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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Saltini, Vittorio

7 Novembre 2007

Quel che si perde

“Quel che si perde”

Feltrinelli, pagg. 200. Euro 14,46

Come Pietro Ghilarducci, come Custer De’ Nobili, come Guglielmo Petroni, come Pannunzio, i primi che mi vengono alla mente, anche Vittorio Saltini trascorre la sua vita, per ragioni di lavoro, lontano da Lucca. Un giorno, parlavo di lui e di questo romanzo con il Prof. Antonio Romiti, studioso tanto riservato quanto di gran valore, osservando che non sono molti i Lucchesi che sanno qualcosa di Saltini. “Io l’ho conosciuto quando eravamo ragazzi”, mi rispose e nei suoi occhi lessi la gioia di quel lontano rapporto di amicizia. L’ho scritto chi sa quante altre volte: la mia città non ha dato soltanto grandi musicisti, ma anche scrittori di tutto rispetto.

Saltini è uno di loro. I suoi romanzi si contano sulle dita di una mano: “Il primo libro di Li Po”, del 1981, e “Nel manto mio regale” dell’anno successivo. Sono dovuti passare ben venti anni per avere “Quel che si perde”, una storia tenerissima che prende avvio su di un treno, quello che va da Lucca a Pescia, la città dei fiori.

Sale su quel treno il Pretore Antonio Nicolai che esercita la professione a Pescia, ma non ha voluto abbandonare la sua città. I primi tempi non era solo, aveva dei compagni coi quali giocava a carte, poi erano stati trasferiti e così era rimasto soltanto lui, e approfittava di quella mezz’ora di tempo, presa dal viaggio, per fantasticare. La memoria di suo padre, professore al liceo classico “Machiavelli”, spesso gli tiene compagnia. Il padre era morto per infarto nel corso di una lezione, e lui, quindicenne, si trovava in un’aula vicino “chino sulla versione dal greco.” Non poteva dimenticare quel giorno, con tutti i professori che andavano gridando che suo padre era morto. Come non dimenticava le passeggiate che i due intraprendevano sui monti della Garfagnana, e suo padre gli parlava della letteratura e recitava i versi del Carducci o della Divina Commedia, che sapeva a memoria.

Saltini rievoca con nostalgia. Spesso i suoi periodi iniziano con una congiunzione o una relativa, come se con esse desiderasse rappresentare il nodo che lega ogni periodo al precedente. Un concatenarsi del suo sentire e del suo ricordo. Pure quel continuo ripetere il soggetto (“il pretore Nicolai”) con significato tanto incidentale quanto esplicativo, assume il valore di una finalità analoga, che ha un precedente in quel “sostiene Pereira” che caratterizza, con la sua frequenza egualmente esplicativa e incidentale, lo stile di Tabucchi nel suo romanzo di maggior successo, che porta quel titolo, uscito nel 1994. Non solo, ma come Pereira ha in Pessoa il suo autore preferito, il pretore Nicolai è un appassionato di Machado. Troviamo spesso frasi costruite come queste: “E non capiva, il pretore Nicolai,” eccetera eccetera; “Sospettava insomma d’essere per Giulia un ripiego, il pretore Nicolai,”; “Ma si trovò sposato, alfine, il pretore Nicolai,” e così via. Che potrebbe rappresentare quella timidezza di stile che è anche la timidezza dello stesso protagonista. Il quale, sposatosi con Giulia, ne scopre il tradimento, ma non ha il coraggio di affrontare la moglie per timore di perderla. La vena romantica di Saltini accompagna la delusione del protagonista con una serie di interrogativi, di dubbi, che ne mettono in risalto la fragilità soprattutto nei rapporti con l’altro sesso. Così sicuro e sereno nel suo lavoro (“un magistrato capace e colto, con un senso della giustizia temperato dalla sollecitudine per le pene del prossimo.”), il pretore Nicolai non lo è altrettanto allorché è colpito, stregato, dalla bellezza di una donna. Arriva ad incolpare se stesso per ciò che è accaduto: “Arrivò a giustificare la delusione di Giulia per il carattere d’un uomo – quale lui era – senza doti brillanti, né ambizione, né vanità, né spensieratezza; malinconico, fin da giovane; incapace di divertirla.” È la stessa timidezza che lo pervade quando un giorno nota una donna, Adriana, che sale da qualche tempo sullo stesso treno alla stazione di Pescia, “magra, un po’ più alta di lui, e coi capelli d’un biondo cenere, e un viso dagli zigomi sporgenti e dalle guance incavate: bello, pensoso, intelligente, lo trovava: con una profonda ruga, insolita in una donna, fra i grandi occhi limpidi, sopra la radice del naso appena un po’ curvo.” Accade che una volta gli sieda proprio davanti, attirando ancora di più la sua attenzione. Da quel momento è attratto da lei, e nello stesso tempo ha paura di farlo notare alla donna; perciò le sta lontano, addirittura sceglie un altro scompartimento. In questa lotta con se stesso e in questo desiderio di conoscenza, il pretore Nicolai rivive gli anni della sua adolescenza trascorsi in treno con suo padre, e dunque quel treno che lo riconduce a casa dal lavoro diventa per lui, di nuovo, “il treno del sogno. Timidamente il pretore Nicolai vi dava spazio, pur senza illusioni, al suo bisogno di felicità.” In quel breve viaggio, che sì e no ha la durata di mezz’ora, sopra una cosa banalissima, come può essere un treno al giorno d’oggi, il protagonista, quindi, sta ritrovando intatte e pronte a fiorire di nuovo tutte le ragioni della sua vita. Gli sembra che Adriana “lo inondasse, toccandolo fino alla radice di quel rapporto con la vita, che per lui era ancora un groviglio d’attese, d’inconfessate speranze.” L’amore, perciò (anche se il protagonista pensa a “un rapporto di amicizia – e nulla più – che lui chiedeva.), ha nel romanzo una funzione chiave; è il sentimento che riesce a dare una direzione e un senso alla vita: “la vita esplodeva, e ogni cosa intorno pareva cambiata di senso e come rigenerata, in uno sconvolgimento, con cui d’ora in poi doveva fare i conti.” È proprio ciò che accade al pretore Nicolai che, prima afflitto dalle pene del suo matrimonio mal riuscito – come era stato fallimentare quello dei suoi genitori -, ora vede sgorgare in sé una vitalità, una euforia, una disponibilità verso gli altri, sconosciute: “l’amore lo poteva aprire alla comprensione del dolore universale.” A poco a poco il rapporto con Adriana si libera da ogni impaccio, e i due si legano di aperta e sincera amicizia. Saltini traccia, anche con la sua scrittura, un percorso decisamente d’impronta romantica, in cui non mancano, tuttavia, le ragioni esistenziali che incatenano gli esseri umani ai travagli, alle incertezze, ai dubbi, alle caduche gioie e ai dolori della vita. Il protagonista si rende subito conto che in lui sta nascendo qualcosa che non aveva mai provato prima. Con Giulia aveva avvertito un sentimento diverso, che ora scopre non essere stato per niente l’amore. L’amore è quello che sente di nutrire per Adriana. Lo riconosce, anche se è la prima volta che affiora in lui: “Quest’amicizia amorosa fra uomo e donna era forse, si chiedeva, una condizione migliore e più perfetta dell’amore sessuale? uno stato più assoluto e liberatorio? più umile e nobile? incorruttibile perché disinteressato? senza dolore perché senza egoismo?” È l’amore sublime, perfetto, che si sazia del solo sentimento; che, alla fine, seppure in mezzo a mille tormenti, a mille tentazioni (“Lui sedeva cupo in un angolo del giardino o del salotto, ossessionato dal desiderio, e lei gl’impediva di parlare d’amore.”), non ha bisogno di alcun contatto fisico per appagare l’innamorato. Quella mezz’ora di viaggio, quei brevi dialoghi nella sala d’attesa alla stazione di Pescia sono stati capaci di costruire “una storia già lunga – comune a loro due e ignota a tutti gli altri -; e ne provocavano, di giorno in giorno, l’irreversibile sviluppo, tanto decisivo ormai, per il pretore Nicolai, quanto la storia stessa del mondo.” Machado, come in Tabucchi Pessoa, fa un po’ da filo rosso che attraversa il romanzo con le sue molte implicazioni romantiche: dall’amore, alla solitudine, alla malinconia. A Lucca, presso il Caffè Di Simo, frequentato da artisti, c’è il Prof. Diodati, che ha fama di esperto del poeta spagnolo, ma Nicolai non riesce a vincere la sua timidezza e, pur essendo riuscito ad avvicinarlo, non ha il coraggio di confidargli la comune passione. Nicolai porta la sua solitudine in giro per le piccole strade della città: racchiusa in sé, proprio come sono nascosti gli splendidi orti lucchesi alla vista del passante: “quei poetici orti stretti fra le case, che inaspettati si possono svelare alla vista di chi s’addentri in un vecchio palazzo lucchese.” Anche la città lo ammalia “con quelle sue strade che, per quanto strette, s’incrociavano in slarghi e piazze ariose, da cui – fra i palazzi del Cinque o Seicento e il marmo bianco delle chiese romaniche – si vedevano susseguirsi, a cannocchiale, i profondi scorci d’altre strade e piazze…” L’amore per Adriana sta trasformandosi in un sentire delicato, in una tenerezza nuova, che vanno ben oltre la donna e abbracciano ciò che lo circonda, la città, il paesaggio, ma anche gli uomini che gli si muovono intorno. Essendo salito sulla collina, dove si trova la villa di Adriana, in occasione dei funerali del marito, egli si ferma a mangiare nell’osteria del paese: “si guardò intorno. Al tavolo più vicino giocavano a scacchi un prete gigantesco e uno spilungone calvo in velluto marrone, che accanto a sé, appoggiato alla sedia, teneva un violoncello. Agli altri tavoli, parecchi contadini giocavano a carte, e li osservava in silenzio un vecchietto lacero, che sbatteva di continuo le palpebre.” Il confronto di sé con gli altri ne discende di conseguenza. Come aveva analizzato l’amore platonico per Adriana, ora misura la sua timidezza e la sua pigrizia con l’energia vitale degli altri. Picchiotti, soprannominato per la sua statura e la sua bruttezza “il nano Telesio”, quando insegnava al ginnasio di Lucca non riusciva a reagire agli scherni dei colleghi e anche dei suoi studenti; andato in pensione e ritiratosi nel paese di Adriana, era riuscito, invece, a manifestare a pieno la sua vitalità ed aveva fatto costruire, salendo gli scalini di molti palazzi del potere, una strada e una scuola per i suoi paesani, che per gratitudine gli avevano eretto, dopo la sua morte, un monumento: “La piazza del paese non aveva mai avuto neanche un busto di Mazzini o di Garibaldi. Ora aveva Picchiotti, ‘vivo tal quale!'” Al contrario, per il pretore Nicolai “nessun segno sarebbe rimasto del suo passaggio sulla terra.” È un motivo ricorrente, questo, della paura, ossia, di non essere capace di legarsi in qualche modo al suo tempo per essere ricordato. Scrive poesie, ispirandosi al poeta preferito, ma sa che sono una minima cosa (“quello che buttava giù non riusciva a sollevarsi dalla banalità e dal patetico.”), se non il niente. Anche l’amore per Adriana è destinato a disperdersi nell’oblio. Ciò che si avverte in questa storia, dunque, è la lenta mutazione del protagonista: dalla sua malinconica percezione del nulla si avviano uno sviluppo e una crescita che gli vengono da un amore tutto speciale, il quale, pur “ingolfato di desiderio”, può fare a meno dei sensi, e che sembra, proprio per questo, in grado di rivitalizzare, se non addirittura ricostruire, l’intera sua personalità. Ci accorgiamo che il protagonista, senza forse avvedersene, sta cambiando se stesso, sostituendo all’io di cui si sentiva cosciente fino ad allora, l’altro io mantenutosi nascosto nelle profondità della sua anima e che comincia gradualmente ad affermarsi, seppure ancora in modo indistinto e irriconoscibile. A differenza del caduco dipinto che troviamo ne “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde, in cui la sempiterna giovinezza promessa si tramuta in un orrido raccapricciante, qui si dà la sensazione di un percorso inverso, risanatore e rivelatore ad un tempo, compiuto dal protagonista. Anche nei momenti di solitudine, ad esempio quando Adriana si è trasferita a Bagni di Lucca, non s’interrompe questa mutazione, alimentata da un interesse più intenso verso la poesia di Machado, che ha qui la funzione di scavo e di messa a nudo, di chiarificazione, di una personalità nascosta e prigioniera. Allorché si reca a farle visita, la bellezza del luogo lo ammalia, e il mormorio delle acque della Lima scandiscono in lui una specie di rivelazione: “E quel mormorio distante gli confermava – come un richiamo – il bisogno di una vita di dolce comunione. Che sarebbe rimasta un desiderio? O già, così sognandola, la viveva?” Il contatto con Adriana, guardarla, pensarla, è, in realtà, il contatto con se stesso. Il romanzo ha un solo protagonista, tutto sommato, e ciò che si muove intorno a lui, altro non è che uno specchio dentro cui egli misura inconsciamente i lenti, forse impercettibili, passaggi della sua mutazione. Nei momenti in cui giganteggia la figura di Adriana, con la sua vitalità, “quella serena sicurezza”, ma anche con le sue inquietudini, è in realtà la figura del protagonista che si pone al centro. La vedovanza di Adriana alimenta presto in lui il desiderio dei sensi. Una tentazione fortissima, indotta da una mal riposta speranza. Trova il modo di trattenersi nella casa di lei anche di notte, incoraggiato dalle figlie di Adriana, Livia e Ilaria, con le quali è riuscito a stabilire un buon rapporto. Il desiderio di andare in camera sua lo dilania. Una notte vince la sua paura, bussa alla porta, entra. È un fiasco completo. Adriana lo respinge, “prendendosi il viso tra le mani.” Lo invita a lasciare la casa e a non incontrarla più per qualche mese. Così il pretore Nicolai, sul treno che lo riconduce a Lucca, riflette e si rende conto che prima che Adriana restasse vedova, egli “s’era sentito pago per tutti quegli anni, prima che, alla morte del marito di lei, gli si svegliasse la speranza!” È una riflessione importante nel cammino di questa non facile mutazione. Continua: “S’era fondata, quella felicità, sulla mancanza di pretese, di propositi, sulla totale, umile dedizione d’amore e quasi dimenticanza di sé, senza nulla chiedere, nulla avere in cambio, se non quella luminosa presenza di mezz’ora su un treno.” Comincia, dunque, a farsi strada in lui la consapevolezza che è possibile un punto di contatto diverso con l’amore, che richiede un mutamento radicale, penoso e doloroso, difficile e complicato, ma necessario, del proprio io. È davvero possibile una tale mutazione? Può la realtà, con le sue tribolazioni e le sue spietatezze, provocarla e può l’amore condurla a compimento? Il romanzo, così apparentemente semplice e intriso di romanticismo (il romanticismo è nato con l’uomo insieme con l’amore), si pone, in realtà – con una scrittura mai drammatica o gridata -, problemi esistenziali assai complessi e profondi, tali da trasformare radicalmente una coscienza.

Il dialogo che si svolge tra monsignor Vittorio Bartolomei e il pretore Nicolai, alla presenza di Adriana, che va spesso a trovare lo zio prete, può essere letto come un preludio di quanto accadrà presto nel suo animo. Adriana mostra qui, infatti, per la prima volta i segni di una diversità nei confronti del protagonista, alla quale egli non aveva fatto mai caso prima di quel colloquio il quale, andato per le lunghe, aveva finito per indispettirla per ragioni che gli erano apparse misteriose. Quel desiderio di un contatto fisico con la donna amata, che aveva turbato molte notti insonni del protagonista, e che aveva avuto un primo ridimensionamento con il rifiuto di Adriana (quella notte che lui avrebbe dovuto trascorrere in casa di lei), ora ne subisce un altro provocato da un risentimento oscuro della donna, partita in tutta fretta dalla casa dello zio, infastidita e imbronciata. Con tutto ciò, l’amore del pretore Nicolai non subisce alcun mutamento. Anzi, si rafforza a mano a mano che egli, attraverso questo amore, comincia a conoscere se stesso. Ci si convince sempre di più che Saltini, con questo romanzo, non ha inteso narrarci una semplice e banale esperienza di vita, una amara lezione che l’amore non corrisposto può impartire, ma illuminarci su di un sentimento più grande che, germogliato dall’amore terreno, è in grado di produrre nell’uomo un mutamento definitivo e rivelatore. Una trasfigurazione. Quando il protagonista comincia a sospettare una relazione tra monsignore e Adriana, l’autore scrive: “E per questo soffriva di più, il pretore Nicolai, e non l’amava di meno.” Adriana gli confermerà questa relazione; lo zio, poco dopo, rinuncerà al sacerdozio e i due amanti si sposeranno civilmente. Ancora l’autore scrive: “Senza rivedere Adriana né il suo nuovo marito, era tornato a considerare il ‘dottor Bartolomei’ (ormai) uno degli uomini più degni che avesse conosciuto.” È da questo momento che quell’amore nuovo produce i suoi frutti, e il protagonista, pur solitario e malinconico, trova nello sguardo che rivolge alla sua città gli accenti di una sensibilità rinnovata. Ancora il suo poeta preferito, Machado, gli offre una tale rivelazione: “Troppo forte era ancora il rimpianto? E accecato l’amore? Del cui fallimento Machado chiamava pur figlie conoscenza e poesia!” Nasce dal desiderio, dalla trepidazione e dal fallimento dell’amore per Adriana, il nuovo che lo pervade e lo illumina: “Si canta quel che si perde.” Si produce in lui una lenta trasmigrazione dentro la realtà, una cosmogonia di cui si sente parte infinitesimale, ma autentica, consapevole e imperitura: “Sempre più s’accorgeva, il pretore Nicolai, di quanto poco ci fosse di suo anche in quel che pensava e faceva. Ripetendo quasi tutto senza saperlo, ciascun uomo ricominciava la vita, riscopriva tutto il bene e tutto il male; tutta la gioia e tutto il dolore (‘non c’è altra luce né altra notte’). E solo facendo tesoro di quel che gli altri avevano capito, imparava forse a distinguere la parte – esigua – in cui poteva essere diverso e unico.” Il libro ha raggiunto qui l’apice della sua bellezza. Una comunissima storia d’amore, con gli inganni e le delusioni che sempre ne discendono quando esso non è corrisposto, offre a Saltini l’occasione di scavare nell’animo umano, per ricercare e trovare la scintilla di quell’amore universale, spesso sconosciuto ed inavvertito, che fiorisce sempre in ciascuno di noi allorché il sentimento si è fatto acuto e doloroso: “Poiché non hai potuto dedicare la tua vita a chi più amavi, dedicala a tutti, a chiunque abbia bisogno!” Il protagonista vi arriva attraverso la poesia, ma anche la ragione svolge la sua parte considerevole. L’analisi è condotta, infatti, senza godere di alcuna indulgenza ed è assistita dalla poesia (che manifesta il suo esserci nella stessa scrittura) ogni qualvolta occorra superare i confini delle umane debolezze: “Com’era vissuto? E come – invece – bisognava vivere?” L’amore di Ilaria, la figlia di Adriana, che incontra inaspettatamente nel duomo di Lucca, è la sola gioia che egli riesce a godere nella vita giunta, infine, al suo termine, ma è tale la forza che ne promana – quasi un premio al sacrificio e al mutamento – da spalancargli quell’ascesa, o meglio, quella trasfigurazione dello spirito che arriva con la morte.


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Bart