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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Montesano, Giuseppe

7 Novembre 2007

Nel corpo di Napoli    

“Nel corpo di Napoli”

Mondadori, pagg. 258. Euro 7,80

Il romanzo si cala subito nell’attualità purtroppo assai penosa di un figlio, Landrò, che ha già trent’anni e non ha un lavoro.  Passa il tempo speculando sui mali della nostra società e conversando con l’io narrante, Tommaso, che va a trovarlo in casa sua. Ma spesso arriva il padre, “un borghesuccio”, assai burbero e insofferente e, brontolando e agitando il bastone, rimprovera il figlio di essere un buono a nulla: “Tieni quasi trent’anni e non ti sei laureato, chesta è ‘a verità”, non avendo alcun riguardo per l’ospite che alla scena assiste ogni volta imbarazzato, ma in casa propria vive una condizione analoga, anche se non così violenta, e più subdola. Ci troviamo di fronte alla ricorrente, e si potrebbe anche dire perpetua, incomprensione tra due generazioni, come quasi sempre accade tra figli e genitori; però questa volta si tratta di personaggi che sono alla ricerca della verità: “La nostra principale preoccupazione in quel periodo era se avremmo potuto continuare a ‘cercare la verità’, e nello stesso tempo se dovevamo o no affrontare la realtà”. Il padre di Landrò scambia tutto ciò per un ozioso filosofeggiare, e il figlio non lo sopporta più e lo giudica un inetto e un incapace che, fissato sull’onestà a tutti i costi, non ha saputo arricchirsi quando gli altri lo hanno fatto senza porsi tanti scrupoli. Che tipo di ricerca ha in mente allora, questo Landrò? Ma non solo lui, visto che Tommaso, l’io narrante, seppure meno convinto, abbraccia il suo progetto, che è quello “di vivere alle spalle del padre” per il tempo necessario a studiare il modo migliore per “entrare nella vita”. Di sicuro, intanto, c’è che “doveva essere furbo, più intelligente di loro”. Il quadro in cui si muoverà la storia pare disegnato già sin da questo inizio, e fa presagire un impegno tutto giocato su di uno scontro torbidamente psicologico, e assai più che insidioso, con la realtà, portato da una gioventù che ha maturato una pregiudiziale di condanna nei confronti di ciò che si è costruito fin ora, e che si propone, se il disegno di mutamento sarà impossibile, di trarre in modo egoistico tutti i vantaggi dalla situazione presente con il minor dispendio della propria personalità. Una ricerca della verità fortemente voluta, veemente, ostinata, incrudelita, ma anche disordinata ed insicura, forse cieca addirittura, e dal risultato sfuggente, avvalendosi dell’ausilio di molte altre discipline conosciute, tra le quali massimamente la filosofia, ma anche il cattolicesimo, l’eros, l’esoterismo: “disponibili a tutte le esperienze”, per riuscire poi a penetrare la realtà, se possibile mutarla, altrimenti ingannarla: “Disprezzavo il denaro, ma sognavo di arricchirmi di colpo, da un giorno all’altro, per miracolo.” L’autore ha uno stile lineare e semplice, così come sarà la stessa trama, priva di rimbalzi e incognite, che alla fine renderanno il messaggio – non facile e piuttosto complesso per i troppi rimandi a testi che non tutti conoscono – assai efficace, anche se un po’ spietato, e tale da aprire gli occhi ai nostri sognatori. I personaggi che avanzano sulla scena hanno tutti una certa somiglianza tra loro, affetti da un conflitto interiore – che appartiene un po’ a tutte le generazioni – che è il risultato di un non adattamento psicologico non solo alla realtà circostante, ma anche tra individui diversi, che nutrono intolleranze e diffidenze reciproche. Non c’è cosa o pensiero che essi non dissezionino fino al tormento proprio e dell’interlocutore. Landrò in particolare aveva perfino il gusto di opporsi al ragionamento altrui, qualunque esso fosse, con il convincimento di essere una specie di testa di ariete per lo sfondamento e lo svisceramento crudele e impietoso della realtà, a lui del tutto inadeguata e menzognera. Il romanzo si rivela un fitto e tormentato, e pure cinico, ordito di pensiero, imperniato su di una ricerca quasi impossibile e amara di una conoscenza (“smania di conoscere”) che procura dolore, un quasi impazzimento, per il fatto di non riuscire ad essere mai convincente e assoluta. Nemmeno taluni grandi del passato, a partire da Nietzsche, Baudelaire, Rimbaud, Léon Bloy, o Wagner, o scrittori come Heinrich von Kleist, sono riusciti in questo. Landrò, pur nello smarrimento e nella delusione a cui va incontro continuamente, ha in sé tuttavia la forza e la disperazione coraggiosa di un Prometeo: “la verità fa sempre bene a chi la cerca?”. A poco a poco, su questa strada perigliosa, i nostri primi due personaggi entreranno nel corpo di Napoli e, vedrete, molto cambierà. Il primo a segnarne la strada, ad aprire la bocca di quell’antro, è un prete in odore di scomunica, capace di prevedere il futuro, legato a sette misteriose, don Sesamo Sossio, che odia i papi innovatori come Giovanni XXIII e Paolo VI, e che predica il rispetto delle “tre regole”: “Rispetto e sottomissione ai genitori e agli anziani, rispetto e sottomissione a chi dà lavoro, rispetto e sottomissione alla santa morale.” Il conforto che i protagonisti cercano di trovare in lui citandogli certe frasi rivoluzionarie del vangelo, viene respinto dalla considerazione che “Oggi so’ tutti comunisti” e il vangelo, insomma, in qualche modo ne è responsabile. La follia di don Sesamo è il primo velo che fascia Napoli di esoterismo, di pregiudizio, di immobilità, di associazioni segrete che vogliono conciliare il cristianesimo con il libero mercato. Si apre, passata quella soglia, un universo di disordine e di attrito più o meno violento, e negli spazi in cui l’autore ci introduce, noi incontriamo l’immagine di una realtà fatta di contrasti ed incomprensioni, tra i quali non sarà certo facile espungere la verità assoluta che i protagonisti cercano. C’è la realtà di ‘O Tolomeo che sputa sul ritratto della madre e s’è sposato una tedesca ricca, ma poi non tanto ricca scoprirà, e che ha acquisito una sua filosofia del vivere, s’è adattato per una strada diversa da quella di don Sesamo, e fa l’imprenditore specializzato in tombe e sculture funerarie: “Si deve solo leggere quello che ci sta scritto”, e anche Rimbaud “si voleva arricchire, ma per sputare in faccia a tutti quanti!”, e il suo pranzo di capodanno, al quale prendono parte anche Tommaso (che, fuggito dalla sua famiglia, si rifugia ogni tanto da lui e da altri) e un Maestro (che disquisisce pure lui sulla realtà contrastando l’ospite), somiglia ad un’abbuffata così scomposta e triviale: “Solo lo spreco ci può salvare”, da suscitare l’impressione di un precipizio in cui, entrando in quella casa scombinata, ha sporto la testa il nostro io narrante, o di una mannaia, addirittura. In questa Napoli, nel suo corpo ossia, per stare al titolo del libro, c’è tutto e il suo contrario, non privo di contagi e pericoli talmente raffinati nella loro assurda perversità da rendersi perfino stupefacenti. La storia comincia ad assumere ogni pretesto per una continua osservazione della realtà (“cacciatori di realtà”) offerta a mano a mano, come in un singolare simposio, da personaggi e da punti di vista diversi (Landrò, don Sesamo, il Maestro, Morvo, Fulcaniello), che tuttavia confluiscono nell’unica ipotesi possibile: la mancanza di una verità valida per tutti e capace di far prendere alla società la piega salvifica auspicata: “Sperare nell’avvenire? Ah, ma allora si’ scemo veramente…” e “Ci conviene davvero conoscere la verità?” Infatti, se questa verità esiste, la sua scoperta sarà cosa terribile e deludente?

‘O Tolomeo – personaggio forte del romanzo – non ha avuto alcun dubbio nel sacrificare i suoi ideali, prima condivisi con il Maestro e Tommaso e gli altri; ora costruisce dappertutto le sue necropoli monumentali, le costruisce sottoterra con “‘ncoppa” lussuosi centri residenziali, distruggendo perfino siti archeologici (“il passato è solo una cosa morta”) con lo scopo di arricchirsi, prendendo dalla realtà ciò che soddisfa il suo tornaconto: “la volontà di potenza vuole pure dire qualcosa” e lui dà alla gente che sa di vivere nella “fetenzia” “un po’ di pace e di ordine almeno nell’altro mondo”: “ccà ce stà ll’oro!” grida apparentemente soddisfatto della svolta che ha dato alla sua vita.

La follia sta prendendo gradualmente il suo posto nel romanzo, che forza ormai sul paradosso, non troppo improbabile tuttavia, e esasperato appena quel tanto da suscitare la sensazione di un confine a noi già troppo vicino e superabile; infatti, dopo don Sesamo, lo scavo operato nella realtà bizzarra e orripilante di ‘O Tolomeo e quello successivo, esoterico e contagioso, di Fulcariello, producono la medesima contaminazione verso la dissociazione e la follia. I poveri presto non si potranno permettere una tomba? – si domanda ‘O Tolomeo – e allora si è già pensato anche a questo nuovo sfruttamento: saranno chiusi dentro un “sacco di plastica speciale, resistente all’acqua, e li ammucchiamo nelle falde…”. Una lezione già sufficiente per Tommaso, che cerca la bellezza come chiave di svolta dei nostri mali e dovunque si trovi – in casa sua, in quella di Landrò, di ‘O Tolomeo, di Ciro Morvo – incontra sempre disordine, bruttezza e violenza? Nel corpo purulento di Napoli niente è mai sconfitto o modificato, ma tutto si accumula e oppone una continua, caparbia resistenza ai buldozer del cambiamento, con una abilità di captazione (“schiavo contento”) e metamorfosi che è la medesima da secoli, e anche se si paventa che tutto ciò possa prima o poi essere spazzato via dallo sfruttamento ingordo e inarrestabile, noi stentiamo a credere nella riuscita di questo progetto. La stessa povertà è vissuta con una crassezza animale che è la più vicina e somigliante alla pulsione intrinseca della realtà: “La vita, belli! ‘A vita! Questi qua manco la bomba atomica li distrugge, Mae’! E tu, Tomma’, con la tua bellezza… Ma qua’ bellezza? Io vi faccio vedere la realtà carnale, ve la sbatto in faccia! Scetatevi!” È ancora il concreto e disincantato ‘O Tolomeo che parla al Maestro e a Tommaso, disorientati, e sebbene a volte dia per scontato a breve il trionfo totale dello sfruttamento, convive disinvoltamente nella sua contraddizione, giacché sarà sempre questa corposità popolare, questa energia accumulata nel ventre di Napoli, a rappresentare il primo e imperituro rifiorire e rigenerarsi della vita.

Come una specie di segreta cospirazione va avanti la ricerca dei protagonisti, alzando il tiro della conoscenza nel momento in cui sale alla ribalta Ciro Morvo, il quale, invasato quanto e più degli altri, studiati e messi insieme Einstein e Jung, deduce che la massa, diventata energia, “non era più un qualcosa di indistruttibile, ma si poteva trasformare in altre forme di forza…” “e con la forza della psiche si poteva controllare la materia”. Questo che cosa avrebbe comportato? Che “il lavoro non era più una maledizione, e si apriva per la materia la possibilità dell’ozio perpetuo. Schiavitù e sfruttamento sarebbero spariti, non avremmo più dovuto preoccuparci del posto fisso e dei soldi, e la mente avrebbe creato senza fatica una nuova realtà.” Sono i sogni che ricorrono nella storia dell’uomo, sempre ansioso e insofferente, come quello degli alchimisti che volevano fabbricare l’oro. Al posto dell’oro questa volta c’è la ricerca di una specie di paradiso terrestre (“Natale sulla terra”), di nuova Arcadia, dove regnino l’ozio perpetuo e il solo lavoro resti quello spontaneamente prodotto dal pensiero, così da “evadere dalla trappola della realtà”. Il sottile filo che lega tra loro gli insoliti, sprovveduti, illusi, disincantati personaggi non si interrompe mai, sostenuto dal collante di un’assurda razionalità, e il magma che sta nel corpo di Napoli assume la sua evidenza tragicomica all’apparire della coppia, davvero dirompente e straordinaria – da diventare emblematica forse più dello stesso ‘O Tolomeo – composta da Gerolamo Fulcaniello, un esoterista, “quasi nano, risecco e tutto ossa”, che Morvo dichiara essere in grado di attivare “l’energia psichica” necessaria ad agire sulla realtà, e sua moglie Pasqualina Pozzo, una ex soubrette “di una grassezza smisurata”, che ha sempre fame e fa da medium alle sedute spiritiche, e che lui ha ribattezzato col nome di Zinaida, giacché nel suo corpo rivive una poetessa e spiritista russa: Zinaida Gippius.

La Napoli delle credenze popolari, della cabala e delle magie più strane arriva così a fasciare della sua oscura luce, come in un’Opera al nero”, tutti i personaggi che sin qui, attraverso la scienza dei loro molti libri, avevano cercato di volare alto nella ricerca della verità ed ora sembrano planare miseramente nel verminaio di una napoletanità che si fa un baffo della scienza e se la gioca coi suoi paradossi: “Fulcaniello, che di matematica sembrava veramente non capire niente, era però in grado di effettuare calcoli molto complessi a grande velocità”. Lo stesso autore pare non voler più nascondere l’intento dissacratorio della sua storia, tutta ricamata nell’alternanza di toni alti e smentite saporose, e scioccanti come frustate, provenienti dalla vita di tutti i giorni. La struttura del romanzo si avvale ora di molte finestre aperte per introdurre scenari diversificati e osservati come se i loro movimenti fossero collocati laggiù in basso (“è nelle profondità che si nascondono le forze”) e attraverso cunicoli bui confluissero poi – come accadrà agli stessi protagonisti, radunati quasi tutti nella casa di Landrò – in un unico stupefacente movimento: “Questa città vive sottoterra, e così le sue energie”. In questo, il pensiero di Fulcaniello e di ‘O Tolomeo, e anche di don Sesamo, hanno un contatto, che prima era parso impossibile. Il popolo napoletano ha sempre detto di sì a tutto e a tutti. Non ci sono mai state vere rivoluzioni, ma la regola d’oro di quel popolo è stata la ricerca della sopravvivenza: “la volontà di sopravvivenza”, e “dove si era nascosta l’energia della sopravvivenza? Solo sottoterra, solo là c’era spazio abbastanza…” Ed è qui che la si deve andare a cercare: “Erano secoli e secoli che quella gente buttava tutto sotto, lo seppelliva, lo faceva succhiare alle caverne scavate sotto la città.” Il “Corpo di Napoli” diventa per un momento un punto fisico, materiale: “Là, sotto piazza Nilo e tutto intorno, si concentrava la forza principale.” Si prefigura e si ripete una specie di discesa sotterranea nel mistero, fatta all’interno della chiesa del Gesù Nuovo, alla ricerca dei fantasmi che hanno accumulato una tale energia psichica, grazie alla quale si potrà dar corso alla rivoluzione della materia e al mutamento della realtà. Là sotto c’è anche il Lume Eterno, che il nobile Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, aveva fatto costruire per la sua cappella, “una lampada dall’energia inesauribile che realizzava il sogno del moto perpetuo”, alimentata da quell’energia spirituale che essi si accingevano a scoprire. È in questo capitolo apparentemente così estroso, ironico, e proprio dalla bocca di un personaggio quasi maniacale ed improbabile, il cui compleanno cade, indovinate un po’?, il 2 novembre, che esce una delle analisi più vicine alla verità tra quelle offerte – quasi sempre in maniera divertita (si pensi ai pranzi combinati da Zinaida in casa Landrò e alla impietosa fine del sogno dei nostri scombinati protagonisti) – alla nostra attenzione da Montesano, che è quella attraverso la quale, inconsapevolmente o no, la misteriosa Napoli perpetua il suo incanto nel mondo.


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