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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LIBRI IN USCITA: MERIDIANOZERO 12/2011

26 Maggio 2011

Care lettrici e cari lettori,

vi ringraziamo per essere accorsi numerosi al nostro stand durante il Salone del Libro a Torino, e grazie per aver partecipato con entusiasmo ai nostri spumeggianti happy hours!
A maggio in libreria Meridiano zero vi aspetta con il sensuale e provocatorio romanzo di Christine Leunens, “Uomini da mangiare”. La giovane scrittrice con “Uomini da mangiare” ha raggiunto il successo. Per anni ha allevato cavalli in un magnifico ranch in Piccardia continuando a scrivere per il teatro in inglese e francese. E’ stata premiata per le sue opere dal Centre National du Cine’ma e ha da poco ceduto a Taika Cohen i diritti cinematografici del suo toccante romanzo “Come semi d’autunno”, uscito in Italia sempre per Meridiano zero. Attualmente vive in Nuova Zelanda.
Altra uscita da non perdere è la nuova edizione di “Real Life” di Christopher Brookmyre, uno dei nostri neri più adrenalinici e amati che finalmente potrete ritrovare sugli scaffali.

Buona lettura,
La vostra redazione

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LE NOVITA’ IN LIBRERIA:

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Uomini da mangiare di Christine Leunens – Euro 13
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Una bambina che detesta mangiare e con una vera e propria fobia per la carne, scopre nell’adolescenza il profondo legame tra il desiderio del piacere e il cibo e l’irresistibile tentazione di cui sono portatori entrambi. Una storia divertente e immaginifica, una commedia tra sessualità e gola costruita con un linguaggio ricco e ironico capace di manipolare le metafore in modo incredibilmente fantasioso.

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Real Life di Christopher Brookmyre – Euro 14
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Lo Spirito nero è un assassino spietato e mercenario, autore di agghiaccianti attentati che paralizzano intere nazioni. Sta preparando un’azione nel Regno Unito che farà dimenticare ogni precedente attacco terroristico. Il bersaglio è ancora sconosciuto ma i servizi segreti tengono sotto controllo tutti i bersagli esistenti. Fra i componenti della squadra speciale che viene approntata d’urgenza c’è Angelique De Xavia, letale nelle arti marziali, unica donna in una task force solo maschile, che ha una sua idea sul possibile obiettivo…

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Missione in Alaska di Mykle Hansen – Euro 13
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Marv e’ un manager egocentrico, sessista e superficiale: una persona veramente insopportabile. Marv nel bel mezzo di una battuta di caccia in Alaska si trova bloccato sotto il suo SUV, mentre un orso gli azzanna un piede. E cosi’ Marv rimane solo con i suoi adorati antidolorifici, pronto a riversare sul lettore la sua irritante visione del mondo…

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Dia de los muertos di Kent Harrington – Euro 14
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Duro e disperato, Vincent Calhoun, agente della DEA, e’ l’eroe maledetto che accetta l’ultima scommessa. A Tijuana, terra di confine, sotto un sole torrido, ha gia’ perso molto: la fiducia, l’onesta’, e montagne di dollari alle corse dei cani. E’ diventato un senza legge, un coyote che trasporta illegalmente clandestini negli Stati Uniti. Ora e’ convinto di aver avuto la dritta giusta, di avere in tasca la scommessa vincente. Per la possibilita’ di ricostruirsi la vita con la donna dei suoi sogni. Ma forse si sbaglia.

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LE RECENSIONI

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Missione in Alaska di Mykle Hansen – Euro 13
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cinemadadenuncia splinder com, 23.4.11

Responsabile della Divisione Immagine della compagnia Wilson & Saunders, Marv Pushkin è intrappolato sotto la sua adorata Range Rover, crollatagli addosso mentre stava cambiando una ruota. E un orso dell’Alaska sta banchettando con i suoi piedi.
“La natura è una spina nel fianco dell’umanità” ringhia un maciullato Marv Pushkin nel cuore dell’Alaska. E ne ha ben donde, considerato che il suo rassicurante mondo hi-tech lo ha piantato in asso proprio sul più bello, in pieno viaggio-premio con Divisione Immagine al seguito. Una piccola caccia all’orso che il rampante Marv intendeva sfruttare per sbarazzarsi della lagnosa e grassa moglie Edna, ma che la natura matrigna si è divertita a ritorcegli contro. Famelicamente.
Immobilizzato dal suo imponente SUV, Marv può fare affidamento sollo su una cospicua scorta di antidolorifici, psicofarmaci e pillole di natura imprecisata: “Non ho la minima idea di cosa siano, ma devono essere efficaci, altrimenti non avrei dato cinquanta dollari a quell’air guitaristcanadese tutto brufoli in quel vicolo di Vancouver”. Nel frattempo i suoi inconcludenti subordinati, compresa l’amante Marcia del Controllo Prodotti, lo lasciano macerare lì sotto quasi una settimana, mentre un fetido orso nero dell’Alaska gli sgranocchia allegramente le gambe.
Eppure Marv non si perde d’animo. Anestetizzato da dosi equine di OxySufnix, il manager della Wilson & Saunders di Seattle non è certo tipo da abbattersi per così poco: “io sono uno che vede sempre l’aspetto positivo delle cose, sono per il Pensiero Positivo, io. Un vincente!”. Allergico al disfattismo e all’ecologismo, Marv fa tesoro dell’esperienza che sta vivendo per pianificare oculate strategie di miglioramento: “Promemoria per me stesso: far bombardare l’Alaska con armi nucleari”. Come dargli torto? La fredda e inospitale landa in cui si trova schienato è al di sotto di ogni ragionevole proporzione di civiltà: una regione talmente arretrata da rendere inutilizzabile persino il cellulare.
In 156 pagine Mykle Hansen – scrittore, performer e musicista – si accanisce con ferina crudeltà sul cliché del dirigente prevaricatore e arrogante, sottoponendolo a una lenta e gustosissima tortura che lo intacca fisicamente e psichicamente, fino a menomarlo in modo irreparabile nel corpo e nello spirito. Pubblicato in America nel 2008 e spassosamente tradotto da Francesco Francis, “Help! A Bear Is eating Me!” (questo il titolo originale di “Missione in Alaska”) descrive in incosciente, allucinata prima persona la nemesi della natura su un sacerdote del neocapitalismo, un individuo euforicamente alienato che porta alle estreme, esiziali conseguenze la logica del benessere perseguito irresponsabilmente: “Cosa posso farci? Non sarei così ossessionato dai soldi se non ci fossero tante belle cose in vendita. La colpa è della società”. Un irsuto pamphlet sotto forma di grottesco, manicomiale divertissement.
Alessandro Baratti

lideablog wordpress com, 3.5.11

Marv Pushkin e’ il classico capo che non vorreste mai avere ma che, per la ferrea Legge di Murphy, di solito vi beccate. In due parole: un megaminchione. Marv Pushkin e’ rozzo, ignorante, avido, materialista, arrivista, leccaculo, senzapalle, sessuomane, maschilista, razzista, inquinatore, menefreghista. Insomma, il classico capo, il classico povero scemo che non sa fare altro che tappezzare di saliva le chiappe dei suoi superiori i quali, appartenendo alla stessa razza, non trovano di meglio da fare che promuoverlo ogni anno, facendogli rapidamente scalare il vertice dell’azienda che, un giorno, si accorgono andare male e, porco boia, e’ la crisi, cazzo, la crisi.
“Ma oh, come gira il mondo! Mentre Edna diventava sempre piu’ noiosa, io diventavo sempre piu’ forte, tanto che oggi ho raggiunto i gradini alti della piramide, sono gia’ in vista della vetta, e profumatamente stipendiato. Ah, quello che posso comprare, oggi! Le cose migliori, e in gran quantita’. La mia Rover. I miei bei vestiti. Il mio lussuoso condominio a Bainbridge. Le mie armi. I miei porno. Le mutandine di pelliccia per Marcia. Budweiser a vagonate, chilometri di Slim Jim.” Non conoscete nessuno cosi’, vero?
Agli americani piace tanto fare queste cazzate dei lavori di gruppo, le escursioni in alta montagna o i corsi di sopravvivenza in cui l’apoteosi del ridicolo e’ rappresentata dall’attraversamento del ponte di corde in stile Fantozzi, con sotto il ragionier Filini a tenere il materasso in caso di caduta. Il tutto al fine di favorire il lavoro di squadra, l’affiatamento del team cosi’ da produrre sempre di piu’ e sempre meglio. Marv, con il suo gruppo, dedicato al marketing e all’immagine dell’azienda, si ritrova nel boschi dell’Alaska proprio a causa di una di queste gite da quarta liceo all’estero, una di quelle in cui non si fa altro che sbevazzare come dei coglioni credendo che cosi’ le ragazze la smolleranno prima. La ricca azienda di Marv e’ pero’ un po’ piu’ spendacciona della scuola italiana, tanto da potersi pure permettere dei viaggi di (d)istruzione che quale portata principale hanno la caccia all’orso con dei Remington a palle con punta cava.
Ma, come a volte succede al toro con il torero nell’arena, e’ l’orso a segnare il primo punto sul tabellone. Certo, il fatto che Marv fori con il suo mega Range Rover e rimanga bloccato sotto di esso, perche’ la casa di costruzione ha risparmiato sulla solidita’ dei crick, incide molto sull’equilibrio della partita uomo versus natura, ma le regole ci sono per essere infrante, no? Inizia cosi’ un incubo fatto di freddo, orsi e sogni erotici insoddisfatti che stravolgeranno per sempre la banale vita di un fottuto individualista qualunque.
Ho letto “Missione in Alaska” un po’ per caso. Mi scrive un giorno il miglior ufficio stampa del mondo, Matteo Strukul della Meridiano Zero, dicendomi che e’ in uscita ‘sto libro qua di Mykle Hansen. Mai sentito. Mi leggo la scheda stampa e storco il naso: mmm, socio, non so, non mi convince tanto. Mi risponde il boss di Strukul, Marco Vicentini, e vengo a sapere che questa roba qui si chiama “bizarro fiction”, offrendomi il pdf per darci un occhio e vedere se la cosa acchiappa. Altrimenti pazienza e amici come prima. Beh, la cosa acchiappa fin dalle prime righe, perche’ e’ impossibile resistere al libro politicamente piu’ scorretto che abbia avuto la ventura di leggere negli ultimi anni.
La narrazione in prima persona tramite il punto di vista di Marv Pushkin, l’essere spregevole di cui ho scritto sopra, trasporta letteralmente il lettore dentro la testa bacata di un soggetto di cui il mondo e’ pieno, anche se nessuno, neppure la persona in grado del massimo dell’autocritica, riconoscerebbe di assomigliare. Perche’ la natura e’ bella ed e’ buona, gli orsetti sono tutti come Knut, l’orso bianco dello zoo di Berlino diventato una icona internazionale, e io no, io vado in bicicletta e non faccio neanche le puzzette per non incrementare il metano nell’atmosfera causa del riscaldamento globale. Marv, finalmente, la fa fuori dal vaso e non se ne vergogna: “La natura e’ una spina nel fianco dell’umanita’. Il tempo della natura e’ ormai passato, e io la odio, questa natura del cazzo. Laodiolaodiolaodio. Quando torno a casa giuro che eliminero’ ogni traccia di natura dalla mia vita, a cominciare da Wagner”. E per scoprire chi e’ Wagner leggetevi il romanzo.
Hansen, ovviamente, scrive un libro al contrario e proprio questo contrario potrebbe essere la cifra migliore per definire cosa sia la “bizarro fiction”, un espediente narrativo surreale e fuori di testa per parlare, all’opposto, di cose tremendamente serie, tanto che se dovessi pensare a un analogo artistico mi verrebbero subito in mente i quadri con le “cose fuori posto” di Magritte. Il genere usato in “Missione in Alaska” e’ sicuramente affine alla satira di maggiore qualita’, alle poesie di Pasquino appese sulle porte della chiese di Roma o alle opere utopiche di scrittori e filosofi come Tommaso Campanella o Tommaso Moro. Si ribalta il punto di vista e invece di un polpettone moralista e bolso si fa ricorso all’ironia e all’intelligenza piu’ tagliente, attuandosi quasi una dimostrazione per assurdo, la cui efficacia e’ nota a chiunque abbia sudato sette camicie nello studiare, che ne so, il teorema delle rette parallele nella geometria euclidea.
Mykle Hansen da’ vita, per fortuna solo cartacea, al protagonista letterario piu’ spregevole degli anni Duemila, una schifezza umana che ci fa godere come dei ricci ad ogni morso dell’orso o a ogni sventura che gli capita. Ben gli sta. Tie’. E pero’ il messaggio di Hansen e’ di una lucidita’ disarmante, denunciando in maniera tanto semplice quanto efficace uno stile di vita, mica cosi’ raro, fatto di individualismo e di arrivismo. Vabbe’, il vostro blogger preferito poi la pensa a modo suo, crede che non ci si realizzi nel lavoro, a meno che il lavoro che facciate non sia la vostra passione, ma allora e’ un “lavoro ma non solo” e siete anche le persone piu’ fortunate del mondo. Per tutti gli altri, invece, si va in ufficio per lo stesso motivo per cui cento anni fa, forse meno, si andava tutte le mattine nei campi. E basta. Ma non si puo’ avere come scopo della propria vita il fare carriera, il fare soldi. Soldi per che cosa, poi? Per imbottigliarsi tre settimane d’estate su una autostrada e rosolarsi come dentro un branco di trichechi in una spiaggia di Riccione? Ma sono scelte e, seppur non condividendole e criticandole, le rispetto. Ognuno faccia un po’ come gli pare. Ma permettetemi di sbellicarmi quando uno come Mykle Hansen, con il suo “Missione in Alaska”, prende per il culo questi morti che credono di vivere.
Andrea Pelfini

(recensioni Missione in Alaska)

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Notte di sangue a Coyote Crossing di Victor Gischler – Euro 14,00
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nonsolonoir, 23.3.11

Sotto di me, la Harley si risveglio’ con un ruggito. Udii i latrati furibondi di Lucifero, sul retro della casa. Fottiti, cagnaccio. Imboccai il vialetto a velocita’ sostenuta e mi parve di essere seduto su un missile. Il vento nei capelli. Mi sentivo come un essere mitologico, con quel brontolio tra le gambe: sembrava di cavalcare un terremoto…
Coyote Crossing, Oklahoma, oggi.
Toby Sawyer e’ un giovane aiuto sceriffo precario e con contratto part-time, e, come se non bastasse, colleghi e popolazione non hanno alcuna fiducia in lui, non gli riconoscono alcuna autorita’.
Ma a casa, nel vecchio trailer ereditato dalla mamma defunta, Sawyer ha una moglie e un figlio neonato, e, dato che non ha altre prospettive di lavoro, e’ ben deciso a cambiare le cose.
L’occasione gli e’ offerta dal misterioso furto del cadavere del piccolo delinquente Luke Jordan; un cadavere che, secondo gli ordini del capo della polizia (nonche’ sceriffo) Krueger, proprio lui, Sawyer, avrebbe dovuto sorvegliare.
Deciso a recuperare la salma prima del ritorno del boss, l’aiuto sceriffo fronteggia, nel corso di una lunghissima, infernale notte di violenza, i fratelli Jordan – informati della morte di Luke, armati fino ai denti e assetati di vendetta – e una banda di pericolosi messicani, ritrovandosi, in fine, a indagare su una serie di loschi traffici.
Come avra’ occasione di verificare, marcio e corruzione hanno intaccato la “ridente” Coyote Crossing molto piu’ a fondo di quanto visitatori occasionali o cittadini distratti non siano disposti a credere…
Scritto con la consueta lingua (1) rapidissima, dura e asciutta (ma non per questo meno evocativa o inadatta a produrre effetti compresi in una gamma che va dalla riuscita, sottile ironia, all’aperta comicita’), con la solita, gischleriana irriverenza, con il classico citazionismo post-moderno (2), con gli usuali, sboccati, impagabili dialoghi, “Notte di sangue a Coyote Crossing”, terzo romanzo di Victor Gischler proposto ai lettori italiani da Meridiano zero (3) e’ esattamente cio’ che lo strillo di copertina (targato Don Winslow) promette: “Una splendida miscela di western e noir”.
E se questa definizione evoca alla mente degli appassionati del genere il Jim Thompson di Colpo di spugna, c’e’ da dire che Gischler tratta la ricetta (a dir poco classica) con gusto del tutto personale, e il risultato ricorda piuttosto – anche se l’associazione, tenendo conto di tutte le differenze legate non solo ad ambientazione e intreccio, ma anche alle singole scelte narrative, e’ difficilmente motivabile – il Willeford della serie di Hoke Mosley.
Narrato in prima persona dalla voce di Toby Sawyer, al passato remoto e in regime di focalizzazione interna, senza l’uso di stratagemmi quali parallassi, omissioni ecc., “Notte di sangue a Coyote Crossing”, che si trova a poggiare solo su un’invidiabile linearita’ e su una ritmica furiosa, e’ il perfetto romanzo d’azione in salsa western.
Degni di nota, come al solito (non e’ un caso che Gischler si stia imponendo come maestro del pulp contemporaneo) personaggi – tanto eccessivi quanto credibili – e ambientazioni – appena tratteggiate eppure cosi’ precise sotto gli occhi del lettore.
E’ bello vedere che, al di fuori di un panorama letterario nazionale che ha la presunzione di essere raffinato, sfaccettato e cosmopolita, ma che in realta’ e’ tanto stagnante e provinciale da sentirsi periodicamente in dovere di proporre ipocrisie istituzionalizzate camuffate da “correnti letterarie” (sia detto senza offesa per chi credeva nel post noir) e tanto retrivo da non saper abbandonare il falso concetto di “alta letteratura”, c’e’ ancora chi si propone (“s’accontenta” diranno forse i detrattori) di scrivere (magari non “solo” ma “anche”) per intrattenere, sa come farlo e lo fa.
E non resta che sperare che i lettori – magari attratti dai reiterati e calorosi inviti di Joe Lansdale – s’affaccino all’opera di Gischler e riconoscano la differenza.
“Notte di sangue a Coyote Crossing” e’ edito in Italia da Meridiano Zero.
(1) Magistralmente resa, come di consueto, dall’inarrestabile Luca Conti.
(2) Si vedano, per esempio, il chopper della citazione d’apertura, immancabile strizzata d’occhio all’ormai abusatissimo “Pulp Fiction” e la scena della fuga con fucile in spalla e bambino in braccio, troppo vicina a una delle sequenze piu’ note di “Hard Boiled” di John Woo per essere semplicemente casuale.
(3) I precedenti “La gabbia delle scimmie” e “Anche i poeti uccidono” sono usciti rispettivamente nel 2008 e nel 2010.
Fabrizio Fulio-Bragoni

www sugarpulp it 2, 21.4.11

Per cominciare, lasciatemi subito confessare un paio di cose: la prima e’ che quando devo parlare di Victor Gischler provo sempre un’emozione speciale, e chi segue le barbabietole da zucchero fin dalla prima ora sa bene il perché. La seconda e’ che dei tre romanzi dell’autore di Baton Rouge pubblicati in Italia da Meridiano Zero e tradotti magistralmente da Luca Conti, “Notte di sangue a Coyote Crossing” e’ quello che in tutta onesta’, mi ha fatto godere di piu’.
Se infatti nelle precedenti opere lo scrittore della Louisiana ci aveva gia’ mostrato la sua grande abilita’ narrativa in chiave pulp, qui mette nel suo magico shaker due generi che adoro, il noir e il western, ricavandone un cocktail entusiasmante e imprevedibile, fatto di velocita’ adrenalinica e suspense da una parte, e di grande epica dall’altro.
“Notte di sangue a Coyote Crossing” e’ un romanzo dove ogni riga e’ frutto di un grande talento di storyteller e di una scrittura sempre spinta al massimo, nella quale Gischler dimostra una straordinaria leggerezza oltre ad una incredibile capacita’ di passare con fluidita’ da un genere all’altro creando un eccellente crossover: noir e western per l’appunto, ma anche black comedy, splatter, thriller.
E’ pero’ una storia che parte in sordina, quella che vede come protagonista Toby Sawyer, “deputy sheriff” di Frank Krueger. Siamo a Coyote Crossing, una contea posta nel nulla piu’ assoluto del Sooner State, come gli yankees chiamano l’Oklahoma. A differenza del mito western classico pero’, qui la frontiera non rappresenta affatto sogno, speranza, opportunita’ di vita migliore, bensi’ totale isolamento e abbandono.
In questo luogo sperduto, caratterizzato e rappresentato perfettamente nell’architettura e nella geografia umana che si muove avanti e indietro lungo la sua Main street, non succede mai nulla e tutto scorre placidamente fino a quando, una notte di piena estate, accade il fatto che da’ il via all’incredibile escalation di inseguimenti, colpi di scena, fughe, morti, sparatorie.
Il fatto in questione e’ l’uccisione di Luke Jordan, bifolco strafottente che dalla sua ha una famiglia molto vendicativa che non tardera’ molto a farsi viva dopo il suo assassinio. La situazione pero’ precipita di brutto quando inspiegabilmente il cadavere di Luke Jordan scompare e Toby Sawyer, che oltretutto avrebbe dovuto vegliare sul suo cadavere, viene ritenuto responsabile della sua morte.
E’ esattamente qui che ha inizio quella che l’editore italiano ha scelto di utilizzare come titolo, quella “Notte di sangue a Coyote Crossing” che sembra non finire mai, una notte diabolica, incandescente, folle, totalmente fuori di testa.
Una notte durante la quale, in un crescendo straordinario di emozioni, succede davvero tutto e il contrario di tutto e l’intreccio narrativo procede con una scrittura sempre piu’ sicura del fatto suo, fulminea, esilarante, epica, in un susseguirsi di scene d’azione febbrili e dialoghi sempre ben congegnati e calibrati. Per non parlare della precisa caratterizzazione dei personaggi e di quelle suggestioni rurali che personalmente amo e che emergono nette e forti dalle descrizioni selvagge del paesaggio sperduto nel quale e’ ambientata la vicenda.
Insomma, fidatevi: una lettura imprescindibile sia per chi ha amato i primi due libri di Gischler sia per chi non l’ha mai letto in vita sua.
Parola di barbabietola.
Matteo Righetto

(recensioni Notte di sangue a Coyote Crossing)

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Il vangelo della scimmia di Christopher Wilson – euro 13
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www scanner it, 9.5.11

Una giocosa allegoria mordace
Come la tradizione inglese ci insegna in letteratura, non puo’ mai mancare un distacco ironico, ma soprattutto un humour tipicamente britannico nel raccontare questo mondo deformato dalle sue leggi morali e da una sana stupidita’ umana. Con “Il vangelo della scimmia”, Meridiano Zero, promuove in Italia un talento come Christopher Wilson totalmente sconosciuto da noi, ma che ha dalla sua una notevole capacita’ di scrittura, come si rileva da questa giocosa allegoria mordace. Nel diciottesimo secolo in una sperduta isola a largo dell’Inghilterra, la quiete cittadina degli abitanti viene interrotta da una nave da guerra che si arena sugli scogli. Unica sopravvissuta e’ Maria, la scimmietta intima amica del cuoco di bordo, che indossa un gilet e alcuni monili. La scimmia inizia ad esplorare questo nuovo territorio, e si imbatte nei pittoreschi abitanti del posto, che non avendo mai visto questo animale, lo scambiano per uno strano e peloso straniero. Dall’ottuso governatore dell’isola all’intellettuale che dall’alto dei suoi cinque libri letti, decide dopo aver studiato l’animale, che non puo’ trattarsi d’altro che di un francese, si passa al mercante che vede nello straniero un futuro matrimoniale per sua figlia ancora zitella, fino a Vera la pazza del villaggio, ognuno di loro vede a modo suo la diversita’, conservatrice e ottusa nella sua modalita’ di pensiero. Scritto nel lontano 1986, “Il vangelo della scimmia”, disegna un mondo che assomiglia a quello attuale, chiuso mentalmente, rozzo e cattivo, che non cerca di comprendere chi e’ diverso da loro, ma ne rimangono semplicemente affascinanti, e allo stesso tempo distanti nel loro bisogno personale di rimanere una comunita’ chiusa e tranquilla, quindi pronta al sacrificio per ripristinare l’ordine precedente nelle sue regole prestabilite. Una storia graffiante e arguta nello smontare i preconcetti di una esistenza regolamentata da un ordine mentale conservatore, che ancora oggi resiste e non cessa di scomparire. Ci attendiamo di scoprire pian piano le altre opere di questo autore inglese, vera sorpresa di questo inizio d’anno.
Matteo Merli

www thrillermagazine it, 4.5.11

“Il vangelo della scimmia” (Meridiano Zero, titolo originario “Gallimauf’s Gospel”, con un’ottima traduzione di Luigi Cojazzi), di Christopher Wilson – autore londinese con un dottorato in Psicologia dell’umorismo – e’ una divertente, amara, caustica satira sulle realta’ stantie, razziste e ombelicocentriche di ogni epoca. Qui siamo nel diciottesimo secolo – anche se il tempo pare cristallizzato in un passato rarefatto, modulato sui contorni di un oscurantismo dal sapore medievale -, nell’isola britannica di Iffe. La popolazione che vi abita e’ incartapecorita in convenzioni, consuetudini, mentalita’ chiuse e classi sociali stagnanti. La diversita’ e’ bandita, cosi’ ad esempio accade a Vera, la pazza del luogo, l’idiota del villaggio, che, mentre la comunita’ si assiepa nella messa, se ne sta “impudicamente stravaccata, con le gambe aperte al vento e alla pioggia, sulla scalinata di granito della chiesa”. Il reverendo l’ha bandita dalla chiesa e non la vuole mentre officia “in preda a un crescendo frenetico”. Non si tratta di un reverendo candidissimo: attratto dalla giovane Cordelia, ne immagina gambe, curve e pelurie mentre salda nella predica i suoi pilastri reazionari: “Jahve’ ha posto i maiali al di sopra dei polli, e i cavalli al di sopra dei maiali. A ciascuno ha assegnato una posizione nell’ordine del creato.(…) Jahve’ ha voluto che ci fossero lord e braccianti: resti pertanto ognuno al suo posto e se ne accontenti”.
Conservatori e bigotti, questi impettiti abitanti sono cosi’ ripiegati su se stessi che hanno fatto dell’ignoranza il loro paravento al mondo: ed ecco che, quando una scimmia scampata a un naufragio approda sull’isola, subito viene scambiata per un francese un po’ alternativo. La situazione e’ surreale, ma il lettore ci si abitua senza fatica tant’e’ bravo lo scrittore a rendere credibile l’inserimento sociale di questo nuovo animale-personaggio: i suoi versi e i suoi comportamenti poco consoni all’etichetta vengono scambiati per eccentricita’ (non indossa pantaloni e salta, com’e’ ovvio, sugli alberi), i cimeli aurei portati addosso con volgarita’ vengono considerati vestigia di una ricchezza che non esiste. Ne approfitta Hogg, il mercante dell’isola, deciso a sistemare la figlia Cordelia offrendogliela in sposa. Ma Dalla scimmia e’ attratto anche Gallimauf, “uomo di studi e medico” che si vanta di possedere “ben cinque libri” e inonda l’ignaro quadrupede di monologhi deliranti dal vago sapore semiotico-filosofico, ma poi si scioglie in tumulto di eccitazione e stordimento quando lo stesso gli slingua nell’orecchio.
Ne succederanno delle belle, fidatevi, in un mondo in cui le uniche creature che davvero seguono la loro natura – e che per cio’ rispondono maggiormente alla nostra idea di normalita’ – sono Vera la Pazza e la scimmia, nonche’ due galeotti. Ma non vi dico che fine faranno…
Marilu’ Oliva

(recensioni Il vangelo della scimmia)

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Stanze nascoste di Derek Raymond – Euro 16,00
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il manifesto, 30.4.11

Ritratto di Derek Raymond di cui e’ uscita l’autobiografia atipica “Stanze nascoste” da Meridiano zero. La sua lingua modellata sui mille dialetti londinesi indaga il mondo degli esclusi nelle loro derive criminali e si confronta con il mistero di cio’ che e’ oltre la vita.

“Interrotto dalla vecchia, venuta a vedere che cosa stava succedendo nella stanza accanto mentre doveva ancora terminare con la ragazza, l’assassino le salto’ addosso senza una parola, la sollevo’ come se fosse un sacco dell’immondizia e le fece sfondare la pendola accanto alla porta dell’ingresso, con una forza che neanche lui sapeva di avere. Non avrebbe potuto fare di meglio, constato’: era morta sul colpo.” Con questo terrificante incipit, nell’anno di grazia 1990, Derek Raymond gettava i lettori – perfino quelli avvezzi alle piu’ cupe varianti del noir – nell’incubo di “Il mio nome era Dora Suarez”, guadagnandosi in via definitiva i galloni di maestro del crime, se non del romanzo contemporaneo tout court. Un incubo che, in un crescendo che sembra non fermarsi davanti ad alcuna profanazione e brutalita’, ci immerge progressivamente nella mente di un “assassino senza perche’ “, e insieme in quella dell’uomo chiamato a dargli la caccia: l’anonimo sergente che fa da protagonista all’intero ciclo della Factory, di cui Dora Suarez e’ il quarto capitolo, e al quale resta legata la fama dell’autore. Ma soprattutto, ci immerge nella mente della vittima (il cui nome, non a caso, da’ il titolo al romanzo), nei suoi sogni infranti, nella sua lenta deriva verso la morte, con una partecipazione romantica e totalizzante che non ha eguali nel noir contemporaneo e sembra rimandare direttamente ai maestri piu’ maledetti del genere: Jim Thompson, Cornell Woolrich ma soprattutto il David Goodis di “Sparate sul pianista” o di “La ragazza di Cassidy”.

Una dichiarazione di poetica
L’anonimo sergente della Factory lavora, non a caso, alla sezione Delitti irrisolti, nella quale, per usare le sue stesse parole in “Aprile e’ il piu’ crudele dei mesi” (forse, dopo Dora Suarez, il romanzo piu’ bello della serie), ci si occupa “solo di quei casi le cui vittime sono state dichiarate in alto loco come trascurabili, prive di interesse per la stampa, senza agganci importanti o collegamenti con la grande criminalita’”. Vite perdute, dunque, bruciate nelle strade di una Londra mai cosi’ sporca e vera, nei pub e nei locali equivoci. Strappate e avvolte in un silenzio cui il sergente vuole sottrarle, interrogandole fino a quando non torneranno a parlare, e con piena dignita’, direttamente dalla morte. “Come vivono i morti” e’ lo splendido titolo del terzo romanzo del ciclo della Factory: un ossimoro che e’ una vera e propria, condensata dichiarazione di poetica. Ora, pero’, della poetica di Raymond, come del suo percorso umano, e’ possibile sapere molto di piu’ attraverso “Stanze nascoste”, l’autobiografia atipica che Meridiano Zero, suo editore storico, ha mandato alle stampe nell’ottima traduzione di Federica Alba e Pamela Cologna, e che Raymond scrisse all’indomani di Dora Suarez, quasi per liberarsi dal peso inumano sostenuto nei diciotto mesi che gli erano stati necessari per completare il suo capolavoro.

Moventi per una teoria
Lo sforzo compositivo, il dolore quasi fisico sofferto dallo scrittore per calarsi alle radici del male e riscattarne le vittime, risuona in molte delle pagine di “Stanze nascoste”, e offre il destro a una serie di riflessioni teoriche sul noir che lasciano decisamente il segno, costringendo chi legga ad abbandonare le prospettive un po’ asfittiche della teoria dei generi e a guardare alla narrativa definita di volta in volta poliziesca, crime, noir da una prospettiva differente e piu’ libera. Nella poetica di Raymond, il noir e’ letteratura insieme sociale e metafisica. Sociale perche’ prende le mosse dalla constatazione delle profonde diseguaglianze che contraddistinguono l’Inghilterra contemporanea e della scollatura perfino linguistica tra le classi dominanti e la vasta umanita’ che vaga senza meta per le vie e i locali della Londra piu’ nascosta, in un misto inestricabile di disperazione e vitalismo. E da questa constatazione muove per investigare proprio il mondo degli esclusi, in tutte le sue derive criminali, senza traccia di moralismi ma anche senza condiscendenze. Il noir e’ pero’ anche metafisica, perche’ si confronta incessantemente con il mistero della morte, con cio’ che e’ oltre la vita e fuori dal dominio dei sensi: e confrontandosi con la morte la interroga incessantemente, e non conosce pace finche’ non ottiene risposta. In Dora Suarez, la scoperta e la punizione del colpevole occupa le ultime pagine del romanzo, ma somiglia piu’ che altro alla coda necessaria di un percorso che ci ha portati altrove, e da un corpo martoriato e smembrato ha ricostruito e nobilitato un’identita’. Per usare le parole dello stesso Raymond, in “Stanze nascoste”: “Il romanzo e’ come un lamento funebre, che insorge contro la morte imposta prematuramente a un individuo.” E ancora: “Dora Suarez e’ stato un viaggio di diciotto mesi durante il quale il mondo della luce era solo un miraggio lontano, ma comunque sufficiente per me e Dora per trovare il modo di tornare indietro, di uscire dal labirinto. Nel mio viaggio ho lasciato il mondo per la pagina e la pagina per l’inferno, con la speranza che il ritorno fosse possibile. Sono tornato. Mi sono fatto strada in un luogo oscuro e ho acceso una luce nel buio di un altro, riemergendone con la consapevolezza che l’agonia di Dora tra le anime perdute e’ finita. La squallida atrocita’ della sua morte se n’e’ andata e ora e’ libera dalle catene, non e’ piu’ perduta e sola – e’ sfuggita alla dannazione eterna”. E’ questa dimensione insieme metafisica e romantica a rappresentare il vero, grande contributo di Raymond al noir e alla letteratura, e a consentirgli di prendere le distanze dal puro sociologismo di denuncia nel quale e’ incappato molto noir contemporaneo, per immergersi in un abisso che ci guarda e al quale siamo perennemente tentati di sfuggire. Questa chiave, l’immersione nella realta’ degradata di Londra che domina incontrastata nei romanzi della Factory, rappresenta soltanto il primo passo di una lunga deriva, che coinvolge personalmente l’autore e lo induce a fare i conti con il lato piu’ oscuro della sua stessa anima. Se il viaggio all’inferno di Dora Suarez e’ cosi’ devastante, per Raymond come per chi lo legge, e’ proprio perche’ tuffarsi “in quella terra di mezzo dove si incontrano i vivi e i morti” significa scoprire una vocazione al male che esiste in ciascuno (nello scrittore prima di tutto), e che nel viaggio stesso va bruciata assaporandone fino in fondo i rischi e le potenziali conseguenze. Nessuno poteva esserne piu’ consapevole di Derek Raymond, nato con il nome di Robin Cook da una ricchissima famiglia inglese, cresciuto tra Londra e il castello avito del Kent, iscritto al prestigioso college di Eton, culla dell’aristocrazia britannica, e da tutto cio’ fuggito per immergersi nella vita di strada, in una lunga peregrinazione che lo ha portato in Italia, Spagna, Marocco, negli Stati Uniti e poi di nuovo a Londra, come braccio destro di un boss della mala locale, e ancora in Francia, suo luogo di elezione (anche) culturale e letteraria. Il rifiuto di una vita di privilegi coincide con la vocazione poetica e la alimenta attraverso le esperienze accumulate sulla strada, fino a confluire in una lingua straordinariamente mobile e poetica, modellata sui mille dialetti della capitale, e in trame nelle quali la brutalita’ e la violenza non sono mai gratuite, ma funzionali a un progetto di riscatto che passa attraverso la narrazione. La fuga dalla classica “vita da ricchi” – evocata in tutta la sua infelicita’ nei primi, splendidi capitoli dell’autobiografia – non conduce a un’illusoria felicita’; non c’e’ traccia di idealizzazione nel racconto degli “anni perduti” di Raymond, che vengono ricostruiti per lampi e singoli episodi, alternati a riflessioni sulla letteratura e sulla propria missione di scrittore. Senza ombra di maledettismo, Raymond guarda alle sue esperienze come precondizioni per poter scrivere autentici noir e prendere le distanze dai rassicuranti polizieschi a’ la Agatha Christie (un autentico idolo polemico). L’invito quasi hemingwayano a scrivere di cio’ che si conosce in presa diretta e’ corretto dall’afflato metafisico, dal continuo impegno a violare il confine tra la vita e la morte, o a trasformare la scrittura nel terreno intermedio in cui i vivi e gli estinti possano dialogare. Da qui la vicinanza – dichiarata a piu’ riprese dallo stesso Raymond – all’esistenzialismo francese, a Kafka e insieme ai “grandi folli” del noir americano, che proprio in Francia, e pour cause, si sono trasformati in oggetti di culto mentre il loro paese d’origine li spingeva con disinvoltura nel dimenticatoio; ma anche a una tradizione tutta inglese che, dalla poesia di guerra di Wilfred Owen, passando per l’Eliot di Prufrock e della “Terra desolata”, arriva fino a Orwell e alle sue allucinate distopie.

Un testamento ante litteram
Attraverso una genealogia letteraria cosi’ insolita e insieme illuminante, nella quale al giallo classico (tradizionalmente considerato contiguo al noir) subentrano come vicini di casa la letteratura di guerra, Sartre, Camus e Orwell, e’ possibile leggere con un altro occhio e un altro spirito i romanzi di Raymond; magari affiancando alla serie della Factory, e alle pagine piu’ belle e dolenti di “Stanze nascoste”, un libro meravigliosamente slabbrato e incompiuto come “Incubo di strada”, che Meridiano Zero ha dato alle stampe lo scorso anno e che il traduttore e fondatore della casa editrice, Marco Vicentini, ha salutato non a torto come una sorta di testamento letterario ante litteram. Nel protagonista Kleber, poliziotto alla deriva in una Parigi piovosa e notturna, e nella sua disperata storia d’amore con Elenya, una prostituta immigrata dall’Europa dell’est, Raymond sembra aver voluto mettere in scena il suo stesso percorso di scrittore, e la sua ricerca di un riscatto che riguarda se stesso non meno dei personaggi che popolano le sue storie. Autobiografia, romanzo sociale, metafisica: una miscela rara, che fa di Derek Raymond, al di la’ di qualunque etichetta di genere, uno dei piu’ grandi scrittori inglesi del secondo ‘900.
Luca Briasco

(recensioni Stanze nascoste)


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1 commento

  1. Commento by Mozelle — 7 Agosto 2013 @ 08:43

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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
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