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MUSICA: I MAESTRI: Monteverdi. I Gonzaga gli avevano messo la corda al collo

29 Settembre 2012

di Lionello Cammarota
[da “La Fiera Letteraria”, numero 24, giovedì 15 giugno 1967]

Pochi giorni or sono è cadu ­to il quarto centenario del ­la nascita di Claudio Mon ­teverdi, e ovunque si mol ­tiplicano le celebrazioni di tale ricorrenza. Relativamente inte ­ressa quel che riguarda il sem ­plice dato di cronaca sulla vita del Monteverdi, per un fatto che appare ovvio ai più sprovveduti; e cioè in quanto elementi come data di nascita e di morte, come le tappe di una vita quotidiana ­mente vissuta, con gli spostamen ­ti da centro a centro, o ancora il reiterato richiamo alla produzio ­ne artistica, non servono a met ­tere in luce lo spirito di un autore, né valgono a indicare i valori della sua arte, e tanto me ­no a far comprendere e a pene ­trare l’essenza dei significati di quel che l’invenzione e l’estro hanno esternato e concretato in immagini reali lasciate poi in re ­taggio ai posteri. Meglio dunque ignorare il fatto anagrafico e cronachistico.

« Ho patito a chiedere il mio »

E’ cosa nota che Monteverdi, giovanissimo, attrasse in Manto ­va l’attenzione dei Gonzaga. Le nobili famiglie dell’epoca amava ­no circondarsi di mùsici, e Mon ­teverdi a soli diciassette anni già si era fatto conoscere per certe sue brillanti canzonette, così che non molto tempo dopo fu invita ­to a far parte dei virtuosi alle dipendenze dei Gonzaga, in qua ­lità di cantore prima, e poi co ­me virtuoso di viola. Da dove sia scaturita tanta sapienza, tanta abilità e tanto estro nel far mu ­sica non è cosa categoricamente certa; alcune pubblicazioni dello stesso Monteverdi portano che egli fu allievo di Ingegneri, mu ­sico romano di rilievo, ma di que ­sti non vi è notizia negli archi ­vi di Mantova. Si potrebbe sup ­porre comunque che Monteverdi abbia preso anche lezioni dal fiammingo Wert, ch’era allora il più celebre maestro della corte mantovana. Meglio ancora però orientarsi sul fatto che, dopo aver appreso i primi necessari rudimenti nell’arte del compor ­re, il musico si sia formato da sé sulla scorta delle opere dei suoi predecessori, dato che in fin dei conti molte di quelle cose ri ­scontrate nelle sue composizioni e attribuitegli come originali era ­no già presenti in tanti altri. Ad esempio, a proposito del con ­trappunto dei madrigali si cita ­no volentieri le numerose licen ­ze ch’egli liberamente si permet ­teva, ma basterebbe scavare nel ­la scuola polifonica napoletana per riscontrare quelle stesse co ­se molto prima. Non sono gli ac ­corgimenti tecnici a dare fonda ­mento alla sua arte, ma piutto ­sto la eccezionale capacità di as ­similazione che sarà posta in funzione di una forza maceran ­te gli antichi modi per piegarli a nuova esigenza espressiva.

Con i Gonzaga o in rapporto con essi, rara razza di sperpera ­tori di denaro pubblico e priva ­to, Monteverdi rimase con una corda al collo fino all’età di ben 44 anni. Una bella tirata dunque dall’epoca in cui entrò giovanot ­to a corte. Risulta che finanche i musici di minor fama riceves ­sero lì lauti compensi e laute donazioni; Monteverdi no. Lavo ­ro, quanto se ne voleva: Giulio Cesare Monteverdi, scrivendo sul fratello Claudio, riferisce che « i carichi del suo servizio in Man ­tova, dopoché da sonatore di vio ­la fu promosso maestro, erano oltre alla cura ordinaria della musica tanto da chiesa quanto da camera, molte altre brighe straordinarie, per le quali la mag ­gior parte del tempo sì trovava occupato ora in tornei, ora in balletti, ora in commedie e in vari concerti, e finanche nel con ­certare le due viole bastarde ». Tale condizione logorerà l’animo e il corpo del musico, tanto che in una lettera del 1620, scritta da Venezia, con la quale egli risponde negativamente all’invi ­to dei Gonzaga affinché tornasse in quella corte, si legge fra l’al ­tro; « Dio me ne guardi. Non ho in vita mai patito maggiormente afflitione di anima di quella di quando mi bisognava andar a di ­mandare il mio quasi per l’amor di Dio al Sr. Thesoriere…! ». Al contrario, quiete e onori, oltre al giusto compenso per le sue fatiche, poté ricevere in Venezia, ove si trasferì nell’agosto del 1613 perché nominato maestro di cappella della Serenissima Re ­pubblica di San Marco. Nella tranquillità economica e nel ri ­spetto lavora qui alla maggior parte di quelle che saranno ope ­re destinate alla Storia, e in tale attività conduce la propria vita fino , ai primi del 1643: dopo una meritata vacanza di sei mesi du ­rante la quale torna a rivedere tanti luoghi antichi, rientra in Venezia per morirvi dopo nove giorni di malattia.

Rara potenza espressiva: que ­sta la grande lezione ch’egli ha lasciato; i libri di madrigali ne sono il più alto documento. Ma c’è altro: dove ebbe origine il melodramma è cosa nota; a Firenze esattamente nell’anno 1600, con la Euridice di Peri e di Caccini, la quale va conside ­rata come primo esempio di me ­lodramma. Ma mettiamo a fuo ­co: Euridice interessa come do ­cumento, non certo come opera d’arte; è infatti lavoro frammen ­tario, piatto e uniforme, mono ­tono e in certo senso ancora squilibrato; ha valore fondamen ­tale perché prima manifestazione di una nuova idea, l’idea del dramma in musica. Un’idea di ­storta, dovuta a errore storico, poiché nata dal voler tornare alla tragedia greca così come si credeva che fosse: rappresenta ­zione cantata. Sorge dunque una convenzione, il recitar cantan ­do; ma colui che per primo ha dato impronta d’arte, è quindi valore, a questa convenzione fu il Monteverdi, sette anni dopo la Euridice, con l‘Orfeo. Si co ­minciano qui a realizzare la vi ­sione unitaria dell’argomento e l’agitazione drammatica, oltre il costituirsi della prima solida com ­pagine strumentale: è l’orche ­stra moderna, fatta di circa qua ­ranta elementi. E’ questo il pri ­mo grande passo degli strumen ­ti, riscattatisi ora dal ruolo se ­condario rivestito nella polifonia, ove lo strumento fungeva da fat ­tore di comodo per supplire alla eventuale mancanza della parte vocale. Monteverdi vagheggia un mondo nuovo, nel quale fa pal ­pitare una compagine orchestra ­le moderna e autosufficiente, e ne pone le basi nell‘Orfeo. Sarà poi la volta di Arianna; ne ri ­mane l’arcinoto lamento: troppo poco per poter dare giudizi. Qual ­che idea la si ricava solo dalle cronache dell’epoca, ed eccone una significativa: « … Era quel ­l’opera per sé molto bella e per i personaggi che v’intervennero vestiti d’abiti non meno appro ­priati che pomposi, e per l’appa ­rato della scena rappresentante un alpestre scoglio in mezzo all’onde, le quali nella più lontana parte della prospettiva si videro sempre ondeggiar con molta va ­ghezza. Ma essendole poi aggiun ­ta la forza della musica del si ­gnor Claudio Monteverdi mae ­stro di cappella del duca, uomo di quel valore che il mondo sa e che in quell’azione fece pruova di superare se stesso; aggiungen ­dosi al concerto delle voci l’ar ­monia degli stromenti, collocati deietro la scena, che l’accompa ­gnavano sempre e con la varia ­zione della musica variavano il suono: e venendo rappresentata da uomini, come da donne, nel ­l’arte del canto eccellentissimi; in ogni sua parte riuscì, più che mirabile nel lamento che fece Arianna sovra lo scoglio, abbandonata da Teseo, il quale fu rappresentato con tanto affetto e con sì pietosi modi, che non si trovò ascoltante alcuno che non s’inte ­nerisse, né fu pur una donna che non versasse qualche lagrimetta al suo bel pianto… ». La ­sciando da parte le facili lagrimucce, Monteverdi tenne molto al lamento di Arianna, le cui de ­licate espressioni sorsero forse più che quale pianto d’Arianna per Teseo, quale pianto del mu ­sico per la recente morte della moglie Claudia.

Gli ultimi melodrammi rivele ­ranno nuove conquiste: la sepa ­razione su piani diversi dei sin ­goli personaggi, cioè la penetra ­zione dell’intimo carattere che di ­stingue figura da figura. Monte ­verdi dipinge ora musicalmente i suoi protagonisti, e li separa nettamente l’uno dall’altro: con la Incoronazione di Poppea Nero ­ne appare nella sua crudezza e nella sua violenza, Ottavia nella sua delicatezza e nella sua fragi ­lità, Poppea nella sua sensualità e nella sua lascivia. La musica li plasma tutti, infondendo loro un pathos che rimane individua ­le: è quanto d’ora in avanti si pretenderà in ogni melodramma.

Precorse il romanticismo

Non è un azzardo l’affermare che Monteverdi fu quasi precur ­sore dell’idea romantica. Egli in ­tuì ciò ch’è slancio dello spirito, intuì le profonde necessità espres ­sive dell’essere vivente, intuì la esaltazione dell’intimo umano; e mutò e piegò i mezzi del suo tempo per forgiarli con prepo ­tenza secondo queste esigenze, le sue esigenze. Nel non poi tanto lontano 1643 non è ch’egli sia morto, ma piuttosto trasumanò fra quanti hanno avuto il privi ­legio di saper plasmare quella rara merce che è in mostra su un solo banco, sul solo vero ban ­co cui l’umanità attinge per la ­sciare incorruttibile memoria di sé, banco destinato a rimanere saldo di tempo in tempo nel vol ­gere dei secoli, il banco dell’arte.


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