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MUSICA: I MAESTRI: La passione di Penderecki

29 Giugno 2013

di Gioacchino Lanza Tomasi
[da “La fiera letteraria”, numero 12, giovedì, 21 marzo 1968]

Roma, marzo

Si può condividere o meno la stron ­catura della Missa solemnis (T.W. Adorno) ma essa mette il dito nella piaga; amo la Missa solemnis e allo stesso tempo apprezzo la denuncia dell’equivoco che da un paio di secoli si annida in ogni composizione dichia ­ratamente sacra. Anche senza collega- menti sociologici, metodi d’indagine a vasto raggio, è innegabile che la musi ­ca sacra da Beethoven a oggi è per ­meata di retorica, una retorica che va ben oltre il ricorso alle forme consa ­crate (fuga corale, polifonia a cappel ­la, gregoriano), ma si annida nelle stesse premesse del genere sacro, il quale a dir poco va trattato, e quel che è peggio è trattato, con spirito pe ­dagogico e didascalico.

Oratori e messe son spesso gran monumentoni bronzei con tanto di deco ­ro e significato, retorici appunto in quanto restano al di sopra dell’individuo, Umile, piccolino e problematico; essi invece vogliono impersonare fatti collettivi, sono il perpetuarsi della Ro ­ma imperiale nel mondo moderno, di ­gnità dello Stato, della religione, del ­l’ordine costituito. Non è detto che tutto ciò conduca inevitabilmente allo stile littorio, ma alla poetica di quello stile sì. Qual più qual meno in questa celebrazione si danno la mano tanto il Verdi della Messa da Requiem e dei pezzi sacri che le fughe del Requiem tedesco, Honegger, Britten, Pendere ­cki, â— lo scrivo perché lo penso e sen ­za intenti di provocazione.

Il sacro ha una sua precisa prosopo ­pea e senza quella parrebbe a molti che la musica sacra mancasse al suo compito. I successi travolgenti e inter ­nazionali ottenuti da una Giovanna d’Arco al rogo, un War Requiem, in ultimo dalla Passione secondo San Lu- va di Penderecki son lì a dimostrarlo, e la prova del nove sarebbe nel tonfo scaligero della Messa di Stravinskij: non si perdona l’artista Che fa il sacro senza esser sacro, e allora bisogna di ­re almeno ch’è mistico per non accu ­sarlo di esser blasfemo.

A questo punto bisogna o ammette ­re un’arte retorica o rifiutarsi di ascol ­tare l’oratorio dell’Ottocento e del No ­vecento; d’altronde nel secondo Otto ­cento la retorica religiosa ha infuriato anche fuori del suo campo d’elezione, ed eccoti i gran monumentoni sacri e sinfonici di Bruckner e Mahler con i loro finali a maggior gloria di Dio.

Fatte queste premesse, secondo le quali consiglierei vivamente di inclu ­dere fra i capolavori di un’arte religio ­sa ottocentesca il Requiem di Fauré e di espungerne tanti altri, passiamo al ­l’ascolto della Passione secondo San Luca di Penderecki, prima esecuzione a Münster in occasione del settimo centenario della cattedrale (1965) alla presenza dell’arcivescovo e del capi ­tolo.

Qui come altrove nella sua produ ­zione sacra, le convenzioni retoriche del genere sono state accettate da Penderecki senza scrupoli. Artista tec ­nicamente dotato egli ha assimilato le scoperte foniche dell’avanguardia alie ­nandole dalle loro premesse poetiche e servendosene quali effetti virtuosi ­stici e provocatori. Anche nella musi ­ca d’intrattenimento â— è il lato della sua produzione che preferisco â— Penderecki individuo resta senza volto ed emerge soltanto il musicista funam ­bolo.

E’ un funambolismo che può esser posto al servizio degli orrori della guerra (celebri i Threni alle vittime di Hiroschima) come dell’arte sacra. Se non cinico almeno Penderecki è spregiudicato, in quanto sa scegliere i soggetti più adatti a ricevere la deco ­razione sonora di cui sopra, soggetti di attualità e nei quali la sua tecnica è destinata a elevarsi a monumento sul ­le ali dei contenuti. Se non si spregia il monumento in quanto tale, e si am ­mette l’esigenza di simboli retorici che fissino il sentimento collettivo di un’epoca, allora Penderecki è il musi ­cista monumentale di questo dopo ­guerra, ha toccato le punte massime del successo civile nei Threni, di quel ­lo sacro nella Passione. Riceve com ­messe di circostanza per le cerimonie di Auschwitz (Dies Irae del 1967) come Zadkine le ha ricevute per commemo ­rare la distruzione di Rotterdam, ado ­pera un linguaggio analogamente effi ­cace e moderno, fatto non di dettagli ma di prosopopea: la sua arte al servi ­zio della collettività è travolgente nel ­le scariche foniche, trascura l’analisi, il dubbio, l’autocritica.

La retorica civile è stata uno dei grandi temi del Novecento da Guernica in poi, e ha diciamo un suo linguag ­gio codificato abbastanza nuovo e con ­temporaneo, non così si può dire per la retorica sacra, la quale si trova im ­pastoiata in una tradizione devota con le sue fissazioni liturgiche. Accettare le convenzioni del genere sacro oltre alla solennità, allo scriver grande per eventi grandi, significa anche dover ri ­pescare qualche precedente linguisti ­co, nel caso particolare della Passione secondo San Luca, il gregoriano e il basso sulla parola Bach.

Trascuriamo la poetica e volgiamoci alla tecnica. Riesce Penderecki ad amalgamare i precedenti culturali con la violenza di effetti fonici che stanno a rappresentare la posizione cronologi ­ca della sua Passione nel mondo mo ­derno? Questa come è stato scritto è la passione vista dopo la bomba atomi ­ca e Auschwitz, ma al tempo stesso è quella di prima e quella di sempre con tutta la sua vernice culturale.

A mio avviso questo incontro nel ca ­so in esame lascia trasparire uno sfor ­zo del musicista alla ricerca di uno sti ­le; il tentativo è portato avanti con competenza ma non può dirsi che par ­zialmente riuscito. E’ indicativo in proposito che pur avendoci lavorato sopra per due anni Penderecki abbia rinunciato a musicare le parole dell’Evangelista affidate a un recitante. La genesi della Passione risiede nel suc ­cesso dello Stabat Mater (1962), riflui ­to poi nella seconda parte dell’opera maggiore. L’incontro fra religiosità dell’orrore e gregoriano è già integral ­mente definito nello Stabat, la Passio ­ne possiede altri pezzi che gli stanno alla pari ma nessuno diverso, cioè in anni di lavoro Penderecki non ha po ­tuto acquisire un’altra definizione lin ­guistica oltre quella del 1962.

Questo è il principale insuccesso della Passione e insieme la causa della sua macchinosità: l’aver dovuto pro ­trarre un pezzo riuscito alla misura dell’oratorio, inevitabile quindi il ri ­corso all’espediente invece che alla composizione. Espedienti, effetti, non altro sono la nudità delle arie solisti ­che (vi si tenta l’imbroglio punto mo ­derno di ritornare alla fissità ieratica della monodia, gregoriana e non, una sorta di recitar cantando liturgico do ­ve l’intonazione sta al posto della com ­posizione), il parlato dell’Evangelista, la rinuncia all’orchestra (Penderecki non la integra nell’originaria scrittura a cappella per triplo coro dello Stabat e l’orchestra si limita a colorire il te ­sto a chiazze sonore, con effetti spesso gratuiti di colonna elettronica).

Mancata sul piano dell’arte la Pas ­sione può invece considerarsi riuscita su quello liturgico â— abbiamo detto di una rinunzia, ma è lo stesso genere di rinunzia delle passioni di Schutz ri ­spetto a quelle di Bach â— cioè riflet ­tendo sul testo recitato o cantato e ap ­pena decorato dal suono, soffermando ­si sul commento policorale, immagi ­nando soprattutto di esser in chiesa invece che in un auditorio, l’effetto sa ­cro è potente, adeguatamente concilia ­re e quindi sulla cresta dell’onda come è stato decretato dal successo interna ­zionale dell’opera.

AU’infuori della liturgia resta ben poco, per il mio gusto oltre allo Stabat in primo luogo l’altro pezzo a cappella « in pulverem mortis deduxisti me », efficace nei suoi contrasti emotivi e nella contaminazione linguistica fra vecchio e nuovo, un po’ meno coeren ­te l’inno di apertura « O crux, ave spes unica » e la passacaglia « popule meus », ancor meno, per l’ibrida parte ­cipazione orchestrale, il finale « In Te, Domine, speravi ».

In questi pezzi l’arte non manca ed è prioritaria rispetto al testo, ma sol ­tanto a patto che il coro canti un poco più le note scritte dall’autore di quan ­to abbia fatto quello dell’Accademia di Santa Cecilia. Il discorso policorale di Penderecki sì basa infatti su chiare contrapposizioni armoniche: da un lato l’insistenza ossessiva su intervalli di seconda che si sommano verticalmen ­te in una sorta di « cluster » vocale, dall’altro precisi riferimenti a temi gregoriani o addirittura all’accordo perfetto.

Il mio orecchio sarà pressoché indif ­ferente all’intonazione esatta di una diecina di altezze concomitanti e dis ­sonanti fra loro (un accordo di tal ge ­nere è un timbro non una relazione armonica dialettica) ma è essenziale che il frammento tematico o l’accordo tradizionale emergano dal caos quali elementi d’ordine. Il recupero lingui ­stico della policoralità di Penderecki consiste proprio in questa proiezione improvvisa del tradizionale fuori di un magma informe; se invece, come a Santa Cecilia, il « paradisi gloria » del ­lo Stabat (accordo perfetto) viene fuo ­ri come accordo stonato, si resta smar ­riti prima e dopo. Ingannati, si potreb ­be fare il torto a Penderecki di crede ­re che egli abbia preparato per dieci minuti una risoluzione esplosiva al so ­lo scopo di non farla uscire mai.

In queste condizioni tecniche ben poco ha potuto raddrizzare la barca la direzione di uno specialista quale Jerzy Semkow, il coro di voci bianche di Bad Tölz e Salzburg e la voce liturgi ­camente ispirata di Andrzey Hiolski (Cristo); bravo il basso Boris Carmeli e discreto il soprano Marjorie Wright, sgradevolmente enfatica la recitazione di Ivano Staccioli.


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