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LIBRI IN USCITA: MERIDIANOZERO 1/2011

19 Gennaio 2011

Care lettrici e cari lettori,

come vi avevamo anticipato, abbiamo deciso di inaugurare il nuovo anno con una grande uscita di gennaio: l’attesissima autobiografia di Derek Raymond!
Troverete “Stanze nascoste” nelle librerie a partire dal 26 gennaio, nel frattempo vi anticipiamo la quarta di copertina e alcune dichiarazioni dell’autore sul noir e la scrittura, solo un piccolo assaggio per pregustare le sue memorie…

Buona lettura,
La vostra redazione

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STANZE NASCOSTE di Derek Raymond – IN USCITA A FINE GENNAIO

Robin Cook, piu’ noto come Derek Raymond, uno dei piu’ grandi scrittori di noir di tutti i tempi, era in grado di far respirare tra le pagine l’odore vero del sangue e cantare della follia quanto dell’amore. Denso come un liquore, come la paura, come la colpa, come Raymond Chandler, Jim Thompson, David Goodis, Chester Himes, ha regalato al noir un’anima metafisica.
Era nato, come un piccolo principe, tra le lusinghe e i privilegi delle classi alte, il 12 giugno 1931, a Baker Street, a qualche passo dalla casa di Sherlock Holmes. Cresciuto tra Eton e il castello di famiglia nel Kent, avrebbe potuto vedere esaudito ogni suo capriccio.
Ma la Seconda guerra mondiale porto’ via la possibilita’ di essere al contempo innocenti e fortunati. Sotto le bombe la morte era troppo vicina, l’iniquita’ del classismo troppo nuda. Raymond decise di abbandonare la comodita’ e di cercare una nuova casa tra i bordelli, i quartieri maledetti, i bar malfamati e le prigioni dell’Europa. Della Spagna di Franco, dell’Italia liberata, della Francia dei piccoli borghi, abito’ i marciapiedi sporchi di sangue e di malavita, e la terra fertile dei contadini, godendo il piacere del vino e della stanchezza nelle braccia.
Ha fatto ogni lavoro possibile, ha lasciato che la fatica e il bere solcassero il suo viso in un reticolo di rughe aspre come ferite, e’ ritornato a Londra per immergersi nel sottobosco della criminalita’ degli anni ’60; la sua stessa vita e’ stata un noir. Non ha mai avuto un soldo in tasca, nemmeno quando per strada veniva riconosciuto come il grande autore de Il mio nome era Dora Suarez, e ha sempre saputo che la sua essenza era nella scrittura, il noir era il suo modo di tenere la vita nel palmo, come un cuore pulsante, sofferente, disperato.
Cullato dalla nebbia dei campi o braccato dal fumo sporco della citta’, non ha mai smesso di scrivere. La sua autobiografia e’ una grandissima lezione di scrittura, distante anni luce dal freddo intellettualismo. Derek Raymond si conferma un autore vero, che raccoglieva le sue storie dal contatto con la miseria, senza filtri. E trovava la dirompente veemenza dei suoi personaggi in se stesso.

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RAYMOND E IL NOIR

“La funzione del romanzo noir e’ di impedire alla gente di dimenticare l’orrore che regna attorno a noi.” (Derek Raymond)

Che cos’e’ o cosa non e’ il noir?
Derek Raymond: E’ qualcosa che concentra l’attenzione su una certa parte della societa’. O se preferite, su una certa parte della psiche umana, in certe condizioni di pressione sociale. E’ proprio questo quello che intendo. Il risultato e’ noir per forza. Si puo’ vedere questo genere di cose dappertutto. La gente fa finta che non sia reale, e io insisto che e’ reale. E’ noir perche’ e’ molto deprimente. E’ noir nella stessa maniera in cui i romanzi di Emil Zola erano noir.

Ma chi e’ che puo’ aver voglia di leggere di tutto questo sangue e questa violenza?
D.R.: Un sacco di gente, in realta’. Non la borghesia, pero’, con rare eccezioni. Diciamo la verita’: chi e’ invece che vuole leggere un romanzo da middle class? E’ scritto da uno della middle class, che vive in una bella casetta, in una zona signorile, si sveglia ogni mattina, fa colazione, poi va nello studio a lavorare, chiuso nella sua torre d’avorio, prima di andare al club. E non esce mai. Non vede mai il mondo. Questa non e’ letteratura, e’ una pappetta ben confezionata. Lo so che e’ una generalizzazione e non e’ vera in assoluto, ma e’ vera circa per il 90% per gli scrittori inglesi e americani.

Lo pensa davvero? Ci sono scrittori americani di noir che vengono dagli anni ’50 – Thompson, Goodis – ma ce ne sono adesso?
D.R.: Di sicuro i primi romanzi di Ellroy: lui sa com’e’. E’ tornato da scuola quando aveva 14 anni e ha trovato il cadavere di sua madre. Questo gli ha dato una certa scossa, per usare un eufemismo.

Perche’ questa attrazione per la morte?
D.R.: Dietro a ogni maschera di clown, c’e’ sempre un’altra persona, completamente diversa. Io divento un altro quando comincio a scrivere. Non riesco ad abituarmici. Sono un simpaticone nella vita. Non penso mai alla morte. Ma quando comincio a scrivere, scompare tutto per essere sostituito da un altro individuo, o da un altro spirito.

“Il mio nome era Dora Suarez”, e’ una specie di lunga notte, di discesa agli inferi…
D.R.: Suarez… Per tutto il tempo in cui l’ho scritto, non sono stato capace di addormentarmi senza una luce accesa! Non faccia l’errore di confondere il Raymond che ha oggi davanti a lei, cordiale con tutti, pieno di entusiasmo, con l’altro Raymond, l’altro me stesso, quello di Suarez. Non e’ schizoide, e’ complementare. Suarez, il noir come lo intendo io, e’ un po’ come se qualcuno – lei, io – facesse una passeggiata in un giardino pubblico una sera al crepuscolo, e si imbattesse all’improvviso in qualcosa di orribile che lo sgomenta fino al terrore. La catastrofe, la morte. Allora, davanti allo schermo del computer, alla macchina, non resta che una sola cosa da fare: scrivere. Certo, non ci si puo’ immergere a tal punto in una simile esperienza e uscirne incolumi, come si era prima. Non esistono mezze misure.

E’ molto severo con l’Inghilterra…
D.R.: Non l’Inghilterra, la societa’ inglese… questa si’ che non riesco a inquadrarla! Ma mi piacciono molto gli inglesi, i miei cari compatrioti. Certi almeno. Negli ambienti che frequento io. O gente come Francis Bacon, che ho conosciuto un po’… William Shakespeare, eccellente sceneggiatore di noir, Wilkie Collins, Ted Lewis…

Per lei i libri noir sono libri delle classi popolari, o per le classi popolari?
D.R.: Per me sono libri sull’uomo. Gli elementi della natura umana di cui ho gia’ parlato sono presenti in chiunque, a prescindere dalle barriere sociali.

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LE RECENSIONI

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Incubo di strada di Derek Raymond – Euro 13,00
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www mangialibri com, 15.1.11
Kleber, quarant’anni suonati, e’ un detective atipico. Pensa che la morte della sua fidanzata Julie – suicida quand’era adolescente – e del fratello siano ferite aperte impossibili da rimarginare. Come se non bastasse, il suo amico d’infanzia Marc e’ un criminale, l’altra faccia della giustizia che egli, per professione, deve combattere. Cosi’ Kleber considera legge e ordine le fondamenta della convivenza civile, ma con le dovute precisazioni. Precisazioni che non si fanno attendere: dopo aver pestato un ispettore troppo impegnato a prendersi cura delle sue indagini, viene licenziato e, per giunta, proprio per proteggere Marc, gli capita pure di uccidere tre truffatori. Il terzo principio della termodinamica che, come sappiamo, non vale solo per la fisica, e’ la legge della strada – e non e’ certo morbido quando si tratta di omicidi. Alla sua avventata azione, una reazione uguale e contraria e’ pronta a rispondere. Cosi’, tra lui e un potente boss s’innesca una guerra spietata. Il giorno dopo, un’auto esplode. Uccide una ex prostituta polacca, svillaneggiata spesso dai suoi colleghi del comando. Si chiama Elenya, stava salendo in macchina e, oltre a essere la moglie di Kleber, era stata salvata dalla strada. Gli ingredienti della vicenda si arricchiscono di piombo. Kleber dovra’ sopravvivere in mezzo a due fronti contrapposti, una legge non piu’ in grado di difenderlo e i nemici di un tempo ora con le mani libere…
Scritto nel 1988, “Incubo di strada” venne pubblicato dopo la morte di Raymond, avvenuta nel 1994, e arriva ora in Italia: un classico per gli appassionati del genere noir e dalle venature tipiche del polar. Un libro difficilmente digeribile dagli stomaci moderati, appassionati di vite rosee e atmosfere tranquille. Raymond ci va giu’ decisamente pesante, con la storia nera di un’esistenza nera costellata da fatti di cronaca – come ti sbagli – nera. A costo di sembrare un filino insistenti, se proprio dovessimo attribuire un colore a questo stupendo romanzo sarebbe il nero. Punto. L’esistenza stentata di Kleber e’ un continuo confronto con la morte, l’apatia, il vuoto che contraddistingue la propria vita. Eppure (non) in fondo c’e’ qualcosa che sopravvive in Kleber, il desiderio di non portare mai armi con se’, l’estrema comprensione del crimine. Perche’ il crimine non e’ solo cio’ che racconta la Legge. Il crimine si nasconde anche tra le pieghe del perbenismo, dell’indifferenza, di quelle risate dei suoi colleghi volte a sminuire il suo amore per Elenya. “Incubo di strada” e’ quasi una collezione di scene piu’ che un romanzo dalla trama dinamica. Fotogrammi di vite maledette la cui salvezza e’ illuminata da deboli speranze. Le atmosfere ricordano vagamente Conrad e Kafka, ma senza manierismo o tentativi di imitazione. Per il resto c’e’ solo Raymond, duro e puro.
Ettore Brocca

www carmillaonline com, 4.12.10
Piu’ che Parigi come luogo prescelto, e’ la strada evocata nel titolo il vero scenario di “Incubo di strada” di Derek Raymond (pseudonimo di Robert William Arthur Cook), romanzo scritto nel 1988 (tit. orig. “Nightmare in the Street”), inedito in Italia ma gia’ pubblicato in Francia nella serie Thriller di Rivages, ora voluto da Meridiano zero e tradotto da Marco Vicentini. L’autore, morto nel 1994 nella Londra in cui era nato 63 anni prima, e’ sgusciato presto via dal mondo borghese della famiglia e ha viaggiato, tra gli altri posti, in Marocco, Turchia, Italia, arricchendo il curriculum e le esperienze di vita poi confluite nei suoi numerosi libri che gia’ risentivano, in via francese, dall’esistenzialismo di Sartre: Raymond ha riciclato auto in Spagna, e’ stato insegnante di inglese a New York, tassista e trafficante di materiale pornografico.
Hard-boiled ammorbidito da un sentimento purissimo d’amore, “Incubo di strada” racconta appunto l’incubo di Kleber, poliziotto sospeso dagli incarichi, un’esistenza segnata dalla strada e il riscatto nell’amore incarnato da Elenya, prostituta polacca che lui aveva affrancato consacrandola a suo angelo. Ma Kleber e’ devoto all’amicizia, deve restituire un favore all’amico di sempre, il suo codice etico gli impone di non sottrarsi. E qui cominciano i guai, sempre in agguato nelle vie infide, sia che siano ricordi lontani: “Lei aveva paura di tornare per le strade e nei bar in cui si erano incontrati, anche se era il quartiere che preferiva”, sia che si tratti di luoghi ben definiti che restituiscono piu’ cruda la parvenza della minaccia, come boulevard de Se’bastopol. In entrambi i casi, la strada e’ varco per concetti piu’ alti: “La vera miseria si trovava nelle strade, ed era nelle strade che lui la affrontava. Il senso dell’esistenza (se ce n’era uno) aveva cominciato pian piano ad apparirgli chiaro: bisognava identificarsi nell’altro. La necessita’ spingeva sia lui che tutti gli altri verso il peccato: sulla strada era meglio perdere l’anima che digiunare”.
Marilu’ Oliva

iannozzigiuseppe wordpress com, 1.12.10
In “Incubo di strada”, vero e proprio testamento letterario di Derek Raymond, Kleber vive insieme al suo unico amore, Elenya, una ex prostituta che ha strappato al suo protettore. I due si amano d’un amore tanto forte da far male. Derek e’ uno spirito inquieto, la sua vita non e’ stata mai facile. Ogni notte e’ vivere un incubo, un tuffo dentro le mal de vivre: le strade che ha camminato gli hanno insegnato che l’uomo e’ votato all’indifferenza, che in esso non c’e’ traccia alcuna di bonta’ ne’ di spontaneita’, e non da ultimo che Caino e’ un dilettante rispetto agli assassini ai papponi agli spacciatori che brulicano sui boulevard.
Kleber, che ha da poco superato la quarantina, adora la sua giovane moglie, la ama piu’ di se’ stesso e ogni giorno che insieme a lei trascorre si rende conto che la vita non ce lo avrebbe un senso senza di lei. Elenya ha avuto una vita difficile, a quattordici anni il padre ha abusato di lei, e’ stata poi costretta a battere in strada fino a quando non ha incontrato Kleber che si e’ innamorato della sua anima prima che della sua bionda bellezza. La giovane si e’ cosi’ aperta all’uomo confidandogli i suoi trascorsi senza nulla tacere e il poliziotto ha fatto altrettanto.
Potrebbe essere una esistenza felice la loro, ma lui e’ un poliziotto e ogni giorno sbatte il muso contro la violenza delle strade nonche’ contro quella del distretto di polizia. Un giorno viene alle mani con un collega e per questo viene sospeso dal corpo di polizia. Una volta fuori dalla polizia gli ex colleghi diventeranno il nemico insieme alla malavita. Di punto in bianco Kleber si vedra’ spogliato dell’unica ragione della sua esistenza. Inizia cosi’ per lui una inesorabile discesa all’inferno nel tentativo di farsi giustizia da se’.
Derek Raymond da’ sfogo a un testamento letterario, e’ difatti “Incubo di strada” uno degli ultimi lavori del grande scrittore prima di morire nel 1994.
“Incubo di strada” e’ un noir disperato che sin dalle prime righe ci lascia intuire che l’indifferenza e’ il motore che fa muovere la societa’ tutta, sia quella buona sia quella cattiva.
Derek ci introduce in una Parigi fatta di strade, di gente violenta, di gente indifferente, di poliziotti vili violenti e corrotti. Se Leo Malet nella sua famosa trilogia ha disegnato la nera solitudine dell’uomo, Derek Raymond in “Incubo di strada” non gli e’ inferiore per forza espressiva e stile facendo suo un perfetto registro narrativo pericolosamente in bilico fra l’ineluttabilita’ dell’esistenzialismo e le illusioni del romanticismo.
Derek Raymond disegna con profonda tragicita’ la realta’, l’indifferenza che e’ della societa’ nonche’ la sua brutalita’: per un uomo onesto non c’e’ posto ne’ tra chi si dice dalla parte della giustizia ne’ sulle strade territorio della malavita organizzata. Kleber, il protagonista di “Incubo di strada”, non puo’ aspirare all’amore, ne’ puo’ sperare in una qualsivoglia redenzione. C’e’ solo la violenza. C’e’ solo la violenza dell’indifferenza che colpisce duro dritto alla bocca dello stomaco.
Chi ha amato Leo Malet non potra’ non amare il disperato urlo del re del noir, Derek Raymond.
Giuseppe Iannozzi

(recensioni Incubo di strada)

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Una donna di troppo di Carl Hiaasen – Euro 18,00
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cinemadadenuncia splinder com, 29.11.10
Una fredda serata d’aprile, undici in punto. Da uno dei ponti di lusso della nave da crociera Sun Duchess precipita nelle scure acque dell’Atlantico Joey Wheeler Perrone: a scaraventarla in mare, come regalo del loro secondo anniversario di matrimonio, e’ stato l’adorabile marito Chaz. Ma contro ogni previsione la donna non annega: una balla da trenta chili di erba giamaicana prima e un provvidenziale soccorritore poi le salvano la vita. E l’irresistibile desiderio di vendicarsi.

Mi sono arreso. Leggendo e rileggendo il formidabile noir di Carl Hiaasen ho gettato la spugna. Per tutte le 447 pagine di Una donna di troppo (Skinny Dip, il titolo originale significa “fare il bagno nudi”) ho tentato di scovare un punto debole, una smagliatura, un passaggio a vuoto. Inutilmente. Come diavolo avra’ fatto questo giornalista investigativo esperto nei danni procurati all’ambiente dallo sviluppo edilizio a concepire un libro nel quale si saldano senza sforzo componenti vendicative di ascendenza tragica, catastrofi ecologiche scientificamente circostanziate, dinamiche sentimentali di sapore romantico e indagini condotte col sangue freddo di un serpente? E per giunta su un palcoscenico del genere si contendono il ruolo di protagonista ben cinque personaggi: non solo la trentenne “donna di troppo” Joey, ma anche il priapico e paranoico coniuge Chaz, l’eremita cinquantatreenne Mick Stranahan, il detective di origine norvegese Karl Rolvaag e l’ex caposquadra agricolo Tool, un bestione ipertricotico con una testa simile a un blocco di calcestruzzo.
Magie del talento e della prodezza compositiva di un narratore che dipinge con la stessa felicita’ di tocco scenari mozzafiato (la distesa delle Everglades), complessi residenziali di disarmante uniformita’ (West Boca Dunes, Fase II a Boca Raton), isole di corallo a qualche miglio dalle coste della Florida (il buen retiro di Stranahan) ed enormi parchi naturali popolati da polifemici reduci del Vietnam (il Capitano, vero e proprio deus ex machina dell’intera vicenda). Come se non bastasse, quel geniaccio di Hiaasen non perde occasione per condire ogni situazione di un’ironia cosi’ magistrale da strappare risate a ripetizione. Senza tuttavia schiacciare la credibilita’ delle tensioni emotive e la gravita’ delle devastazioni ambientali sotto il rullo compressore del sarcasmo amorale.
La maestria del giornalista nato e cresciuto in Florida e’ semplicemente travolgente: capacita’ di catturare il lettore in un batter d’occhio (sfido chiunque a leggere l’incipit e chiudere il libro), abilita’ nel mantenere alto il ritmo del racconto con guizzanti cambi del punto di vista (i cinque personaggi principali si passano continuamente il testimone della narrazione), varieta’ dei tipi psicologici e dei registri linguistici (ogni segmento e’ permeato dal modo di ragionare e parlare del personaggio che lo guida), inesorabilita’ della progressione drammatica (la strategia punitiva di Joey ha un’implacabilita’ degna di Medea). E un’infinita’ di altri virtuosismi, tra i quali e’ impossibile non menzionare l’inserimento di avvertite parentesi che danno sostanza storica e scientifica allo squilibrio ecologico della Florida meridionale (lo spaventoso inquinamento causato dal massiccio afflusso di fosforo agricolo).
Non scarseggiano ovviamente i riferimenti cinematografici: se Mick Stranahan si diverte a imitare le voci di Charlton Heston e Jerry Lewis, Chaz e’ ossessionato da “Quei bravi ragazzi” e il detective Rolvaag, uomo del Midwest ammiratore di Frances McDormand, sembra uscito direttamente da un’inquadratura di Fargo. A questi rimandi espliciti si aggiunge almeno un’altra sfiziosa allusione cinefila: nel dialogo conclusivo con Rolvaag, Mick chiama i gabbiani “topi con le ali”, quasi le stesse parole con cui nel finale di “Gli amici di Eddie Coyle” vengono definiti i piccioni (“topi volanti”) che infestano Boston. Sornionamente narrato in terza persona, l'”econoir” (o environmental thriller) di Hiaasen lascia ampio spazio alle esilaranti elucubrazioni dei personaggi (soprattutto Chaz e Joey), ma la trovata di gran lunga piu’ gustosa risiede nella singolarita’ di alcuni dialoghi “anfibi” che cominciano sul pelo d’acqua delle parole per immergersi nella mulinante agitazione dei pensieri sommersi (Proprio non saprei, rispose Chaz, pensando: “Ma per chi cazzo mi hai preso? Jacques Cousteau?”). Tanto spigliata quanto rigorosa, considerata l’abbondanza di termini tecnici e floridamente connotati, la traduzione di Luca Conti e Luisa Piussi.
Alessandro Baratti

(recensioni Una donna di troppo)

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Happy – L’incredibile avventura di Keith Richards di Massimo Del Papa – Euro 10,00
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il Secolo d’Italia, 29.11.10
Le parole del blues. Dicono delle cose (E sto correndo alla stazione / a prendere il primo postale che vedo / Lo sento arrivare / Sto correndo alla stazione / a prendere il primo vecchio postale che vedo / Ho i blues per la Signorina Tal dei Tali / e la bambina ha i blues per me), ma cio’ che le rende davvero incisive, coinvolgenti, significative, non e’ mica la storia in se stessa. E’ il modo di attraversarla. Nessuna giocata al risparmio – e se lo fai te ne pentirai amaramente. Nessuna pretesa di trovare delle giustificazioni universali e oggettive. Quello che accade, accade a te. Ituoi desideri mettono a repentaglio il tuo equilibrio. Non e’ vero quello che si dice di solito. Il blues non e’ la musica del diavolo. Il blues e’ la musica dei de’moni. Delle passioni che afferrano l’uomo e lo consegnano al suo destino. Puo’ darsi che finira’ all’inferno, ma non ce l’avra’ attirato chissa’ chi. Ci sara’ arrivato sulle sue gambe. Di buon passo, almeno all’inizio.
Le parole di Keith Richards. Rovesciate in oltre 500 pagine di un’autobiografia che centra il bersaglio fin dal titolo. Life, vita (Feltrinelli). Una miriade di eventi che riguardano una persona specifica, ma che allo stesso tempo rimandano alla forza inspiegabile che ci ha messi al mondo e che ci tiene in movimento. L’unica lezione possibile e’ questa, e guarda caso e’ la lezione fondamentale del rock: nell’esistenza dei piu’ c’e’ uno spaventoso deficit di intensita’ e di significato. L’ordine non e’ un punto di partenza ma un punto di arrivo. E senza intensita’ l’ordine non e’ vero ordine – cioe’ vera armonia – ma proibizione. I ribelli rischiano di morire. I conformisti sono gia’ morti.
La storia di Keith Richards non va necessariamente sottoscritta. Va ascoltata. Se si ama la musica degli Stones, e almeno un po’ se ne conoscono le peripezie, la curiosita’ e’ naturale: quello che nelle interviste o negli articoli e’ emerso in modo frammentario, qui trova finalmente il suo sviluppo completo. E’ la versione di Keith, ovviamente, ma sviscerata al massimo grado. Utile non tanto a stabilire la verita’ ultima, che al massimo puo’ riguardare i fatti e non certo i rapporti reciproci tra piu’ persone, ma a sapere come e’ stata vissuta da uno dei suoi protagonisti. E’ l’equivalente di una lunghissima canzone, in un certo senso. O di un’interminabile presentazione di uno o piu’ brani, durante un concerto.
Basta un piccolo sforzo di immaginazione, del resto. Leggere le pagine e immaginarsi la voce. Questo vecchio ragazzo di quasi 67 anni, che per quante ne ha passate ne dimostra assai di piu’, impegnato a vuotare il sacco. Cominciando esattamente dall’inizio. Dalla nascita a Dartford, nel Kent, il 18 dicembre 1943, e dall’infanzia negli anni durissimi del Dopoguerra. Dalle prime suggestioni musicali di matrice americana, attraverso le preferenze materne per Louis Armstrong, Duke Ellington e Billie Holiday, alla successiva scoperta “sistematica” per il blues e il rhythm and blues: “Vero R&B voglio dire (non quello schifo di Dinah Shore o Brook Benton), Jimmy Reed, Muddy Waters, Chuck, Howlin’ Wolf, John Lee Hooker, tutti i bluesman di Chicago, roba veramente funky, meravigliosa. Bo Diddley, lui e’ un altro grande”.
Una scuola, tutta intuitiva e per nulla concettuale, di risveglio all’energia primigenia. Quando la cultura diventa una gabbia, e la morale una prigione, il primo passo verso la liberta’ e’ tornare all’essenziale. Uno spartito ti impone di suonare quelle note e nessun’altra. Un bluesman, cosi’ come un vero artista folk, spera di aiutarti a comprendere quali note ti appartengono davvero. Life, vita.
Ma non metteteli su un piedistallo. E nemmeno Keith Richards, naturalmente. Dimostrereste solo di non averci capito nulla. L’ultima cosa che uno come lui puo’ apprezzare sono quelli che vanno a rendergli omaggio come fan tremebondi e in solluchero, soggiogati dalla sua straordinaria capacita’ di infrangere qualsiasi regola e di cavarsela sempre. Cavarsela come uomo, essendo sopravvissuto a ogni sorta di abuso a cominciare da quelli con la droga. E cavarsela come personaggio pubblico, avendo non solo mantenuto ma persino ingrandito la sua fama di artista e i riconoscimenti per il suo ruolo all’interno dei Rolling Stones.
Con uno della sua tempra l’approccio deve essere un altro. L’unica possibile intesa, alla larga dalla completa sottomissione o dal totale rifiuto, e’ nel dargli atto che la sua vita e’ la sua. E nel fargli capire che la stessa identica cosa vale per voi. La vostra vita e’ la vostra. Se ne ha voglia siete disposti a offrirgli da bere. O ad accettare una sigaretta. Se ne ha voglia siete pronti a parlare un po’. O anche a starlo a sentire, se ha bisogno di sfogarsi. Ma sia chiaro, Keith: rispetto reciproco, oppure finisce ancora prima di cominciare. Lo sappiamo: ti piace girare armato. Non e’ una novita’. Non e’ un problema. Siediti lo stesso. E quando ne hai abbastanza, bye bye. Riprenderemo un’altra volta, se e’ destino che debba andare cosi’.
Purtroppo per lui, non gli capita spesso. La debolezza degli altri – la debolezza che rende insinceri, non tanto in quello che si dice ma in come ci si comporta, nei confronti non tanto degli altri quanto di se stessi – lo ha reso piu’ schivo e anarcoide di quanto avrebbe potuto essere, forse, in altre circostanze. “Oscuro e vitale, dionisiaco ma essenziale – scrive Massimo Del Papa nel suo ottimo “Happy” (Meridiano zero) – Keith e’ certamente autodistruttivo ma mai vittimistico, un romantico che tiene a bada l’esistenzialismo e il nichilismo: non conosce l’apocalittica nausea del vivere, tutt’altro, divora ogni giorno con fame inesausta. Ben piantato nella mitologia che lo riguarda, ma anche in grado di scrivere e di cantare un brano autobiografico, e autoironico fin dal titolo, come “Before They Make Me Run”.
Me la spasso fin che posso, sono Keith il Terribile fino a che non mi faranno rigare dritto.”
Come recita l’adagio – fin troppo citato – “quando il saggio indica la luna lo sciocco guarda il dito”. Ma in questo caso non c’e’ nessun saggio e nessuna luna. Solo quella mano segnata dal tempo e dagli eccessi, che non ha paura di nascondersi e dice tutto anche solo cosi’. Dice: dateci dentro a costo di farvi male. Scoprite il vostro blues. Non rinnegatelo mai.
Federico Zamboni

(recensioni Happy – L’incredibile avventura di Keith Richards)

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Il vento del Texas di James Reasoner – Euro 13,50
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www stradanove net, 10.11.10
Opera in nero
Il Texas non e’ un paese per vecchi. O almeno non lo e’ piu’. Se ne rende conto l’investigatore privato Cody, classico eroe romantico dalla carriera non sempre impeccabile ma dalle inconfondibili stigmate del buono(onesta’, incorruttibilita’, senso dell’onore, fedelta’), chiamato ad indagare sulla scomparsa della giovane Mandy, figlia di un ricco uomo d’affari e cantante in un trio che si esibiva in alcuni locali della zona.
Una fuga d’amore con Jeff, il chitarrista del gruppo? Difficile crederlo, anche perche’ le strade presto iniziano a sporcarsi di sangue, gangster spietati entrano in scena e il vortice di morti, mezze verita’, tranelli, pestaggi e sorprese portera’ a rivelazioni non del tutto inaspettata ma dure da accettare. Soprattutto per un cowboy dal cuore puro come Cody.
Libro di culto dalla vita editoriale travagliata (pubblicato in pochissime copie – subito esaurite – nel 1980 e scomparso dalle librerie sino al 2004 a causa del fallimento della sua casa editrice, solo oggi arriva ai lettori italiani grazie al sempre prezioso lavoro della Meridiano zero), “Il vento del Texas” di James Reasoner (scrittore capace nella sua carriera di sfornare centinaia di opere dei generi piu’ diversi, dal western all’hard boiled, dal romanzo storico al saggio) e’ un melodramma a tinte nere in cui amore e morte giocano sullo stesso tavolo, un’opera satura di echi chandleriani, dialoghi perfetti e strizzatine d’occhio alla grande tradizione noir americana.
Indimenticabile la figura di Cody, un Marlowe senza piu’ certezze, a disagio in un mondo e una societa’ che sente lontani e sbagliati, legato malinconicamente a un passato i cui contorni risultano sempre piu’ sbiaditi.
Un classico ritrovato.
Giovanni Scalambra

(recensioni Il vento del Texas)

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L’apprendista di Gordon Houghton – Euro 15,00
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www riccardocaldara net, 2.11.10
“Contratto Standard. Patto di resurrezione standard, legalmente vincolante per l’Agenzia e per il deceduto……, denominato d’ora in avanti il Deceduto. L’Agenzia accetta di assumere il Deceduto come agente apprendista per un periodo di prova di giorni sette. Si offre assunzione garantita, protezione, vitto e alloggio. In cambio il Deceduto perdera’ i suoi diritti d’interramento e rimarra’ proprieta’ dell’Agenzia. Se il periodo di prova sara’ superato gli verra’ offerto un incarico a tempo indeterminato. In caso contrario il Deceduto dovra’ scegliere una terminazione da una breve lista.”
La sintesi della vicenda narrata da Gordon Houghton e’ in queste poche righe. Il protagonista del romanzo viene risvegliato dal sonno eterno nientemeno che dalla Morte. Il ragazzo e’ stato sorteggiato per fare da aiutante per una settimana ai quattro Cavalieri dell’Apocalisse (gli altri sono Carestia, Guerra e Pestilenza). Si tratta di assistere dei viventi che stanno andando a terminazione attraverso modalita’ diverse. Il suo status e’ di fatto quello di zombie, che gli consente di fare quasi tutto cio’ che fanno i viventi. Compreso ripensare alla propria vita, dal rapporto con i genitori alle relazioni piu’ significative fino agli ultimi drammatici istanti. La settimana di prova scorre velocemente tra una terminazione e l’altra, alternando periodi di riposo in agenzia durante i quali Carestia pasteggia davanti a un piatto vuoto, Pestilenza prova su di se’ nuove malattie e Guerra scatena continue risse. Giunto al termine del periodo di prova, non superato, il ragazzo e’ recalcitrante: preferirebbe lo status perenne di zombie piuttosto di rientrare nella bara. Morte gli concede di giocarsi il suo futuro con un una partita a scacchi.
“L’apprendista” e’ un divertente romanzo macabro, una sorta di “gothic novel” in grado di generare anche riflessioni esistenziali, che per quanto mi riguarda sono state amplificate dalla lettura nella settimana che conduce alle ricorrenze di inizio novembre.
Pubblicato nel 2010 da Meridiano zero, ma scritto nel 1999 da questo narratore inglese ‘classe 1965?.
Riccardo Caldara

(recensioni L’apprendista)

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Anche i poeti uccidono – Victor Gischler – Euro 15,00
La gabbia delle scimmie – Victor Gischler – Euro 10,00
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bookshighway blogspot com, 2.12.10
Nelle paludi dove i Mudcrutch si sono formati, poi sciolti e poi ricostruiti, non c’e’ margine di trattativa. Un ambiente suburbano fatto di locali di infima categoria, (pessimi e pericolosi) rock’n’roll show (Tom Petty, appunto, si e’ costruito una reputazione laggiu’), quartieri anonimi, bar dove la vita si ripete all’infinito. La distanza tra Gainesville e Orlando, Florida dove modelli diversi di bande (quelle di Victor Gischler) affilano ben altra esperienza si misura in un paio di centinaia di chilometri, ma si tratta pur sempre della stessa, disperata geografia. L’humus ideale in cui Charlie Swift, protagonista della “Gabbia delle scimmie”, deve far fronte ad un travolgente susseguirsi di inganni, errori e altri misfatti che portano, neanche a dirlo, lui e tutti i disperati come lui a trovarsi dalla parte sbagliata di una pistola. In realta’ non e’ nemmeno facile capire quale sia quella giusta anche se Charlie Swift detto anche il Sarto rimane fedele fino in fondo al suo boss e alla sua limitatissima visione dell’esistenza e del “lavoro”: “Ero abituato a lavorare con una certa professionalita’, io. Forse per questo preferivo lavorare da solo. O forse era perche’ non mi piaceva la gente”. E’ il capitano che affonda con la nave e rimane in prima linea fino all’ultimo cadavere, sempre nella speranza che non sia il suo, ma la sua coerenza e’ unica e, agli occhi di tutti gli altri, anche fuori posto. La trama e’ spessa e contorta proprio perche’ tra doppi e tripli giochi, agenti infiltrati e traditori, pasticci e impiastri vari (come ricorda qualcuno: “il marcio e’ dappertutto”) e’ difficile tenere il conto, ma a tutti gli effetti non e’ neanche necessario. Charlie Swift deve far sparire una persona e per un veterano del suo calibro dovrebbe essere ordinaria amministrazione. Pero’ si dimentica qualcosa, o forse e’ troppo tempo che fa lo stesso lavoro e la storia comincia a prendere una piega imprevedibile e piena di incognite: le armi si accendono e non si spengono piu’. Gia’ dopo le prime pagine ci si trova invischiati in una lunga teoria di omicidi, sparatorie, torture, tutto il vocabolario piu’ efferato delle gang malavitose e quindi si va giu’ duro con pistole e fucili sempre caldi e abbondanti, che Victor Gischler descrive e maneggia con cognizione di causa in calibri, manovre e (devastanti) effetti finali. Non si tratta di un elemento secondario perche’ come ama dire Charlie Swift, se c’e’ qualcosa di importante sono “i dettagli. Questo distingue i professionisti dai coglioni qualunque. I dettagli”. Nella “Gabbia delle scimmie” e’ difficile trovarne uno fuori posto, tanto che, piu’ che un romanzo, sembra gia’ un film: frulla fotogrammi di Sam Peckinpah, Martin Scorsese e Quentin Tarantino in un’ipotetica e passionale carrellata sulla storia dei gangster movie. Univoco in questo senso perche’ il ritmo forsennato non risparmia nessuno, inchioda il lettore alle pagine dall’inizio alla fine non concede lo spazio per altre considerazioni, nemmeno per rifiniture di stile o deviazioni di percorso. Una macchina infernale che stritola tutti i cliche’ e i luoghi comuni delle storie noir e/o hard-boiled in una centrifuga che funziona a pura adrenalina. Come se gia’ fosse un film.
Marco Denti

(recensioni Anche i poeti uccidono)
(recensioni La gabbia delle scimmie)


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1 commento

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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart