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Scheda rifiutabile. Ma l’elettore non sarà conteggiato

30 Gennaio 2013

di Francesco Cerisano
(da “ItaliaOggi”, 30 gennaio 2013)

Gli elettori che, dopo es ­sersi fatti registrare al seggio, si rifiutino di ritirare la scheda e chiedano di verbalizzare le ragioni della loro protesta, po ­tranno farlo, ma non saranno conteggiati tra i votanti della sezione elettorale. Il loro dis ­senso, insomma, sarà messo agli atti, ma ai fini della rile ­vazione dell’affluenza alle urne sarà come se fossero rimasti a casa. Come anticipato da ItaliaOggi (si veda il numero del 24 gennaio scorso), il Viminale ha deciso di intervenire sulla «astensione attiva » propagan ­data sul web come alternativa al non-voto per coloro che non si sentono rappresentati dai partiti in lizza nella prossima tornata elettorale del 24 e 25 febbraio. La nota n. 19/2013, firmata da Nadia Minati, di ­rettore centrale servizi eletto ­rali del ministero dell’intemo, è indirizzata a tutti i prefetti (nonché ai commissari di go ­verno delle province di Trento e Bolzano e al presidente della regione Valle d’Aosta) affinché informino, attraverso i sindaci, i presidenti di seggio. E trae ori ­gine dalle numerose richieste di chiarimenti giunte nei giorni scorsi dagli operatori. Il mini ­stero ammette che sul punto un vuoto normativo c’è. Il dpr sulla procedura di voto (n. 361/1957) contempla infatti solo l’ipote ­si (art. 62) che l’elettore, dopo aver ritirato la scheda, non si rechi in cabina e la riconsegni, determinandone così la nullità. In questo caso, spiega la circola ­re, «l’elettore dovrà essere con ­teggiato tra i votanti e la scheda dovrà essere dichiarata nulla e inserita nell’apposita busta secondo le istruzioni in dota ­zione ai seggi ». Il rifiuto della scheda, invece, non trova una specifica disciplina normativa, ma, ammette il Viminale, «non può certamente ritenersi vieta ­to ». Gli elettori, infatti, spiega, il dipartimento affari interni e territoriali, possono sempre chiedere al presidente del seg ­gio di voler ritirare solo alcune schede e non tutte per le consul ­tazioni in corso (ipotesi molto frequente nei referendum). Ma l’«astensione attiva » che corre su internet è cosa diversa per ­ché muove dall’ipotesi che l’elettore voglia rifiutare tutte le schede e chieda di mettere a verbale la propria decisione. Come comportarsi allora?

Il ministero consiglia ai pre ­sidenti di seggio di verbalizzare «in maniera sintetica e veloce » la protesta dell’elettore in modo da «non rallentare il regolare svolgimento delle elezioni ». Dovranno essere annotati le generalità e il motivo della pro ­testa e anche eventuali scritti che l’elettore voglia consegnare al seggio dovranno essere alle ­gati al verbale. Ma, per quanto riguarda la rilevazione del nu ­mero dei votanti, il ministero non ha dubbi: «coloro che rifiu ­tano la scheda non dovranno essere conteggiati tra i votanti della sezione ».


Quando il suocero di Casini scese dal Monte
di Paolo Bracalini e Gian Marco Chiocci
(da “il Giornale”, 30 gennaio 2013)

Quando ad ottobre 2007 Pier Ferdinando Casini e Azzurra Caltagirone, figlia del costruttore e finanziere romano Francesco Gaetano, si ritrovano nel palazzo comunale per unirsi in matrimonio, con loro c’è il gotha della finanza e della politica sull’asse Roma-Siena.
A cominciare da Mussari. Uno sposalizio che seguiva un’altra unione, quella tra l’impero di Caltagirone e il Mps, di cui il finanziere diventa vicepresidente e principale azionista privato già dal 2004. Pochi giorni dopo i fiori d’arancio, ovviamente per puro caso, si perfeziona l’affare Antonveneta, con Caltagirone vice di Mussari.
Il rapporto tra il suocero di Casini e principale finanziatore dell’Udc, e Mussari, sono molto solidi, quasi come il cemento. Vicini come i due sponsor della squadra di basket cittadina, la Mens sana: il Monte dei Paschi, í§a va sans dire, e poi Leggo, il free press della Caltagirone editore. Vicini al punto che quando Caltagirone, a gennaio 2012, si deve dimettere dal Cda di Mps per incompatibilità dopo un inciampo giudiziario (vicenda Bnl), molti daranno una lettura diversa. Il Sole24Ore lo inquadrò come un anticipo dell’uscita di scena da Mps di Mussari, garante di quegli equilibri azionari. I tempi combaciano, Caltagirone esce dal Monte a gennaio 2012, Mussari tre mesi dopo, per prendere posto alla presidenza dell’Abi. «Mussari presidente Abi? Lo farebbe in maniera eccezionale », rispose Caltagirone prima della nomina. Dunque il finanziere resta in Mps fino alla fine del 2011, per tutto il periodo in cui avvengono le operazioni contestate dalla Procura. L’organo di controllo interno, cioè il collegio dei sindaci di Mps, è guidato dal professor Di Tanno, già consulente di Visco, ma pure professionista vicino a Caltagirone, essendo stato nel Cda della Caltagirone Spa e anche editorialista del Messaggero, quotidiano dell’ingegnere. All’ultima assemblea ordinaria, nell’aprile 2012, una sua affermazione sull’acquisto di Antonveneta scaldò gli animi dei soci di minoranza. «Il valore patrimoniale della banca (Antonveneta, ndr) era di 2,3 miliardi e fu acquistata per 9 miliardi ». Se seguiamo le linee di credito di Mps o della sua Antonveneta spesso troviamo dall’altro capo società del gruppo Caltagirone (Cementir, Immo 2006 Srl, Immobiliare Caltagirone, fino all’Acea romana di cui è principale socio privato), come pure si dice che Caltagirone abbia affittato immobili alla Mps per le sue filiali. Normale collaborazione tra gruppi e banche. E forse anche con la politica, visto il voto di fiducia dato dall’unico consigliere comunale Udc al sindaco Ceccuzzi, sfiduciato dalla parte cattolica del Pd (il Comune è caduto a maggio ). Casini si è detto non favorevole ad una commissione inchiesta sul caso Mps. E qualcosa, in quel mondo tra Udc e Mps, si sta muovendo ancora, visto che Alfredo Monaci, ex Cda di Mps, è nella lista Monti-Casini-Montezemolo. Tutto andava bene, finche l’ingegnere non ha sentito puzza di bruciato a metà 2011. Lo raccontano i verbali dei Cda. Quando Caltagirone chiede se il portafoglio della banca sia ben bilanciato o se ci siano delle criticità. Viene rassicurato, ma forse non convinto. Poco dopo le dimissioni. Provvidenziali, se si guarda a quel che succede ora a Rocca Salimbeni.


Il caso Mps e la crisi del Pd
di Arturo Diaconale
(da “L’Opinione”, 30 gennaio 2013)

La linea di difesa adottata dal Pd sulla vicenda Monte dei Paschi di Siena fa acqua da tutte le parti. Non solo perché pretendere di mettere sullo stesso piano l’istituto senese, il Credito Cooperativo fiorentino di Verdini e Credieuronord della Lega all’insegna del “così fan tutti” supera abbondantemente il limite del ridicolo. Ma soprattutto perché la tesi di fondo secondo cui il Pd fa il Pd e le banche fanno le banche, cioè che non esiste alcun rapporto strutturale tra il maggior partito della sinistra e la più antica banca del mondo, viene concepita dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica nazionale come una balla colossale che nasconde chissà quali inconfessabili misteri.

Naturalmente i dirigenti del Pd non hanno torto quando rilevano che il caso Mps è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno, come quello delle fondazioni espresse dal territorio che partecipano al capitale della banca di riferimento, che è esteso all’intero sistema bancario. Ma questa ragione è fin troppo debole di fronte al fatto che da settant’anni la sinistra senese tiene sotto controllo stretto Mps e che da almeno vent’anni, prima il Pds e poi il Pd, hanno spostato la loro attenzione dalle fabbriche alle banche nella convinzione che solo attraverso una ampia quota di controllo del sistema bancario il partito erede del Pci può svolgere efficacemente la propria azione politica. Nell’immaginario collettivo, in sostanza, il partito un tempo avanguardia della classe operaia è diventato il partito dei banchieri. Di quelli che hanno da tempo una banca (Mps), che ne volevano una seconda (Bnl) e che si vantano se tra i loro simpatizzanti ed elettori figurano gli uomini di spicco del sistema bancario. Non è forse vero che l’attuale presidente del Monte dei Paschi, Alessandro Profumo, cioè chi dovrebbe portare fuori dalle secche dello scandalo dei derivati l’istituto senese liberandolo dai condizionamenti della politica, ha fornito una dimostrazione precisa delle proprie simpatie politiche partecipando al voto delle recenti primarie del Pd?

La debolezza della linea di difesa dei vertici del Pd di fronte al caso Mps, dunque, dipende dal rifiuto di prendere atto di una radicata convinzione collettiva e dal non comprendere che la vicenda mette in discussione la scelta strategica fatta al momento in cui alla presenza nelle fabbriche è stata preferito il controllo dei consigli di amministrazione delle banche. In tempi diversi il tradizionale controllo dei media da parte del Pd avrebbe permesso di nascondere la debolezza e difendere la linea della scelta bancaria svalutando le critiche e le accuse come il prodotto del solito e vetusto anticomunismo viscerale della destra conservatrice.

Ma il problema di oggi è che l’attacco alla credibilità del Pd non viene solo dagli avversari tradizionali del centrodestra o del centro ma è lanciato soprattutto da quelle forze giustizialiste ed estremiste che si sono poste alla sinistra del partito di Bersani e che gli contestato non tanto il controllo di Mps quanto il tradimento della vecchia classe operaia e degli ideali del passato. I sondaggi degli ultimi giorni parlano fin troppo chiaro. Il Pd perde consensi a tutto vantaggio di Ingroia e di Grillo e vede progressivamente svanire la prospettiva, che solo in autunno sembrava a portata di mano, di poter conquistare il governo del paese senza condizionamenti di sorta. La causa è il “destino cinico e baro”? O è la circostanza che presto o tardi i nodi vengono al pettine e la pretesa di essere al tempo stesso di lotta e di governo, degli operai e dei padroni, dei poveri e degli speculatori diventa sempre più insostenibile?


Mps, l’allarme (inascoltato) dei sindaci
di Fabrizio Massaro
(dal “Corriere della Sera”, 30 gennaio 2013)

SIENA – C’è anche la Fondazione Mps, primo socio al 34% e ora indebitata per 350 milioni dopo essersi svenata nell’ultimo aumento di capitale da 2,2 miliardi dell’estate 2011, sul banco degli imputati per non avere diversificato il patrimonio, restando abbarbicata al 51% secondo le indicazioni della politica senese. E questo nonostante i sindaci del consiglio di amministrazione della Fondazione (la deputazione) avessero lanciato l’allarme: troppo rischioso concentrare il patrimonio (fino a quasi il 90%) su Mps, per di più indebitandosi per 600 milioni con un contratto che non prevedeva coperture contro un calo del titolo.

Una scelta ancor più non avveduta considerando che la Fondazione preseduta da Gabriello Mancini aveva già un precedente prestito sulle spalle per 490 milioni con Credit Suisse e Mediobanca per il famoso bond «fresh », quello servito a Mps per pagare Antonveneta e ora sotto la lente dei magistrati. Ieri anche il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, ha detto che la Fondazione è «in ritardo » nel completare «il percorso di diversificazione del portafoglio e del rischio ».
Del parere negativo dei sindaci Giovanni Marabissi (presidente) Luigi Borré (Tesoro) e Anna Molinari – atto rimasto riservato perché interno – il consiglio però non tenne conto. L’allora direttore generale Marco Parlangeli, contrario, venne messo nelle condizioni di andarsene. Dalla Fondazione si giustificano: «C’erano da rispettare le indicazioni del Comune di non scendere sotto il 51%, in quel periodo la Banca d’Italia chiese a tutte le banche aumenti di capitale, il Tesoro ci autorizzò a indebitarci. E poi c’erano gli advisor ».

Le banche incaricate, Credit Suisse e Rothschild, però non avrebbero consigliato di seguire l’aumento; avrebbero piuttosto detto: «Visto che hai deciso di farlo, ti diciamo come faresti meglio a indebitarti », racconta un banker che fu protagonista dei fatti. «Il consiglio fu di prendere una protezione in caso di crollo del titolo Mps ».

Ma la Fondazione non diede retta agli advisor e scelse un finanziamento in pool di 11 banche coordinate da Jp Morgan, tecnicamente «margin loan »: in sostanza più il titolo scende, più azioni mi dai a garanzia. Solo che le azioni (allora il 51%) già dovevano servire a garantire il precedente prestito. «Anche con il Fresh la Fondazione si accollava il rischio che il titolo scendesse, ma allora il valore era alto e le azioni tutte disponibili », racconta un’altra fonte. Così, quando a fine 2011 Mps in Borsa si avvicinò alla soglia di circa 20 centesimi Palazzo Sansedoni si trovò senza azioni libere (le aveva date man mano tutte in pegno) e dovette rinegoziare i prestiti con Credit Suisse e Mediobanca, che altrimenti si sarebbero prese non meno dell’8% di Mps. E per recuperare in poco tempo più di 600 milioni dovette vendere a poco prezzo i gioielli di famiglia, cioè Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Cassa depositi e prestiti.


Tremonti sbrana il suo ex vice Grilli
dì Fabrizio d’Esposito
(da “il Fatto Quotidiano”, 30 gennaio 2013)

Chi vorrebbe sbranare tutti, per usare un verbo bersaniano, è Giulio Tremonti, an ­sioso di rifarsi una verginità politica con la sua nuova pelle leghista. La prima provocazio ­ne è un cinguettìo sul solito Twitter: “Dov’è Monti?”. Ma il suo vero nemico, tirato in ballo più volte, è ovviamente Mario Draghi, l’ex governatore di Bankitalia oggi alla Bce.

Sala del Mappamondo, Monte ­citorio. A meno di un mese dal ­le elezioni politiche, le com ­missioni Finanze di Camera e Senato si riuniscono per sentire il ministro Vittorio Grilli sullo scandalo Mps. L’audizione è stata richiesta dall’ Italia dei Va ­lori e risente di questo strano clima di transizione. Il premier non è più tecnico ma politico e parecchi parlamentari annun ­ciano che non si sono ricandi ­dati. In più la tragedia senese si trasfigura in una commedia elettoralistica in cui il Pd, gran ­de accusato, tenta di giocare un ruolo defilato, facendo parlare Luigi Zanda e non Francesco Boccia, reduce da uno scontro, sempre su Twitter, con Tre ­monti. Alle tre del pomeriggio, orario di inizio dell’audizione, il partito di Bersani arriva ac ­cerchiato. Fuori, c’è già stato l’affondo di Beppe Grillo che ha chiesto una commissione d’in ­chiesta e le dimissioni del can ­didato premier del centrosini ­stra da segretario del Pd: “Mps fa impallidire non solo Parmalat ma anche il fallimento del Banco Ambrosiano, dietro a questo colossale saccheggio, come avvenne allora, ci può es ­sere di tutto. Craxi, in confron ­to, rubava le caramelle ai bam ­bini”. Bersani cerca di sbranare Grillo: “Non accetto lezioni da un autocrate da strapazzo”. Ma si adegua alla richiesta di una commissione:     “Perché no? Non ho problemi”.

Nella Sala del Mappamondo, Grilli ha appena finito di par ­lare quando ha l’inizio lo show di Tremonti, che non condivi ­de l’ordine dei lavori imposto dal presidente Gianfranco Conte del Pdl: possono parlare solo i capigruppo o chi si iscrive in dissenso dal partito di appar ­tenenza. Tremonti vuole inter ­venire a prescindere da questa “dialettica binaria” e minaccia una “conferenza con la stampa estera”. Il leader dell’Udc Ca ­sini sente puzza di campagna elettorale e chiede di fare un’ec ­cezione per Tremonti: “Nessu ­no gli vuole fare un piacere del genere”. L’ex ministro, dispet ­toso: “Visto che me lo dici la faccio lo stesso”. L’ex Divo Giu ­lio del berlusconismo vuole fa ­re il primo della classe. Finalmente si inizia. Mario Baldassarri di Fli è l’omologo di Conte al Senato, presidente della commissione Finanza di Palazzo Madama, e ci tiene a chiarire: “Non sono parente di Gianluca Baldassarri”, uno dei nomi dell’inchiesta su Mps. Si alza Alfano. Un comizio, il suo. Come Grillo, accusa il Pd e vuole una commissione d’in ­chiesta. Attacca Monti, che si comporta come “un turista che passa per caso” e rievoca lo scandalo della Banca Romana, citando la Sinistra storica. Non dimentica le “tangenti miliar ­darie in euro”. Il leghista Gio ­vanni Fava paragona Grilli a un “notaio imbarazzato” e poi toc ­ca a Casini che fa sedere il suo collega di partito Galletti, già pronto per intervenire. L’Udc cincischia sulla commissione d’inchiesta (il suocero Caltagirone è stato vicepresidente di Mps con Mussari) e difende Monti e Grilli, “impeccabili”. Zanda, il prescelto del Pd, parla prima di Tremonti. Toni bassi per “la relazione monto pun ­tuale” di Grilli e un sussulto in coda: “Mi ha stupito l’interven ­to dell’onorevole Alfano che ha dimostrato di non interrompe ­re la campagna elettorale. Tre ­monti si alza alle 17 in punto. S’intesta il copyright del para ­gone con lo scandalo della Ban ­ca Romana (ma Tremonti si sbaglia, perché il primo a parlarne sono stato io su questo blog, qui. bdm), difende i Tremonti-bond e se la prende con i pre ­senti, in primis il suo ex diret ­tore generale Grilli, e gli assen ­ti. Tre per la precisione: Dra ­ghi, Visco e Monti. Morale: “Bankitalia aveva in cassaforte un documento su cui era scritto tutto”. Dopo la replica di Grilli, è Brunetta a fare un altro show. Contro gli odiati Grilli e Monti: “Ridicoli giochi di parole per nascondere la nazionalizzazio ­ne di fatto della banca”.


E adesso ci devono spiegare

di Alessandro Saluusti

(da “il Giornale”, 30 gennaio 2013)

Da oggi la finan ­za legata alla sinistra ha un nome: quelli del 5 per cento, che è il valore delle tangenti che i signori trattenevano per sé. La pre ­sunta superiorità morale ed etica di quel mondo sta crollando sotto i colpi di una inchiesta, quella sulla banca Monte dei Paschi, che il cauto procuratore di Siena ha definito ieri «esplosiva ». Il buco creato dai banchieri del Pd lo ab ­biamo già tappato noi, ver ­sando quei quattro miliar ­di di Imu sulla prima casa che corrispondono alla somma girata a Siena dal governo Monti per tamponare il buco e salvare la baracca.

Ora Bersani la smetta di minacciare. Ci sbrani, se vuole mantenere la parola data per tentare di silenzi re il caso. Ma credo che il suo problema sia oggi quello di non essere rincor ­so con i forconi dai suoi elettori, truffati dalla ban ­ca e beffati dall’uso disin ­volto di euri pubblici fatto dai consiglieri Pd della Regione Lombardia (20 inda ­gati, compresi i soci che fanno capo a Di Pietro). Ma anche Monti la deve smettere di fare il santarellino indignato. Il suo go ­verno ha dato, di fatto, co ­pertura economica e me ­diatica a quello che è il più grande scandalo bancario della Repubblica. Di più. Il suo ministro dell’Econo ­mia, quello dell’Imu, del rigore, dell’aiuto al Montepaschi, del «non abbiamo soldi per i terremotati », quello che ieri si è presen ­tato in Parlamento per autoassolversi, non la rac ­conta tutta. Per esempio, lui che all’epoca era già ai vertici dell’economia ita ­liana, non ha spiegato co ­me mai il Monte dei Pa ­schi gli concesse un mu ­tuo superiore al valore del ­la casa che stava per com ­perare. Prassi anomala, con i tempi che corrono è già tanto se a un comune mortale le banche finan ­ziano il 50 per cento del necessario.

Insomma, Bersani e Monti volevano farci fessi, con i loro loden e le loro pri ­marie democratiche. Per fortuna non è che tutti gli altri sono «qui a pettinare le bambole », come ama dire il leader del Pd. E adesso che lo spieghino agli elettori cosa è successo. E ci restituiscano i soldi dell’Imu, che noi in questo schifo non c’entriamo nulla.


Altri interventi: Maurizio Belpietro (circa le conseguenze sui contribuenti) qui; Stefano Feltri (le conseguenze in Europa e la Germania contro Draghi), qui; Lettera di Marcello Veneziani a Napolitano, qui; Vittorio Feltri su Fini e Casini, qui;


Franca Rame: Lettera d’amore a Dario, qui.


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Bart