Cavallier si trova invischiato in giri sempre piu’ pericolosi, che s’attorcigliano tra incidenti d’auto, attentati, sparatorie, aggressioni, traffici di droga. “In fondo alla notte” e’ un romanzo magnifico, tanto quanto memorabile suona il suo titolo in originale (“Les eaux mortes”, che forse poteva essere conservato nella traduzione dei tipi di Meridiano Zero per quella sua capacita’ intima di far apparire l’immagine delle acque stagnanti, ferme, immobili, ma pur sempre liquide). Poche balle: Pagan, lui stesso ex ispettore di polizia (abbandonata dopo aver denunciato la corruzione di un intero dipartimento), pied noir (come gli autoctoni chiamavano con disprezzo i francesi d’Algeria), cuore caldo nel maggio sessantottino, ha costruito un personaggio che, incontrando casualmente per strada Philippe Marlowe e Sam Spade (peraltro citati nel libro) si ritroverebbe con loro dentro i fumi di un locale a buttar giu’ qualcosa di molto forte. Ma, se Chandler e Hammett sono dei punti di riferimento, non meno familiare e’ il nome di Derek Raymond (e il suo sergente senza nome della A14, sezione delitti irrisolti), non fosse altro per quella inclinazione di Cavallier di camminare costantemente fuori direzione, sempre in bilico tra fallimento esistenziale e vitalismo che si alimenta a suon di nervi esplosi. La sua disillusione trova spazio a ogni spuntar del giorno, ma fa sempre i conti con reazioni di allucinata lucidita’, come se il profilo “certezze zero” fosse ne’ piu’ ne’ meno che un naturale marchio esistenziale cui non necessariamente abbandonarsi supini. Il passato che bussa di nuovo alla porta e che scopriamo gia’ seduto in salotto anche quando ci impegniamo a non farlo piu’ entrare, la propria storia che torna a farci fare cose che mai e poi mai avremmo pensato di fare, atmosfera drogata da Gauloises come acqua quando piove, alcol che scende quasi per necessita’, assenza di proiezioni future e, quel che piu’ ci rende precario l’equilibrio, maree di dubbi sul presente: il catalogo e’ per spiriti forti. La capacita’ del noir francese di dare una maschera tragica al povero Cristo che si sceglie quale protagonista e’ in Hugues Pagan ai suoi massimi livelli. Lo stesso idem sentire dell’immenso maestro Jean-Claude Izzo e dell’altrettanto magnifico Andre’ Helena. E senza neanche giocare in casa ambientando la storia a Parigi, una delle eccellenze in fatto di citta’ noir. Ma nella provincia francese, sporca e ammanettata dal caldo. Che pero’, se riusciamo a essere onesti con noi stessi, ci offre ancora un’ultima chance per sopravvivere. (recensioni IN FONDO ALLA NOTTE) _____________________________________ tibereide.it, 21.12.07 Guardie e ladri innamorati il nuovo lavoro di Christopher Brookmyre Il titolo e’ tratto da un’omonima canzone di Billy Franks, al quale Brookmyre ha anche dedicato il libro, cantautore conosciuto nella stessa citta’ di Glasgow nel 1985, con il quale aveva anche suonato in una band, ma poi improvvisamente perso di vista. Il filo rosso del libro e’ percio’ questa love story, ma non mancano incredibili colpi di scena, tra i quali ad esempio una rapina in banca. Questa volta pero’ Brookmyre non da’ vita a un altro dei suoi racconti noir e il libro, come lui stesso l’ha definito, e’ un romanzo che traccia piuttosto un parallelo tra l’arte degli illusionisti da palcoscenico e il furto, con l’intenzione, da parte dello stesso autore, di divertirsi con un’infinita’ di trucchi con il lettore. Con l’obiettivo di dar vita, come si e’ gia’ detto, a una dura critica sociale, oltre che a spunti di vera e propria comicita’, Brookmyre scrive senza mai preoccuparsi di dover piacere a tutti, altrimenti, secondo lui, si rischierebbe di perdere l’essenza della scrittura. “Chi si offende per le idee che trova nei miei libri – ha dichiarato lo scrittore durante un’intervista – e’ di certo il meno probabile dei miei lettori”. (recensioni LA MAGICA ARTE DEL FURTO) _____________________________________ milanonera.com, 28.3.09 Inglese di nascita, una vita spesa in giro per il mondo, scrittore per talento e mille altre cose in una vita avventurosa (rinuncio’ alla vita agiata e al college per inventarsi mille lavori sul filo della legalita’), Raymond ha il sapore del grande scrittore, di quelli che si incontrano di rado e che a buon diritto entrano nell’olimpo di un genere, il noir, che e’ prima di tutto uno sguardo filosofico sulla realta’ e una chiave di interpretazione della vita. “E mori’ a occhi aperti” e’ il primo romanzo della Factory, la serie che ha per protagonista il sergente senza nome della fantomatica squadra Delitti irrisolti della polizia londinese. Il libro si apre con una classica scena del crimine: il corpo martoriato di un uomo abbandonato tra i cespugli. Ed e’ subito folgorante lo sguardo dell’autore sul volto della vittima: “Non era una faccia decisa, ma era la faccia di uno che aveva visto tutto e non aveva capito, se non quanto era stato troppo tardi”. Da queste premesse comincia l’indagine del sergente senza nome che e’ soprattutto il viaggio tra un’umanita’ disperata e desolata. Raymond non si affatica dietro prove e indizi, il sergente senza nome affida le sue indagini ai nastri registrati dalla vittima prima di essere uccisa, una sorta di “controcanto” che percorre tutto il libro e diventa un romanzo parallelo e un’invettiva addolorata raccontata in prima persona. La morte costituisce soltanto un epilogo inevitabile: “La questione fondamentale, allora, e’ come morire. Tutti dobbiamo affrontare la morte. Il problema e’ come riuscire a farlo lucidamente, deliberatamente, predisponendo ogni cosa fin quasi all’ultimo istante e registrando tutto”. Un privilegio che alla vittima, simbolo di un’umanita’ smarrita, Raymond non concedera’. (recensioni E MORI’ A OCCHI APERTI) Letto 2255 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||