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LIBRI IN USCITA: MERIDIANOZERO 2/2011

19 Febbraio 2011

questo febbraio le news Meridiano zero sono due: l’apprezzamento che sta riscuotendo l’autobiografia di Derek Raymond, “Stanze nascoste†(invitiamo tutti i gli amanti del noir a non farselo scappare!) e l’anticipazione della nuova uscita del mese, “Il vangelo della scimmia†di Christopher Wilson, di cui sentirete ancora parlare. Ecco allora presentati in breve i due libri e un estratto di Raymond per stuzzicare la vostra curiosita’.
Ultima news di servizio: tutti i lettori di Modena (ma anche tutta Italia, se vogliono venire) sono invitati a incontrare la casa editrice alla Fiera del libro Buk Modena, il 19 e il 20 febbraio.

Buona lettura,
La vostra redazione

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LE NOVITA’ IN LIBRERIA

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Stanze nascoste di Derek Raymond – euro 16
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Derek Raymond, uno dei piu’ grandi scrittori di noir di tutti i tempi, nasce tra le lusinghe e i privilegi delle classi alte. Ma ben presto Raymond abbandona le comodita’ per abbracciare un’esistenza fatta di malavita, fatica e alcol. Attraverso l’Europa, tra i quartieri malfamati, le prigioni, e le terre fertili dei contadini, senza mai un soldo in tasca, con la sua scrittura tiene nel palmo il cuore pulsante e sofferente della vita.

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“Il vangelo della scimmia” di Christopher Wilson – euro 13
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Diciottesimo secolo. Una violenta tempesta fa naufragare una nave in cui viaggia una scimmia, portafortuna dei marinai, nei pressi di un’isola remota al largo dell’Inghilterra, su cui non approda uno straniero da generazioni. Gli abitanti hanno creato il loro sistema chiuso di certezze che la scimmia fa precipitare nel caos.

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UN ESTRATTO da “Stanze nascoste” di Derek Raymond

Parlando di bombardamenti, quella del 1944 fu un’estate terribile. Stavo a Eton da un mese. La odiavo gia’, e l’odio era gia’ reciproco. Per giunta, una domenica di giugno camminavo per Agar’s Plough che, al di la’ di quello che puo’ suggerire il suo nome pomposo, era un campo immenso, una specie di mar dei Sargassi, diviso a meta’ da un viale alberato.
Una bomba V1 apparve all’improvviso, come succedeva di continuo. Questi affari erano velivoli senza pilota riempiti di esplosivo che i tedeschi lanciavano dai siti occupati in Europa. Mi era sembrato di sentirla arrivare, ma la guerra andava avanti da cosi’ tanto tempo che nessuno ci faceva piu’ caso a meno che non fossero davvero vicine e volassero basse. Tutto andava bene finche’ ne sentivi il motore: significava che ti avrebbe superato e sarebbe caduta su qualche altro poveraccio. Comunque, quando spunto’ alle mie spalle c’ero solo io – Agar’s Plough credo fosse circa millecinquecento metri quadri. Quando il motore si spense, e succedeva all’improvviso, sapevo che sarebbe scesa in picchiata e che sarebbe caduta da un momento all’altro. Poteva cadere molto lontano, e allora non mi sarebbe successo niente, oppure no. Era uno di quei congegni che i tedeschi non avevano perfezionato, e Dio solo sa cosa ci faceva di domenica pomeriggio a Agar’s Plough – probabilmente era destinato a Londra, che era a soli trenta chilometri. Ma in ogni modo quella dannata cosa era li’, proprio su di me e riuscivo a vederne l’ombra aguzza, a forma di croce, che scivolava sull’erba.
Avevo una paura matta. Non c’era nessun riparo tranne la siepe lungo la strada Windsor-Slough, ma era a cinquecento metri e non avevo nessuna possibilita’ di raggiungerla prima che la bomba cadesse. Eppure cominciai a correre lo stesso verso la siepe, anche se ricordo di aver pensato: “Che diavolo me ne faccio di una siepe se anche riesco ad arrivarci?”. Non era come ripararsi perche’ si e’ inquadrati nel mirino di qualcuno. Correvo solo per istinto verso la salvezza, anche se era una salvezza immaginaria. Ma la siepe sembrava non avvicinarsi mai, cosi’ alla fine mi buttai per terra di faccia con le mani dietro alla testa.
Mi ando’ bene. La bomba continuo’ a planare, perse quota e arrivo’ oltre la siepe dalla parte che da’ su Slough prima di precipitare con un movimento rapido e sinistro e di esplodere, troppo distante anche solo per coprirmi di terra.
Ma mi si era rovinato il cilindro che, come sottolineo’ con rabbia mio padre quando me ne pago’ uno nuovo, aveva solo un mese di vita. Sarebbe stato il momento giusto per fargli notare che in guerra sporcarsi i vestiti e’ il meno, ma purtroppo non mi venne in mente.

La scrittura noir puo’ sembrare nuova ma non lo e’. E’ la prosecuzione della letteratura della paura e del dubbio, e risale per lo meno a Shakespeare. Sembra nuova solo perche’ e’ mancata per molto tempo. Ed e’ mancata perche’ la letteratura ha subito il destino della religione, e’ stata considerata stupida, logora e ormai insipida, in questo decennio in cui i ricchi non ne hanno bisogno (tranne nel fine settimana, quando cercano di scriverla), gli illetterati non la capiscono e chi potrebbe esserne avvinto non puo’ permettersela.
Per molto tempo cio’ che passava per noir e’ rimasto ben saldo nelle mani di un branco di vecchi signori attaccati ai soldi, che scrivevano libri per la borghesia, che hanno ridotto il crudo orrore della morte innaturale, e le ragioni sociali altrettanto crude che la provocano, a una versione commerciale del nascondino. Come un burattinaio convinto che il suo piccolo spettacolo sia grande teatro, queste persone fanno sembrare la morte rassicurante come una tata seduta accanto al camino nella stanza dei bambini. L’assassinio di una vita nelle loro mani somiglia a una farsa recitata dietro le mura di cinta del castello. L’odio e la violenza sono stati ridotti alla tranquilla melodia di un pianoforte che accompagna una canzoncina per bambini e il risultato peggiore si puo’ vedere nei gialli polizieschi, i cui autori hanno deciso che la realta’ e’ troppo brutta per il lettore.
Questi borghesi letterati hanno fatto al genere indicibili danni, usurpandolo e inquinandolo come lo zio di Amleto lordo’ la Danimarca. Stringendo tra braccia polverose un lavoro cosi’ serio, hanno gettato il noir nelle tiepide acque della narrativa d’evasione.
Il danno causato al noir e’ una parte del danno che abbiamo creato all’onesta’ in generale; mi sarebbe piaciuto dare una copia di Dieci piccoli indiani a Shakespeare, senza dubbio il piu’ grande scrittore di noir, e guardare la sua espressione non appena avesse cominciato a leggere.
Settant’anni fa c’era sicuramente una buona ragione per evadere dalla realta’. Il pubblico dei lettori voleva dimenticare gli orrori della guerra, e questo ha incoraggiato quell’atmosfera rassicurante di cui gli scrittori superficiali hanno bisogno per proteggersi dal vento aspro della realta’.
La classe media inglese, che tiene ancora in pugno la nostra letteratura e la critica editoriale, ha il talento di saper sostituire la realta’ con un surrogato. Ma le manca il soffio creativo per fare di questi esperimenti commerciali qualcosa che dura nel tempo.
E cosi’ L’assassinio di Roger Ackroyd ha rimpiazzato in modo permanente Poe e Wilkie Collins, seguito poi dall’indagine poliziesca. Il risultato deprimente e’ che il terreno su cui morte, polizia e societa’ si incontrano e’ stato reso inoffensivo. Ne’ il lettore ne’ i personaggi hanno sofferto per essere stati tagliati fuori: il lettore perche’ non credeva comunque in quello che leggeva, i personaggi perche’ non avevano mai avuto alcuna pretesa di esistere.
Dopotutto, perche’ si scrivono libri? Si e’ fatta strada la convinzione errata che sia per raccontare una storia, mentre chiunque abbia letto la vera letteratura sa perfettamente che e’ per raccontare la verita’.

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LE RECENSIONI

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Stanze nascoste di Derek Raymond – Euro 16,00
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il Giornale, 15.1.11

Il piccolo lord che invento’ la “metafisica” del thriller
In “Stanze nascoste” lo scrittore inglese autore di geniali romanzi noir racconta le vicende della propria vita sospesa tra ricchezza e gang di strada
Ci sono scrittori che scelgono il noir perche’ sono stati avvocati e giornalisti, altri che lo fanno perche’ sono stati poliziotti, altri ancora perche’ per anni hanno militato dall’altra parte della barricata come criminali. Derek Raymond (1931-94) confessava invece di averlo scelto perche’ “e’ una parte della metafisica. Nel noir ho cercato di applicare la mia primitiva conoscenza della metafisica direttamente alla strada – pornografia, prostituzione, frode e crimine, poverta’, violenza, disperazione, scontri con la polizia. Per me il noir e’ diventato vitale perche’ da un lato corrisponde a quello che ho vissuto e dall’altro mi ha fatto vivere il piu’ netto contrasto con il modo in cui sono cresciuto”. E per scoprire i segreti oscuri che hanno portato lo scrittore inglese (autore di romanzi cult come “E mori’ a occhi aperti”, “Il mio nome era Dora Suarez” e “Incubo di strada”, editi da Meridiano Zero) a intraprendere con le sue opere la costruzione di una “metafisica del noir” e’ fondamentale la lettura di Stanze nascoste, in libreria dal prossimo 28 gennaio sempre da Meridiano zero. Un libro che non fa sconti ne’ con la vita ne’ con la letteratura e che per molti versi e’ paragonabile al percorso effettuato da James Ellroy con “I miei luoghi oscuri”.
Stanze nascoste (scritto nel 1991) non fa nulla per venire incontro al lettore, ne’ nello stile ne’ nella narrazione, ma mette a nudo in maniera abrasiva l’universo in cui visse Derek Raymond (all’anagrafe Robert William Arthur Cook). Non c’e’ nulla di spettacolare o di morboso, nelle vicende personali che ci racconta Raymond, in quanto l’autore non vuole apparire ai lettori un eroe o un maledetto, ma semplicemente un uomo che ha scelto di vivere intensamente. Per Raymond scrivere storie noir non e’ un modo per tranquillizzare gli animi borghesi, bensi’ un viaggio all’inferno capace di impedire a chi legge e a chi scrive di trasformarsi in un assassino. L’orrore di certe situazioni puo’ essere raccontato soltanto da chi le ha vissute e ne e’ testimone. E Raymond in prima persona sa di che cosa parla. Lui che fece il riparatore di tetti, ma che si occupo’ anche di riciclaggio di auto; che per anni fu tassista notturno a Londra in alcuni dei luoghi piu’ malfamati della citta’; che accetto’ di trafficare in materiale pornografico, ma che divenne anche uno dei migliori collaboratori della famigerata gang dei Krays nel periodo in cui fioriva il gioco clandestino in Inghilterra.
Raymond avrebbe potuto tranquillamente evitare i pericoli della strada, visto che veniva da una famiglia ricca (il caso volle che nascesse in Baker Street, a pochi isolati dalla casa natale di Sherlock Holmes) e che era stato educato nella prestigiosissima scuola di Eton (la stessa che avrebbe cordialmente odiato anche George Orwell). Ma la strada lo reclamava e cosi’ non resistette a quel richiamo. Del resto aveva rischiato di uccidere a fucilate un bambino come lui unicamente perche’ aveva sconfinato nel terreno di famiglia… Come poteva scegliere una vita da Piccolo Lord un ragazzo che aveva visto la madre annullata progressivamente dall’alcool e che si era sentito rimproverato da suo padre per aver lacerato il cappello a cilindro proprio il giorno in cui era scampato miracolosamente a un bombardamento tedesco? Il piccolo Robert William Arthur aveva pianto calde lacrime per la scomparsa dello zio, morto a bordo di un sommergibile esploso durante la Seconda Guerra Mondiale, e per la nonna morta nella neve mentre bussava a una porta con le nocche ormai scarnificate a sangue davanti a una casa disabitata da tempo.
Un ragazzo ribelle come lui non si sentiva a casa nel luogo protetto scelto dal padre, dove piu’ di una volta aveva pensato di suicidarsi buttandosi dalla finestra. L’unico suo antenato per cui per tutta la vita mostro’ rispetto era un ussaro che aveva partecipato alla carica della battaglia di Balaclava sfidando la morte ma soprattutto l’ignoto.
Stanze nascoste non e’ pero’ soltanto un percorso tortuoso e frammentato attraverso le vicende autobiografiche che portarono alla fuga di Raymond dall’Inghilterra verso le strade, talora criminali, di Francia, Spagna e Italia. E’ soprattutto e’ il suo testamento letterario, il suo personale manuale di vita e di scrittura in cui cerca di spiegare al lettore le sue passioni per maestri come Gogol’, Babel’, Poe, Collins, Dostoevskij, Shakespeare. Un’arguta serie di lezioni in cui racconta, piu’ che la genesi di opere come Incubo di strada e Il mio nome era Dora Suarez, le motivazioni etiche per cui secondo lui il noir costituisce una possibile cura al malessere della vita, dimostrando in maniera inconfutabile che la letteratura non imita la realta’, ma ne e’ bensi’ cruda testimonianza.
“Lo scopo del noir – disse – e’ mostrare tutta la merda che lo Stato, come una vecchia domestica isterica, cerca costantemente di nascondere sotto il tappeto. Il noir solleva il tappeto davanti al maggior numero di gente possibile dicendo: “Non pensate anche voi che qua sotto ci sia una gran puzza di merda?””.
Luca Crovi

(recensioni Stanze nascoste)

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Incubo di strada di Derek Raymond – Euro 13,00
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lideablog wordpress com, 1.2.11

Con Derek Raymond il noir assume nuove sfumature mentre la voce dello scrittore inglese si alza potente e sorda in una societa’ conformista e troppo concentrata sul proprio ombelico. A Raymond Agatha Christie e compagnia, gli scrittori per cui i morti ammazzati altri non erano che pretesti, che scintille scatenanti, che occasioni per consentire al Poirot di turno di dare sfoggio della sua intelligenza, questi scrittori, dicevamo, gli sono sempre stati sulle palle. Raymond sa che la consolazione non e’ di questa vita, che “Dio e’ povero, disperato e ricercato dai creditori” e che se esiste un’etica nella scrittura questa consiste non nel consolare i lettori dando loro risposte, bensi’ scuoterli da dentro facendo loro porre domande, sbattendo sotto il naso della borghesia imbellettata la lordura da lei prodotta. Sono le vittime i protagonisti dell’opera noir di Derek Raymond.
“Incubo di strada” non fa eccezione. Se l’attacco e’ tipicamente poliziesco – un detective un po’ troppo focoso viene sbattuto fuori dalla polizia per aver riempito di cazzotti un superiore testa di cazzo, ritrovandosi a dover fare i conti con i delinquenti che ha danneggiato e che ora, senza piu’ la protezione della divisa, vogliono fargli saldare il conto – ben presto il romanzo vira verso la riflessioni psicologica e introspettiva trasformandosi, senza neanche accorgersene, in una magnifica, struggente e tragica storia d’amor perduto. Kleber, il protagonista del libro, doveva essere su quella macchina fatta saltare in aria dal boss del quartiere. E invece a rimetterci le penne e’ la sua adorata Elenya, una ex prostituta con cui il poliziotto ha iniziato anni prima una storia d’amore tanto tenera quanto disperata a causa del passato di entrambi. Kleber ci prova anche a scovare il boss, a rendergli la pariglia e a vendicarsi di un odio cieco e violento, ma, all’opposto, “Incubo di strada” scorre via come un tentativo di metabolizzare il dolore della perdita dell’amata attraverso il suo costante ricordo, mediante il continuare a sentirla viva, a parlarle, a volerla stringere come solo poche sere prima.
E’ incredibile trovare in questo autore, uno scrittore fortemente concentrato sulla denuncia sociale e quindi, necessariamente, sulla realta’ quotidiana e materiale, cosi’ tanti accenti metafisici, psicologici e a tratti addirittura religiosi. Raymond non sta dentro o fuori il cerchio delle certezze, bensi’ si posiziona li’ sul confine dei dubbi e delle domande senza risposta: “Era convinto che, cercando i criminali, alla fine si trovasse Dio, e infatti erano entrambi senza pieta’. Dio, proprio come i criminali, era sempre latitante, era brutale… dopotutto l’umanita’ non aveva sempre adorato delle bestie? Ah, l’intelligenza – pensava che, se solo fosse riuscito a trovarla, lui si’ che avrebbe saputo cosa farne”. In questa frase, forse, e’ racchiuso gran parte del significato di tutta la letteratura di Raymond: Dio non esiste o se c’e’ e’ un latitante, uno alla stregua di un banale ladruncolo di strada. Ma non posso fare a meno di continuare a cercarlo, perche’ io faccio questo, metto in galera i criminali, ripetera’ come un mantra il Kleber/Raymond piu’ volte durante l’intero romanzo. Credere o non credere sono posizioni consolatorie, pari ai libri della tradizione del giallo classico, con l’assassino che non puo’ farla franca. Ma Raymond complica tutto: crede di non credere o non crede di credere. E’ tutto un gran casino e gli algoritmi, qui, non funzionano per un cazzo di niente.
“Incubo di strada” e’ un noir che regge il proprio architrave sull’amore, un sentimento che alla fine della storia rimane l’unica cosa che conta veramente, tanto che se san Agostino poteva affermare che “alla fine del giorno saremo giudicati sull’amore”, Raymond sembra riprendere questa riflessione manomettendola a tal punto da accenderla di una vena insostenibilmente tragica, tanto da farla diventare un epitaffio con cui chiudere il proprio cerchio: “E cosi’, dopotutto, c’era ancora un po’ d’amore sulla terra”. Il peggiore dei pessimisti si rivela essere, al suo ultimo stadio, il piu’ inguaribile degli ottimisti. Raymond ha fatto tutto il giro e finche’ anche un briciolo di amore rimarra’ su questa polverosa terra, beh, si potra’ andare ancora avanti con un poco di speranza. Anche per questo, credo, Marco Vicentini, editore e traduttore dello scrittore inglese, ha definito questo “Incubo di strada”, “una vera e propria elegia”. La prosa si fa poesia, il pessimismo ottimismo, la tragedia speranza, la separazione unione. E tutto perche’ Raymond si posiziona sul confine, ha la possibilita’ di comportarsi da funambolo sopra la corda tesa delle certezze consolatorie ponendosi in una prospettiva capace di guardare cose vecchie con occhi nuovi, nonostante lo sconcerto di scoprire che mentre il proprio amore muore “la gente continuava a giocare a tennis, curare il giardino, tagliare l’erba, andare in banca, fumare il sigaro, bere whisky e raccontare pettegolezzi”.
Ma porsi domande, cercare senza trovare sapendo di non trovare richiede un costo e, infatti, Kleber e’ un emarginato, uno senza amici, una persona non rispettabile, caricando questo termine con tutto il suo peso di conformismo sociale che si porta appresso. Alla fine “Ma perche’? si chiedeva. Perche’ aveva dovuto essere un uomo cosi’ complicato e intelligente, che si arrovellava sul significato della vita e della morte, quando tanta gente egoista e senza scrupoli non si poneva il minimo problema?”. E la risposta e’ gia’ li’, nella domanda: perche’ aveva dovuto essere un uomo. Punto.
Andrea Pelfini

(recensioni Incubo di strada)

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Una donna di troppo di Carl Hiaasen – Euro 18,00
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Pegasus descending , 19.1.11

Mentre leggevo “Una donna di troppo”, nuovo lavoro “italiano” di Carl Hiaasen, il dubbio m’e’ anche venuto: che il Chaz Perrone del romanzo, un biologo cazzaro come pochi e con una particolare predilezione per i dollaroni sonanti, sia uno dei tanti esperti interpellati dall’OMS in merito alla pandemia influenzale, suina, SARS e compagnia? Poi mi sono risposto che no, il Perrone di Hiaasen e’ troppo coglione per riuscire ad architettare una truffa di portata mondiale capace di fottere alle tasche pubbliche, e cioe’ le nostre, miliardi e miliardi di inutili vaccini che ora se ne stanno li’ a fare la muffa. E i dipendenti delle case farmaceutiche, intanto, hanno pure gli studi con piscina, massaggiatrice thailandese, pista per fare snowboard e cinquantadue mensilita’ annue.
Perche’ Chaz Perrone e’ un essere spregevole, uno che dovrebbe starmi sulle palle come pochi perche’ e’ totalmente antitetico a tutto cio’ che ritengo importante: essere invece che apparire, rispettare la natura, fare il proprio dovere nel proprio piccolo, rimanere attivi culturalmente e intellettualmente, guardare con curiosita’ all’enorme e magnifico mondo – e universo – che ci circonda. Ah, si’, anche non cercare di ammazzare la propria moglie gettandola dal parapetto di una nave da crociera che, seppur io non sia mai stato in crociera e me ne guardo bene, mi dicono essere piuttosto alto. Ma alla fine proprio non mi riesce di prendere Perrone e farne uno dei personaggi letterari piu’ spregevoli e odiosi della storia del romanzo, perche’ il gia’ citato dottor Perrone – ci tiene al titolo. L’ha comprato con gran sudore – e’, all’opposto, uno di quei personaggi che piu’ mi hanno fatto cappottare dalle risate negli ultimi tempi.
La comicita’ di Hiaasen, che forse sarebbe meglio chiamare umorismo, e’ infatti sempre di grana molto fine, e’ costantemente miscelata all’interno di una storia lunga, complessa e sfaccettata, ma capace di emergere con una tale semplicita’ e spontaneita’ da rendere la lettura di un tomo di quasi cinquecento pagine cosa che piu’ lieve non si potrebbe. Perrone, infatti, ce la mette davvero tutta per fare fuori la sua bella moglie Joey affogandola nelle acqua dell’Oceano Atlantico. Peccato, pero’, che Chaz abbia anche saltato quella lezione, all’universita’, in cui si parlava della Corrente del Golfo, della sua intensita’, stagionalita’, direzione etc. Altrimenti avrebbe forse fatto meglio i suoi calcoli e la moglie sarebbe veramente morta affogata oppure avrebbe fatto da aperitivo per gli squali che abitano quelle acque. Joey, tra l’altro ex nuotatrice durante gli anni del college, resiste per ore, fino a quando non va a sbattere contro una balla di marijuana abbandonata da qualche narcotrafficante messicano o colombiano in fuga dalla DEA. E viene ripescata dal solitario e molto macho Mick Stranahan, un ex sbirro con vent’anni di piu’ e un fascino che la panzetta molliccia e bianchiccia di Chaz se la sogna. Il desiderio di vendetta, dall’Aldila’, della signora Perrone dara’ cosi’ il via a una serie di avventure, per la coppietta, e disavventure, per l’inconsolabile vedovo, che coinvolgeranno, tra gli altri: Tool, una guardia del corpo con qualche problemi di peli superflui; Ricca, l’amante di Chaz; Rolvaag, un detective erpetologo che vuole mollare la Florida per zone piu’ tranquille.
Nonostante in Hiaasen non manchino i dialoghi, e’ la narrazione onnisciente in terza persona il vero asso nella manica dello scrittore americano. L’ottima traduzione della coppia Conti-Piussi rende la lettura di “Una donna di troppo” di una scorrevolezza e semplicita’ incredibile che, abbinata alla verve umoristica di Hiaasen, consente di affrontare in maniera lieve, ma per questo non meno efficace, argomenti che potrebbero essere benissimo sviluppati tramite opere di saggistica lunghe e ricche di note a pie’ di pagina. Argomenti quali, ad esempio, il depauperamento e inquinamento ambientale di un incredibile ecosistema qual e’ quello delle Everglades, in Florida, una regione paludosa messa a serio rischio, come sempre, dall’avidita’ umana senza scrupoli e coscienza, oppure la corruzione di ampi settori degli uffici pubblici di controllo da parte di ciechi industriali.
La black comedy messa in piedi da Hiaasen, infatti, altro non e’ che un pretesto per focalizzare la nostra attenzione su un problema – in questo caso l’inquinamento delle Everglades -, sfruttando le molte frecce al suo arco narrativo. Alle parole “palude”, “Everglades”, “crociera” o “biologo”, ve lo garantisco, se avete letto “Una donna di troppo” non potra’ non tornarvi in mente questo libro e quel magnifico cazzone di Chaz Perrone, personaggio surreale, esagerato e parodistico. Ma Perrone e’ davvero cosi’ surreale, esagerato e parodistico? Si puo’ e si deve pensare ridendo, la leggerezza del supporto con cui viene mediato un messaggio non e’ una banalizzazione del messaggio stesso ma, al contrario, un suo rafforzativo. Perche’ un messaggio e’ tale ed efficace solo nel momento in cui si fissa nella mente dei suoi target. Se poi sai scrivere e inventare storie e personaggi come fa Carl Hiaasen, beh, e’ forse tutto un po’ piu’ semplice.
Andrea Pelfini

(recensioni Una donna di troppo)

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Happy – L’incredibile avventura di Keith Richards di Massimo Del Papa – Euro 10,00
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Corriere Veneto, 9.12.10

Del Papa racconta “il coraggio di essere Keith Richards”
“Piu’ che una biografia e’ un ritratto, una storia di vita. A me interessava raccontare la storia della trasgressione, non certo quella di far uso di droga, ma del coraggio di essere qualcuno che non doveva essere: non sta bene essere Keith Richards, non si suona cosi’ la chitarra, pero’ lui lo fa, e crea un precedente.”
Massimo del Papa racconta cosi’ “Happy – L’incredibile avventura di Keith Richards”, il volume pubblicato dalla casa editrice padovana Meridiano zero. Massimo del Papa, giornalista musicale a Il Mucchio, percorre un viaggio nella vita e nell’arte del chitarrista-fondatore dei Rolling Stones, centrando l’indagine sull’essere “icona del rock”, piuttosto che sulla biografia. “La sua qualita’ piu’ notevole e’ la personalita’. L’esser stato quello che Balzac chiamava ‘il personaggio’, uno che ha il coraggio di spingere se’ stesso oltre il limito estremo – spiega del Papa – questo e’ stato Keith Richards e questi sono stati i Rolling Stones. A quel punto, tutto il resto, i riff gli accordi aperti, il sound, sono solo una conseguenza di quel coraggio di osare.” Il titolo del volume si riferisce sia alla canzone “Happy” dell’album “Exile on Main Street”, che al modo in cui Richards ha affrontato la vita. “Happy e’ la canzone che lo rappresenta di piu’, una delle prime che ha cantato. Poi per me questa e’ la storia di un uomo felice – conclude l’autore – contrariamente alla mitologia secondo la quale Richards e’ un perenne condannato a morte, credo che la sua luce sia stata sempre la voglia di vita, questo desiderio assoluto di musica che finisce per divorare anche la morte.”
Francesco Verni

(recensioni Happy – L’incredibile avventura di Keith Richards)

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Il vento del Texas di James Reasoner – Euro 13,50
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angolonero blogosfere it, 29.11.10

Inizialmente mi ha spinta la curiosita’. Mi chiedevo come potesse essere “noir” il romanzo di un autore prevalentemente western che, per di piu’, ha scritto anche le storie di “Walker, Texas Ranger”. Ero un po’ diffidente, diciamolo. Ma poi mi ha fatto riflettere un dettaglio: che per un romanzo di James Reasoner – autore molto prolifico, praticamente lui e la moglie sono una fabbrica di romanzi – si fosse cimentato nella traduzione addirittura il signor Meridiano zero in persona, Marco Vicentini. Sono cose che fanno riflettere.
La prima risposta e’ arrivata da Wikipedia: “Texas Wind” e’ il primo romanzo pubblicato di Reasoner, nel lontano 1980. La seconda risposta e’ arrivata con le prime pagine: “Il vento del Texas” e’ un noir pulitissimo. Il paradigma del noir, se non fosse per l’ambientazione texana a cui e’ difficile associare l’impermeabile di Humphrey Bogart.
Il detective privato Cody – amante dei libri e dei quadri di Remington – viene incaricato di indagare sulla scomparsa di una studentessa, Amanda Traft detta Mandy. Forse fuggita con il fidanzato, forse rapita. Indagine perfetta, scazzottate a go-go, boss circondati da scagnozzi violenti, un nuovo amore per Cody e un finale tutt’altro che deludente.
Su tutto spira il vento del Texas che da’ il titolo al romanzo, una sorta di spirito con cui ogni essere vivente deve fare i conti.
C’e’ molto amore nel romanzo di Reasoner, un amore forte e molto prepotente. E questo mi sembra gia’ un buon motivo per leggerlo. L’altro, fondamentale, e’ che in Meridiano zero sanno che si scrive “mocassini marrone”. Conoscere la grammatica quando persino in Einaudi l’hanno dimenticata da’ valore aggiunto in termini di qualita’. Chapeau.
Alessandra Buccheri

www laltrapagina it, 30.9.10
Uno dei libri piu’ importanti di James Reasoner e’ “Il vento del Texas”. L’autore, noto scrittore tra i piu’ prolifici con oltre 200 romanzi pubblicati, e’ uno dei piu’ apprezzati scrittori noir americani che unisce una scrittura semplice e veloce a una trama accattivante. Questo connubio rende il volume di quasi 200 pagine una lettura molto entusiasmante e capace di superare il tempo. Nonostante sia del 1980 anche il lettore piu’ moderno non potra’ far altro che lasciarsi coinvolgere dalle vicende narrate all’interno della storia nonostante la presenza di cabine telefoniche, ancora adoperate vista l’assenza dei telefonini.
Ambientato nel Texas, stato dove l’autore e’ nato e vive, il romanzo si incentra sull’indagine di Cody, un investigatore privato assunto da una ricca donna che vuole che venga ritrovata la figliastra Mandy scomparsa senza lasciare traccia. In una storia che lascia trapelare pian piano gli elementi necessari alla risoluzione del caso, James Reasoner fa in modo che il protagonista sia un vero e proprio gentiluomo, un eroe romantico con pecche e virtu’ ma con quella classe e quella moralita’ che distinguono i personaggi “buoni” della letteratura. Il lettore, per quanto Cody possa sembrare studiato bene a tavolino, non potra’ che affezionarsi a lui e alla ragazza che affianchera’ le indagini; non potra’ che sospettare, trepidare e farsi un’idea sulle cause e sugli eventi che l’autore ha scelto di narrarci con tanta maestria.
La storia si dipana in poche ore lasciando che il tempo passi rapidamente anche all’interno della storia senza grossi salti temporali ma dipingendo un quadro piacevole di eventi che accompagneranno il lettore in una lettura che si puo’ facilmente fare in una giornata, merito anche della scorrevolezza dell’adattamento, della qualita’ della narrazione e di una storia avvincente e ben strutturata.
Il titolo e’ sicuramente una piccola perla della narrativa americana che Meridiano Zero ci propone in questa versione, recuperando un classico che altrimenti avrebbe fatto sentire la sua mancanza nel mercato italiano.
Gianfranco Broun

(recensioni Il vento del Texas)

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L’apprendista di Gordon Houghton – Euro 15,00
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Milano nera, 24.1.11

Verra’ la Morte e riavra’ il tuo corpo. E’ quello che succede a un ragazzo morto a 28 anni, che da qualche tempo ormai se ne sta buono nella sua bara nel cimitero di Oxford. Arriva la Morte, scoperchia la bara e dice al giovane zombie di tirarsi in piedi che c’e’ un lavoro da fare. Il grande Capo ha deciso cosi’ e i quattro cavalieri dell’Apocalisse hanno vidimato la decisione. Il ragazzo deve fare da apprendista presso la sede dell’Agenzia in High Street e lavorare a fianco a fianco con la Morte appunto, e le sue tre collaboratrici: Guerra, Pestilenza e Carestia.
C’e’ da archiviare le nuove dipartite e l’Agenzia e’ subissata di lavoro. Pestilenza deve sperimentare su di se’ le nuove malattie del millennio, Guerra e’ impegnata a scatenare risse e vendette dove c’e’ un minimo di aggregazione popolare, Carestia ultimamente e’ un po’ depressa e continua a mangiare in piatti vuoti e Morte, il vero vice capo, ha bisogno di svagarsi per la tanta fatica e gioca a scacchi via internet con i poveri prescelti.
In una settimana il giovane zombie deve imparare il lavoro e controllare i decessi secondo le rigide norme aziendali. Chi lo ha preceduto (Ade) e’ finito male. Che si metta sotto, dunque. Perche’ Morte e’ cara, brava e buona, ma se le girano i cinque minuti e’ capace di gesti definitivi. Se invece riuscira’ nel compito avra’ l’immortalita’ e tutti i benefici di un vero statale: posto fisso, qualifica, vitto, alloggio, viaggi pagati…
“L’apprendista” di Gordon Houghton e’ un romanzo geniale per il solo fatto di essere stato ideato. E la lettura rassicura la prima impressione. L’autore, classe 1965, si dice amante di una serie di scrittori che va da Kafka a Vonnegut, da T.S. Eliot a Ende. Certo, la sensibilita’ puo’ essere stata plasmata da tanta letteratura, ma il talento e’ quello tipico di un tipo cresciuto anche a pane e B-side movie (Ed Wood, tanto per citarne uno. Intendendo sia il titolo del film sia il nome del piu’ celebre regista di film di serie B della storia del cinema).
Possibile trovare addirittura del sentimento in una storia come questa, raccontata tra lama di coltello e filo del rasoio? Possibile, possibile. Soprattutto se la vita in comune delle quattro compari dell’Agenzia ci suona cosi’ familiare nelle dinamiche da diventare reale come quella di un ordinario mister Jones o di un’abitudinaria miss Polly.
Romanzo che nasce nella testa, ma senza profilo cerebrale. Cinematografico, piuttosto. Soprattutto quando la luna storta che aleggia attorno al giovane zombie si traduce in puntuto sarcasmo. Possibile sperare in una trasposizione in celluloide (ma si puo’ dire ancora cosi’?), magari con Johnny Depp guidato dal maestro Tim Burton?
E se avete in programma di andare a trovare Bela Lugosi, non presentatevi a mani vuote. Ora sapete cosa portare.
Corrado Ori Tanzi

(recensioni L’apprendista)

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Anche i poeti uccidono – Victor Gischler – Euro 15,00
Il vento del Texas di James Reasoner – Euro 13,50
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www linsolito net, 10.10.10

Un meridiano sempre piu’ nero
La casa editrice padovana Meridiano Zero e da sempre un punto di riferimento per gli appassionati del noir, sia quello americano che quello europeo – e’ loro la scoperta di Derek Raymond, Hugues Pagan, Rene’ Fregni, tra i tanti. Negli anni il catalogo ha subito un serio rinnovamento, dimostrandosi sempre al passo con i tempi, con le abitudini di un genere che, forse piu’ che in Italia, all’estero ha saputo cambiar pelle con lo scorrere delle lancette. Confrontare due assi di quel catalogo, Victor Gischler e James Reasoner, e’ una buona scusa per riflettere sui mutamenti del nero americano.
Reasoner, di cui finalmente e’ pubblicato in Italia il lavoro piu’ significativo, “Il vento del Texas”, tradotto dallo stesso editore in capo Marco Vicentini, e’ autore prolifico e molto attivo, un padre minore dell’hardboiled, dal talento non inferiore pero’ ai vari Elmore Leonard e James Lee Burke. Il suo modo di affrontare il pulp e’ il tono sussurrato, la rilettura del canone con prosa classica e sguardo disilluso. C’e’ un detective che non fuma e beve poco o niente, l’anno della prima pubblicazione in originale e’ il 1980, ci sono i gangster, c’e’ una ragazza scomparsa, un po’ come nel capolavoro di Crumley, L’ultimo vero bacio, ma la cattiveria qui opera a un livello differente. Poca ironia, molta azione, tanta sostanza, dialoghi ridotti all’osso come l’aggettivazione. E’ tutto scarno, o meglio essenziale, non una parola fuori posto, non una descrizione di troppo, nessun eccesso, nessuna accellerata per stupire il lettore: e’ l’insieme che conta, la sua cristallina triangolarita’, attorno a un mistero in cui les femmes sono poco fatali e il piombo non si fa attendere. Certo, c’e’ sempre una grande attenzione all’introspezione chandleriana, ed e’ ben svolta, ma e’ un accessorio di stile e costanza, non un surplus di cui vantarsi. La concretezza all’ennesima potenza: fatti, indizi, strada da macinare, sudore, muscoli che si muovono e un finale quasi controcorrente nel cinismo imperante dell’hardboiled di ieri e di oggi.
I tempi cambiano, infatti, e dimostrazione ne e’ il secondo romanzo pubblicato da Meridiano zero di Victor Gischler dopo “La gabbia delle scimmie”. “Anche i poeti uccidono”, traduzione di Luca Conti che come sempre e’ una garanzia, conferma uno spirito goliardico che ha oltrepassato ampiamente i limiti del genere, fondendosi con la parola come polvere da sparo, con un’ironia diffusa e palesemente scoperta, con un cote’ quasi demenziale – non a caso alcuni recensori azzardano il paragone con la follia dei fratelli Marx. Il nome di facile riferimento? Joe Lansdale; ma non e’ una fotocopia, forse piu’ un emulo, ma con personalita’ propria. L’helzapoppin’ di personaggi e situazioni resta sempre sotto controllo ed e’ il pregio di Gischler, che pur eccedendo non perde mai la bussola, il lettore beneficia del suo artigianato sartoriale, una narrativa di pura professione e di grande intensita’, una prova di coraggio nel non esibire l’atroce e il pulp come unica bandiera, perche’ dietro i neon e i lustrini – e le sparatorie e le gag – ci sono anche e soprattutto dei sentimenti, a volte trattenuti, talvolta negati, spesso contraffatti. “Anche i poeti uccidono” e’ un tour de force che non sforza la pazienza di nessuno, anzi si fa amare come il cugino strambo ma simpatico che si piazza in salotto il pranzo di Natale e mentre racconta storiacce sguaiate trasuda anche tristezza e solitudine.
Divisi tra silenzi e botti, due romanzi che parlano la stessa lingua.
Matteo Di Giulio

(recensioni Anche i poeti uccidono)
(recensioni La gabbia delle scimmie)


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart