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Tutte le volte che Re Giorgio ha calpestato la Costituzione

2 Aprile 2013

di Stefano Zurlo
(da “il Giornale”, 2 aprile 2013)

La battuta più bella l’ha scritta un ricercatore, Rosario Napoli, sul web: l’agonia della Seconda repubblica somiglia sempre più a quella, interminabile, del maresciallo Tito.
Solo che nella Jugoslavia pre-esplosione, erano i medici a gestire quella drammatica fase. A Roma, invece, è il presidente Giorgio Napolitano a dettare i ritmi e a scegliere le modalità con cui provare a dribblare la paralisi di queste settimane. E le successive mosse del capo dello Stato cominciano a suscitare i dubbi e i distinguo dei costituzionalisti. Siamo dentro una crisi gravissima e, come si dice, a mali estremi rimedi: ma c’è chi nota come ormai si stia entrando in una terra sconosciuta e i giornali, un po’ a spanne, battezzano una sorta di presidenzialismo strisciante per marcare le differenze con un passato che appare sempre più lontano.

L’ultima mossa o meglio, l’ultimo tratto di navigazione a vista si presta a riflessioni e critiche: Napolitano, in pieno stallo post-elettorale, ha di fatto reinsediato Monti, ha nominato un esploratore, Bersani, che s’è impantanato ma non è stato revocato, ora gli ha affiancato dieci saggi che cominceranno a lavorare proprio oggi. Sono tutti passaggi controversi. Dalle parti del centrodestra gridano al golpe, ma certo non ci vuole un cattedratico per capire che qualcosa non quadra. C’è la crisi, c’è lo spread e la fibrillazione dei mercati, ma in un certo senso è come se gli italiani non fossero andati alle urne. Questo governo arriva dalla precedente legislatura, non ha l’investitura popolare e neppure la benedizione delle Camere. Intanto, va avanti, a oltre un mese dalle elezioni, e affronta, forte delle parole di Napolitano, questioni delicatissime che a fatica possono essere catalogate alla voce affari correnti: l’eventuale rinvio della Tares, la nuova tassa sui rifiuti, è ordinaria amministrazione? E il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione è un tema urgente. Ma lo era anche prima e invece sarà proprio Monti a mettere mano al portafoglio. E perché prorogare, come si è fatto, il comandante dell’Arma e non sostituire invece il defunto capo della polizia?

Gli esperti fanno notare, forse con un filo d’imbarazzo, che la discrezionalità del Quirinale è amplissima. Insomma, si può tirare la coperta da una parte e dall’altra, Napolitano sarebbe pur sempre dentro i confini della sacra Carta. Però la situazione di commissariamento della democrazia inizia a preoccupare: ci governa sempre Monti, sopravvissuto a se stesso, e a sua volta catapultato prima a Palazzo Madama, come senatore a vita e, subito dopo, a Palazzo Chigi con una doppia accelerazione che non ha precedenti nella nostra storia. Per carità, anche Dini e Ciampi, messi a capo del governo negli anni Novanta, erano tecnici, ma qui c’è di più: il presidente ha combinato i poteri di cui dispone per costruire il profilo di una figura credibile, poi l’ha collocata sul piedistallo e da lì non l’ha più mossa. Solo che sul piedistallo è salito pure Bersani e Bersani è ancora lì, congelato ma scongelabile. Insieme ai saggi, strani centauri, che serviranno certamente per svelenire un clima irrespirabile, ma non si capisce bene cosa siano. Di domanda in domanda si può andare molto lontano: di sicuro si sarebbe gridato al colpo di Stato se solo il centrodestra avesse osato abbozzare quel che Napolitano ha stabilito. Ad ogni stormir di Berlusconi si gridava all’attentato, ora tutto sembra componibile.

Del resto, anche sul fronte della decretazione il presidente sembra aver ragionato con un metro non sempre uguale. Esageriamo? Se si torna all’ultima fase del governo Berlusconi si vedrà che anche il Cavaliere spingeva sul pedale dei decreti, necessari e urgenti, a suo dire, per tenere in piedi l’economia del Paese. Napolitano lo stoppò e gli ricordò che gli abusi non vanno bene. Perfetto. Poi è atterrato Monti, la musica è cambiata, l’Italia era o pensava di essere sul ciglio del burrone, e l’eresia è diventata la norma. Decreti su decreti, un po’ di tutto. L’arbitro, l’arbitro che aveva fatto entrare in campo Monti e gli aveva dato una maglia da supertitolare, non ha fischiato. E non ha fischiato nemmeno in questi giorni, ben oltre il novantesimo della legislatura. Certo, tutte le alternative erano fragili, ma non c’è dubbio che Napolitano stia cambiando la fisionomia del nostro sistema. E chissà dove ci porterà.


Napolitano e le polemiche. «Lasciato solo dai partiti »
di Marzio Breda
(dal “Corriere della Sera”, 2 aprile 2013)

ROMA – «Dopo sette anni sto finendo il mio mandato in un modo surreale, trovandomi oggetto di assurde reazioni di sospetto e dietrologie incomprensibili, tra il geniale e il demente… ».
Giorgio Napolitano riflette sulla sua amarissima Pasqua, «il momento peggiore del settennato », nella quale si è scoperto bersaglio di una marea montante di polemiche. La sua idea di far decantare per un po’ l’aria di impazzimento generale attraverso il lavoro di un doppio comitato di specialisti incaricati di «formulare precise proposte programmatiche » in grado di divenire «in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche », è stata travisata e criticata in modo ingiusto e insolente. Giornali ed esponenti di partito – da destra ma anche da sinistra – hanno parlato di «commissariamento delle Camere », di «golpe », di «ritorno della monarchia », di «oligarchia alla corte di re Giorgio con sapore di inciucio », di «anomalia », di «presidenzialismo di fatto », di «scelta incostituzionale », di «badanti della democrazia »…

Un bombardamento per il quale il capo dello Stato oggi recrimina di sentirsi «lasciato solo dai partiti », senza che si sia voluto tenere conto di ciò che aveva spiegato davanti a cronisti e telecamere convocate al Quirinale sabato scorso, a chiusura del terzo (due compiuti da lui personalmente; un altro, più lungo, da Bersani) giro di infruttuose consultazioni per dar vita a un esecutivo.

Giorgio Napolitano il giorno dell’annuncio dell’istituzione dei due gruppi di lavoro (Eidon/Antimiani)Giorgio Napolitano il giorno dell’annuncio dell’istituzione dei due gruppi di lavoro (Eidon/Antimiani)
Quel giorno – ecco la sua ricostruzione – ha pregato due gruppi di persone, diverse tra loro ma con alcune caratteristiche di competenza o istituzionali, di fare una specie di «quadro sinottico » di problemi da affrontare, tenendo conto delle posizioni che si sono espresse finora o aggiungendovi ciò che vorranno… Aveva in mente, insomma, un lavoro istruttorio che può facilitare il successivo compito per la formazione del governo.

Più d’uno ha rievocato, per diverse analogie, il famoso esempio dell’Olanda, dove nell’ottobre 2012 liberali e laburisti firmarono una pragmatica intesa, chiamata «Costruire ponti », per accordarsi su poche misure concrete, necessarie a traghettare il Paese al di là della crisi. Un’iniziativa condivisa tra forze antagoniste, «che però si parlano tra di loro, a differenza di quanto accade in Italia », e che hanno impiegato 44 giorni per raggiungere un’intesa. I comitati pensati dal presidente della Repubblica lavoreranno al massimo 8-10 giorni, e non c’è nulla di formalizzato per quanto li riguarda, nulla che consenta di dire che il Quirinale ha creato un nuovo Parlamento. In realtà, che c’entra il Parlamento, chi lo tocca?, si sfoga Napolitano.

Anche sulla controversa assenza delle donne tra i consulenti da lui messi insieme «con acrobatiche ricerche », va considerato che il capo dello Stato ha inserito i presidenti delle commissioni speciali che si sono costituite alla Camera e al Senato e che, sebbene certo gli dispiaccia che in quelle commissioni non vi sia una donna, non poteva farci niente. Anche qui, dal suo punto di vista, «si sfiora il ridicolo ». Quasi che lui avesse formato addirittura un governo senza metterci una donna. E, per di più, quasi che l’opera dei comitati possa proiettarsi su un orizzonte temporale indefinito, mentre sono entrambi legati al suo mandato e oltre questo termine non possono chiaramente andare. Lui raccoglierà quel che i due gruppi avranno svolto di riflessione, di analisi, di rassegna, lo manderà ai presidenti dei gruppi parlamentari e lo farà avere, raccolto in una bella cartellina blu, al proprio successore. Tutto qui, semplicemente. Ciò che adesso rende incomprensibili, per Napolitano, certe reazioni di sospetto. Come se avesse voluto fare chissà che cosa.

A questo quadro confusissimo e al limite dell’isteria si è giunti al termine di una «giornataccia » nella quale il presidente si era reso conto d’essere completamente paralizzato. Aveva dato un pre-incarico a Bersani che, a chiusura delle sue consultazioni, gli è però andato a dire di non essere riuscito ad assicurarsi nessuna garanzia per una maggioranza al Senato: soltanto impegni aleatori del Movimento 5 Stelle e mezze promesse della Lega. Non ha chiesto di poter continuare, il segretario dei democratici. Né di veder trasformato il pre-incarico in un mandato pieno per costituire il governo, il che avrebbe implicato una formalizzazione con il giuramento e con il successivo insediamento a Palazzo Chigi insieme a tutti i ministri, anche se fosse stato battuto in Aula. Cose che Napolitano, quando ha incontrato il Pdl, aveva riferito, spiegando la propria scelta e ricevendo giudizi di apprezzamento per la correttezza dimostrata.

A questo punto è emerso, chiaramente e drammaticamente, lo stallo: 1) l’incarico a Bersani non poteva essere dato, pena un evidente rischio di fallimento; 2) la lista Monti si era dichiarata favorevole a far nascere un governo, ma solo se avesse avuto l’appoggio di entrambi i partiti maggiori; 3) il Pdl accettava unicamente un governo di larghe intese; 4) il Movimento 5 Stelle, al quale il presidente si era rivolto in modo serio e non polemico, era di fatto fuori gioco, perché quale governo si potrebbe mai formare sulla base di un 25 per cento?

Uno scenario bloccato – ragiona Napolitano – di fronte al quale sarà il nuovo presidente a prendere iniziative. Può formare il governo che crede opportuno e dare l’incarico e poi mettere il sigillo sulla lista dei ministri con il giuramento e mandarlo alle Camere… avendo comunque a disposizione già in partenza il potere di scioglimento a lui precluso. E potrà avvalersi pure dell’«istruttoria » compilata dai due gruppi di «facilitatori » (persone del tutto disinteressate o che sono già state coinvolte in commissioni analoghe in cui si era concordato qualcosa, anche se non è mai andato in porto), che il capo dello Stato insedierà stamane con la raccomandazione di verificare le distanze politiche. Ossia di rispondere a qualche semplice domanda: davvero non ci sono posizioni convergenti su alcune priorità? Esistono dei punti di divergenza superabili? Sulle loro conclusioni i partiti si potranno fare le proprie valutazioni e magari decidere se potrà essere costruita un’alleanza, un qualche governo di coalizione su quelle basi.

E le dimissioni? Quanto ci si è arrovellato sopra, Napolitano? E perché non le ha date? La risposta, benché già riassunta nella nota che il presidente ha letto sabato al Quirinale, è la seguente: ha deciso di restare al suo posto per garantire un elemento di continuità, così come un elemento di certezza è per lui rappresentato dall’operatività del governo… Se si fosse limitato alle risultanze degli ultimi colloqui che aveva avuto, avrebbe dovuto riconoscere: «Sono conclusioni che fanno disperare della possibilità di governare questo Paese ». In definitiva, le sue dimissioni, che sarebbero state ampiamente motivate dalla paralisi nella quale si venuto a trovare (non poter dare alcun incarico, non poter formare alcun governo, non poter sciogliere) avrebbero contraddetto l’impegno di offrire un impulso di «tranquillità ». Di dare la sensazione che «lo sforzo continua ». Di confermare l’impianto del suo settennato, ispirato a «dare agli italiani un senso di comunità e di unità », come si è potuto vedere per il 150 ° anniversario della nostra Unità.

Giustamente il capo dello Stato ricorda quando, essendo uscita dalle urne una maggioranza, sia pur zoppicante come quella del 2006, per lui fu «uno scherzo » risolvere la crisi e formare un governo. Oppure quando si ebbe una maggioranza netta, come nel 2008, allo stesso modo non ci mise niente a insediare un esecutivo. O, infine, quando nel 2011 quella stessa maggioranza era franata, prima di dare l’incarico a Monti consultò i maggiori gruppi ed ebbe da loro la certezza che avrebbero dato la fiducia al premier tecnico, senza che lui lo mandasse al buio in Parlamento. Se oggi qualcuno proponesse di affidare il mandato a un non-politico, si scatenerebbe l’iradiddio, tutti farebbero un fuoco di sbarramento perché ripetono che il governo dev’essere politico e basta… ed è su questi diktat che ogni chance si è impantanata. Quasi che non ci si renda conto, in una rincorsa di equivoci e ambiguità interessate, che il potere di nomina del capo dello Stato – come ha sottolineato il grande giurista Beniamino Caravita – «non è libero, illimitato, affidato alla sua insindacabile discrezione, bensì è un potere teleologicamente orientato: può e deve essere esercitato affinché il soggetto nominato abbia, secondo l’articolo 55 della Costituzione, «la fiducia delle due Camere ».

Presto Napolitano avrà sul tavolo le conclusioni dei suoi consulenti (la parola «saggi », puntualizza, non l’ha mai pronunciata, anche perché può far credere a un percorso di lavoro di mesi, se non quasi permanente): dal 15 aprile saranno convocate le Camere che, se saranno già pronti i rappresentanti dei Consigli regionali, tra il 16 e il 18, cominceranno a votare per il nuovo presidente della Repubblica. Oltre non potrà andare. Ciò significa che, anche se il suo settennato costituzionalmente finisce il 15 maggio, molto probabilmente lascerà prima.

Per lui non è detto che il clima agitato di questi giorni si esasperi nel momento in cui i partiti dovranno eleggere il suo successore. Dopotutto, dice, il buon compromesso fa parte della politica. E rammenta quel che accadde nel 1999, nel contesto incandescente che registrava un centrodestra all’attacco e un centrosinistra profondamente vulnerato. Bene, in quel contesto, e senza che nessuno dei due fronti in competizione avesse minimamente disarmato, il Parlamento riuscì a mandare Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale con una larghissima maggioranza. Ricorda ancora il titolo dei giornali, Napolitano: «Accordo Berlusconi-D’Alema per eleggere Ciampi ». Che è stato un ottimo presidente.


Napolitano, l’ira di Berlusconi: ora basta rinvii
di Claudio Terracina
(da “Il Foglio”, 2 aprile 2013)

ROMA – Il tempo stringe. Non si possono attendere deduzioni e controdeduzioni dei saggi nominati dal Quirinale. «Rischiamo la palude, i nostri non capirebbero », ammonisce Berlusconi da Arcore, terrorizzato, a detta dei fedelissimi, dall’eventualità di restar fuori non solo dal governo, ma dalla partita per scegliere il nuovo presidente della Repubblica.

«Altro che moderato, gira anche l’ipotesi di eleggere al Colle Ilda Boccassini », freme un pidiellino della prima ora. Il che, certo, non rassicura l’ex premier, che decide di mettere fretta a Napolitano. «Ci aspettiamo risultati entro sette, dieci giorni, non di più », scandiscono a raffica i pidiellini che si fidano pochissimo delle rassicurazioni sul ruolo dei saggi fornite dal Colle. E, comunque, notano i vertici del partito, «gli esperti possono anche fornire consigli su riforme istituzionali ed economia, ma, da soli, non possono risolvere il rebus del governo ».

PRESSING DEI FALCHI
Di qui la stretta imposta dall’ex premier, confortato dagli ennesimi sondaggi positivi, per osteggiare manovre «che sanno troppo di rinvio allo scopo di far saltare la finestra per votare prima dell’estate ». Il paletto viene piantato dal segretario del Pdl Angelino Alfano, che scandisce: «Riteniamo opportuno che il presidente Napolitano riprenda le consultazioni con le forze politiche, e che le stesse forze politiche riprendano a parlarsi. La casa brucia- avverte- e non sarebbero comprensibili altri rinvii e dilazioni ».

Il favore con cui Berlusconi aveva accolto l’iniziativa di Napolitano appare quindi ormai superato dal timore di un’ennesima trappola che sembra costruita apposta per favorire l’ennesimo governo tecnico e non la grande coalizione, alla quale punta il Pdl. L’allarme rosso è dunque scattato e ha provocato l’aut aut attraverso la nota di Alfano, che chiarisce bene come il Pdl voglia far sentire la sua voce. Il messaggio è sempre lo stesso: facciamo nascere il nuovo governo, «anche guidato da Bersani », e, in cambio di questa concessione, eleggiamo insieme il nuovo Capo dello Stato «che dovrà essere un moderato ».

IL TIMING DEL SEGRETARIO
Alfano perciò detta il timing. «Le intenzioni del presidente della Repubblica sono certamente lodevoli, ma esiste il rischio che il Pd, dopo aver già fatto perdere al Paese un mese di tempo per l’ostinazione di Bersani, voglia trasformare questa iniziativa in un escamotage per rinviare ogni vera decisione alle calende greche- spiega – a questo punto, da un lato auspichiamo che i saggi svolgano la loro analisi programmatica in pochissimi giorni, e riferiscano al Capo dello Stato nel più breve tempo possibile, dall’altro, riteniamo opportuno che il presidente Napolitano riprenda le consultazioni ». La preoccupazione a questo punto è di perdere anche la finestra per urne a giugno.

Ma c’è un altro fatto che ha fatto irritare Berlusconi. Ed è il ritorno in auge del governo dei professori che Napolitano, con il suo intervento di sabato scorso, ha rilegittimato. Ecco, infatti, Sandro Bondi, che due giorni fa incensava Napolitano, attaccare Monti e il Colle: «Solo un mese fa ci sono state nuove elezioni politiche per cui il governo della precedente legislatura, se pur in carica per ragioni formali, non ha alcuna legittimazione non avendo ottenuto la fiducia del nuovo Parlamento ».E Cicchitto rincara la dose: «Dobbiamo avere piena coscienza che il governo Monti non può sostituirsi all’esigenza di dar vita ad un nuovo governo ». La linea politica elaborata ad Arcore e trasmessa a Roma è quindi sempre la stessa: o governo di larghe intese o subito al voto, «prima che sia impraticabile la finestra elettorale di giugno- ripete Alfano- noi siamo pronti anche a questa seconda ipotesi ».


La vendetta di Kim il Giorgio
di Antonio Padellaro
(da “il Fatto Quotidiano”, 2 aprile 2013)

Nel maggio del 2006 l’Unità decise di celebrare l’ascesa di Giorgio Napolitano al Quirinale con il titolo “Buongiorno Presidente”, che a me parve molto bello e augurale, anche perché all’epoca ero io a dirigere il giornale. Col senno di poi, forse avrei dovuto moderare l’entusiasmo. Del resto, poche settimane prima, nella notte dei famosi ventiquattromila voti di scarto fra l’Unione di Prodi e la destra, ne avevo combinata un’altra, sparando a tutta prima pagina: “Berlusconi Addio”, e si è visto poi come è finita.

Anche se altri titoli mi sono riusciti meglio, a quel ricordo giornalistico di sette anni fa è legato un episodio che, seppur minimo, aiuta a decifrare il personaggio Napolitano alla luce anche dei suoi ultimi atti di imperio che qualcuno paragona a un golpe bianco. Dunque, con i colleghi dell’Unità decidemmo di stampare quella pagina augurale su una lastra di zinco debitamente  incorniciata a imperituro ricordo e di apporvi gli autografi di tutti i giornalisti e lavoratori del quotidiano fondato da Antonio Gramsci e di cui l’autorevole dirigente comunista era stato una firma apprezzata. Poi, presi dall’entusiasmo, chiedemmo al portavoce Pasquale Cascella di poter consegnare direttamente nelle mani del nuovo capo dello Stato il prezioso oggetto. Cortese, Cascella mi assicurò che si sarebbe fatto latore della richiesta.

Non ne sapemmo più nulla, ma non certo per responsabilità di Cascella. Qualche tempo dopo, nel congedarmi dall’Unità, feci recapitare lo sfortunato omaggio al Quirinale, dove penso giaccia ancora in qualche augusto ripostiglio. Tracce di Napolitano, prima dell’imprevista ascesa al Colle, ne avevo avute quando, sempre tramite Cascella, allora notista politico dell’Unità, egli mi recapitava suoi densi saggi di non facile lettura sui problemi dell’Europa, che io provvedevo a mettere in pagina per rispetto al grande leader di partito destinato all’oblio, com’era opinione comune.

Ecco, penso che lo straordinario sussiego con cui Napolitano ha interpretato il suo settennato sia anche frutto di quella marginalità a cui era stato condannato da personaggi che probabilmente considerava (e considera) dei nanerottoli, politicamente parlando e sui quali, successivamente, si è preso una lunga e gelida rivincita. Penso che non abbia tutti i torti, perché pur con le numerose colpe che il Fatto non ha mai smesso di rimproverargli, Napolitano appare come un gigante del pensiero, soprattutto se paragonato ai suoi ex compagni di partito.

A ben guardare, infatti, anche il mezzo incarico conferito a Pier Luigi Bersani appare come l’ultimo sgarbo nella lunga storia di  sgarbi e di ruggini che ha diviso la sinistra italiana. Ma proprio come in molte storie di sinistra, questo rancore viene dissimulato dietro tonnellate di osanna e salamelecchi. Un culto della personalità che non ha paragoni nelle democrazie occidentali. Per esempio, l’ossessiva e piagnucolosa insistenza con la quale si chiede a Re Giorgio di restare sul Colle per un altro mandato fa venire in mente l’ode dedicata al dittatore nordcoreano Kim Jong-Il, erede di Kim Il-sung i cui versi cantano: “Non possiamo vivere senza di te / il nostro Paese non può esistere senza di te”. È incredibile, i politici italiani non sanno vivere senza Napolitano  e, più lui si ritrae apparentemente infastidito, più essi si stracciano le vesti: resta con noi! Ma allora come si spiega questa adorazione con le ruggini di cui sopra? È semplice. In tutti questi anni Napolitano ha fatto da scudo a una classe politica tra le più screditate e impopolari.

È stato a causa di questa gigantesca coda di paglia che  abbiamo dovuto sorbirci cori di giubilo e peana ogni volta che dal Quirinale giungevano tra tuoni e saette, i famosi moniti: lodi a cui invariabilmente seguivano gli identici comportamenti così inutilmente monitati. L’estasi è giunta al punto che nell’ultima consultazione abbiamo ascoltato il vicesegretario Pd Enrico Letta, esclamare (senza ridere) una frase del tipo: ci affidiamo completamente a Lei, Presidente, con lo stesso trasporto di Papa Francesco quando si rivolge all’Altissimo.

Tanta devozione non è però servita a impedire la suprema beffa dei cosiddetti Saggi che, con la stravagante non soluzione della crisi di governo, ha condannato il povero Bersani in un ridicolo limbo, visto che l’incarico Napolitano non glielo ha dato, ma neppure glielo ha tolto. Difficile che questa volta lo smacchiatore di giaguari la mandi giù: infatti tra i Democratici i mugugni si sprecano. È vero che anche Berlusconi e Grillo alzano la voce contro le commissioni che servono solo a prendere (e a perdere) tempo. Ma l’inquilino del Colle sembra intenzionato a non mollare “fino all’ultimo giorno”, poiché sembra assodato che fino all’ultimo giorno di Napolitano  non ci sarà un governo Bersani. A meno che Bersani non mandi giù il disgustoso intruglio di un patto Pd-Pdl. A sinistra la vendetta è un piatto che va servito freddo, molto freddo.


Il Pd e Grillo vogliono rifilarci Prodi
di Vittorio Feltri
(da “il Giornale”, 2 aprile 2013)

Mentre i saggi cominceranno il loro lavoro, presumibilmente inutile al fine di agevolare la formazione del governo, i partiti si daranno da fare per selezionare l’uomo sbagliato da mandare al Quirinale, diventato ormai il fulcro della politica.

Lo abbiamo già detto e lo ribadiamo: la Repubblica presidenziale, tanto invisa alla sinistra di origine comunista, e cara alla destra di ogni tempo, è stata di fatto realizzata da Giorgio Napolitano, migliorista, già dirigente di spicco del Pci. Un controsenso? Sì. Ma necessario, dato che il sistema parlamentare, imbastardito da leggi elettorali scritte a capocchia e irresponsabilmente varate, non funziona più.

Lo sanno tutti, pochi lo ammettono apertamente. Il Colle ha acquisito un’importanza strategica inimmaginabile solo qualche anno fa. Lo si vede in questi giorni. Dinanzi al problema della successione di Napolitano, persino quello dell’esecutivo, difficile da risolvere in mancanza di una maggioranza, è passato in secondo piano. L’attenzione dei politicanti d’ogni seme è concentrata sulla più alta carica dello Stato. Il Pdl punta su un personaggio non pregiudizialmente ostile a Silvio Berlusconi e che garantisca equidistanza tra i vari schieramenti. Il Pd desidera poter contare su un amico, meglio ancora: un compagno. E il Movimento 5 stelle gradirebbe un signore della cosiddetta società civile, non implicato in interessi di partito.

Le tre minoranze che si giocano il ricco piatto sono numericamente equivalenti. Ma si è già constatato che fra grillini e bersaniani, per quanto non sia stata raggiunta un’intesa sull’occupazione di Palazzo Chigi, c’è feeling, almeno un po’. Infatti il presidente del Senato, Pietro Grasso, è stato eletto anche grazie ai voti di una «fetta » di M5S. E ciò che è successo una volta, può succedere una seconda. Quindi non è escluso che dopo il 15 aprile (ultimo giorno di scuola per Napolitano) dalle Camere riunite esca un risultato studiato a tavolino (in segreto, si fa per dire) da Pier Luigi Bersani e Beppe Grillo. I quali – stando alle indiscrezioni fatte circolare da radio fante – convergerebbero su un nome arcinoto: Romano Prodi, che da mesi briga per chiudere la propria carriera al massimo livello.

Il Professore piace al Pd perché ha battuto in due circostanze il Cavaliere; inoltre, è un cattolico di provata fede e nessuno, pertanto, avrebbe facoltà di accusare gli ex marxisti di aver monopolizzato le istituzioni, piazzando solo progressisti nei posti chiave: Montecitorio, Palazzo Madama e Quirinale. È un ragionamento capzioso, questo, poiché Prodi è un’icona della sinistra, eppure regge formalmente: Romano è stato ed è con i rossi, ma rosso di suo non lo era né mai lo sarà.

Al Pd, fra l’altro, preme che a rimpiazzare Napolitano sia un antiberlusconiano, e più antiberlusconiano del docente bolognese non c’è in giro nessun altro candidabile. Domanda: per quale strano motivo ai grillini starebbe bene spianare la strada a Prodi? Molto semplice: Grillo ha simpatia per lui. I due intrattengono buoni rapporti, pare addirittura che si frequentino. Perché? Mistero buffo.
Non è dunque irrazionale supporre che la pausa imposta dal capo dello Stato con la creazione del comitatone dei saggi venga utilizzata dal Pd e dal M5S allo scopo di accordarsi e fregare il Cavaliere. A cui, ripetiamo, Prodi al Quirinale sarebbe indigesto. Al Pdl, per scongiurare una simile eventualità, rimane una flebile speranza: che i saggi combinino qualcosa di concreto ovvero predispongano le basi per un governo, pur precario e di breve durata, capace di assumere provvedimenti urgenti, tra cui la nuova legge elettorale.

In questo caso, il Pdl sarebbe indispensabile alla costituzione della maggioranza e avrebbe voce in capitolo sulla scelta del presidente della Repubblica. E allora addio Prodi e relativi sogni di gloria. Chi, al posto del Professore? Dipende da come avverrà la distribuzione dei pani e dei pesci. Soprattutto dei pesci.


Un articolo di Dagoreport sulle responsabilità per la crisi italiana, qui.


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2 Comments

  1. Commento by Franco Cattaneo — 3 Aprile 2013 @ 15:43

    Alcune considerazioni su monti e napolitano. Ricorderà forse che nell’imminenza della sua investitura avevo definito i bocconiani “ragiunat che se voeren fà ciamà dutur” (ma almeno i ragiunat di una volta tenevano in ordine i conti della fabbrichetta, lavorando  di sera, una volta usciti dalla banca). il professore, a parte la sua aria di compiaciuta superiorità, si è rivelato solo un borioso incapace provvisto dalla natura di una ntelligenza secondo me molto al di sotto della media…Non so se Lei conosca Google Scholar (un programma di ricerca che elenca le pubblicazioni accademiche dei vari autori indicando anche – cosa importantissima –  le citazioni ricevute). Ora, pur con tutta la tara che si può fare ad internet, monti risulta essere una nullità assoluta a livello accademico, praticamente mai citata da alcuno e la cui produzione, a parte qualche scritto (pochi) di quarant’anni fa sulla redditività ed il rischio bancario, si limita a discorsi al congresso dei gestori di telefonini o dei produttori di videocassette,  in cui il contributo più originale è la ricerca di sempre nuovi incipit “ringrazio per avermi invitato…”, discorsi tenuti in qualità di commissario europeo. Ce l’hanno spacciato per un nuovo Milton Friedman….

    Ero sempre stato convinto del fatto che napolitano, da buon comunista, una volta giunto al potere lo avrebbe utilizzato  senza remora alcuna, piegando ai suoi disegni la carta costituzionale. Secondo me il primo palese segnale si ebbe in occasione del tentativo di Berlusconi di intervenire nel caso della povera Eluana Englaro cui, dopo le fucilazioni di scalfariana memoria, per la prima volta la magistratura irrogò la pena di morte. Il presidente impedì (tra l’altro in modo assolutamente irrituale, se ricordo bene, intervenendo a consiglio dei ministri in corso, la promulgazione del decreto-legge cui Berlusconi intendeva ricorrere. Non sono un giurista e posso sbagliarmi, ma leggendo la costituzione più bella del mondo  sembra a me (un’appartenente alla gente meccanica e di piccolo affare)  che non occorra al governo alcuna autorizzazione del presidente della repubblica per promulgare un d.l., che ha come unica necessità quella di venire convertito in legge, pena la decadenza, entro 60 gg. dal PARLAMENTO.  Da lì è stato tutto un crescendo di sgambetti al governo Berlusconi sino a giungere alla situazione attuale in cui, senza tener conto della costituzione più bella del mondo (specialmente il titolo I), lo sgambetto lo si fa al paese.

    Cercherò di inviarLe via mail uno schema da cui potrà convincersi anche Lei che la nostra è senza dubbio alcuno la costituzione più bella del mondo.

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 3 Aprile 2013 @ 16:29

    La nostra, caro Franco, è una costituzione talmente invecchiata che paralizza l’Italia.

    Il paradosso è che proprio Napolitano un comunista del Pd (il Pd la ritiene immodificabile) ne ha fatto carta straccia, dimostrandone l’inadeguatezza.

    Napolitano, anziché perdere tempo coi saggi, avrebbe dovuto dimettersi, dopo il fallimento di Bersani, e lasciare libero il campo al suo successore.

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