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Meglio che ci sbattiamo la testa

16 Aprile 2012

Siamo alle comiche. Ieri, con uno dei suoi articoli caustici, Vittorio Feltri ha invitato il presidente del Consiglio a decidersi ad andarsene prima che lo caccino.

L’analisi di Feltri è spietata e mette a nudo il cancro che è destinato in men che non si dica ad uccidere il nostro Paese, o quantomeno a renderlo un Paese da terzo o quarto mondo.
Nessun ministro del tesoro e dell’economia, almeno dalla fine degli anni ’80, è mai riuscito nell’intento di sanare la nostra malattia. Venendo agli ultimi tempi, prima di Monti, toccò al tre volte Monti, ossia a Tremonti, essere portato in palmo di mano dall’Europa. Quando si paventava che Berlusconi volesse spedirlo a casa, tutta la stampa lo metteva in guardia: Tremonti è il coccolino dell’Europa; l’Europa si fida soltanto di lui, se lo si caccia, succede il finimondo.

Tremonti era praticamente il dominus del governo, e se Berlusconi è caduto lo si deve un bel po’ anche alla sua spregiudicata e arrogante sicumera. Ma Berlusconi non solo aveva tutti contro: non aveva neppure il potere di cacciarlo quelle volte che s’incaponiva e faceva i capricci. Così il capo dello Stato ha pensato bene di prendere il timone della nave direttamente, ha dato il laticlavio ad un accademico ben visto nel mondo internazionale della finanza (in pratica gli ha pagato in anticipo i suoi servizi) e ha detto a Berlusconi di accomodarsi fuori da Palazzo Chigi.

Son suonate le campane a festa, non solo in Italia. A Napolitano è stata assegnata una specie di Legion d’onore o di Cavalieriato di Gran Croce da tutto il mondo. È passato subito agli onori delle cronache come il grande statista di cui l’Italia aveva bisogno.
Per Monti, il suo figlioccio, suppergiù la stessa solfa.
Insomma, tutti erano convinti che un’Italia quasi in bancarotta fosse riuscita a tirar fuori dal cilindro due autentici geni, soprattutto in economia.

Solo che i primi provvedimenti presi dai diarchi Napolitano e Monti sono andati nella direzione sbagliata. Una pressione fiscale dal potenziale dirompente avrebbe causato un disastro, divelto le poche resistenze produttive. Non solo se ne accorsero subito i colleghi bocconiani di Monti, Giavazzi e Alesina – che per questo furono rimbrottati, per fortuna senza successo – ma molti dubbi sulle capacità del nuovo governo sono cominciati ad affiorare anche tra gli esaltati di questa diarchia, sia nel nostro Belpaese che fuori. Due giornali autorevoli, assurti a termometro dei nostri malanni al tempo di Berlusconi, ossia il Financial Times e il Wall Street Journal, hanno suonato la campana a morto, in pratica dando ragione ai colleghi bocconiani del prof. Monti.

Naturalmente, in questo caso, i due autorevoli quotidiani finanziari internazionali, non lo erano più per alcuni dei nostri giornali di antica formazione antiberlusconiana. Ma il tentato mascheramento, la ipocrita copertura, non poteva durare e non è durata, ed oggi si comincia ad esercitare perfino un po’ di ironia (come fanno Feltri e alcuni vignettisti) sulle mosse stravaganti del duo Napolitano-Monti.

La verità è che nessuno potrà mai curare l’Italia finché non si metterà mano alle sempre più urgenti riforme del suo apparato gigantesco e bizantino.
Il cancro che consuma l’Italia è annidato, infatti, proprio nella architettura del nostro Stato. Niente potrà mai funzionare come si deve con un architettura dalle fondamenta mollicce, non più all’altezza dei tempi.
Perfino in momenti di grave crisi, come quelli che stiamo vivendo, non c’è un organo dello Stato in grado di prendere il timone della nave e assumere decisioni.

Stando così le cose, è bene dunque che i nodi vengano al pettine. Può darsi che quando la nostra classe dirigente avrà sbattuto la testa e perso la guerra contro la speculazione, qualcuno si ravvedrà e capirà che l’urgenza delle urgenze è quella di modificare la struttura del nostro Stato così da renderla snella, efficiente e soprattutto in grado di decidere in tempi anche strettissimi.

E perché proprio qui s’incontrano le resistenze maggiori? Semplice: la macchina dello Stato elargisce ricchezza a piene mani a coloro che ne occupano i vari gradini. Nessuno perciò è disposto a scendere, a farsi da parte, a rinunciare.

La protesta che sta montando sempre più rabbiosa e massiccia nel Paese non può più tollerare che l’Italia sia spaccata in due: da una parte una classe dirigente che fa di tutto per salvarsi dal naufragio (spremendoci senza alcuna vergogna a più non posso), dall’altra il popolo abbandonato a se stesso.

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Bart