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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Nigro, Raffaele

7 Novembre 2007

Malvarosa
I fuochi del Basento
La Baronessa dell’Olivento
Ombre sull’Ofanto
Gli asini volanti

“Malvarosa”

Rizzoli, pagg. 372. Euro 17,50

Nigro è un attento interprete dell’anima del Sud, che qualcuno vuole, a torto, fatalista e rinunciataria. I suoi romanzi descrivono uomini e paesaggi intrisi di epica. Insieme con Carmine Abate e Carlo Sgorlon, è uno dei pochi autentici raccontatori italiani che ancora affondano le loro radici nel solco di quella nobile tradizione che dal grande – e tuttora non del tutto compreso – Manzoni, passa dal Verga, Pirandello fino ad arrivare a Riccardo Bacchelli. Ho avuto il piacere di occuparmi di alcuni suoi romanzi nella raccolta di letture intitolata “Quarantatre letture – Il Sud nella letteratura italiana contemporanea”, Marco Valerio Editore, Torino 2005. In particolare: “I fuochi del Basento” del 1987, “La baronessa dell’Olivento” del 1990, “Ombre sull’Ofanto” del 1992.

Il protagonista di “Malvarosa”, Eustachio Petrocelli (Eustà), mentre si trova a bordo di un fuoristrada insieme con un amico tunisino, Majid El Houssi, viene intercettato e catturato da alcuni guerriglieri algerini, e i due sono rinchiusi nella stessa cella. El Houssi gli rivela che il Corano considera che la fortuna per un arabo “è incontrare un buon compagno” e inoltre afferma che il mare Mediterraneo “è un ponte d’acqua tra arabi e cristiani. Un paese di olivi. E di deserti. E di calce. Non un mare di scontri ma di incontri.” Sono già enunciati qui i temi del libro. Eustà li raccoglie e, nel raccontare di sé, e della malattia di sua madre, che ha perso la memoria per via dell’Alzheimer, ascolta El Houssi che dice: “Il mondo soffre di Alzheimer Collettivo e vive alla giornata, come fosse l’ultimo giorno, senza prospettive e senza ricordi.” Non c’è scrittore dei nostri tempi che, nel momento in cui decide di calarsi nella realtà, non ne denunci le profonde malattie. Forse è sempre stato così. Rari gli esempi in cui l’uomo è dipinto come un essere in armonia con la natura e felice della sua condizione.

Nigro, già nei brevi ritratti dei familiari del protagonista, alcuni dei quali defunti, ci fa capire che le sue parole si faranno testimoni dell’arcano che è in noi, muovendo dai fatti di cronaca di questi anni, in cui in Africa e nel Medio Oriente abbiamo assistito a lotte tra religioni e a sequestri efferati in nome di ideali spesso difficili da comprendere. È un odio di cui un po’ tutti siamo responsabili. Il romanzo tenta, dunque, di recuperare un rapporto dimenticato ed un fecondo contatto tra i popoli che si è perduto. Il Mediterraneo riacquista, così, il prestigio di un tempo, quando vi si affacciavano le civiltà ed era il centro del mondo, e non v’è dubbio che Nigro ha respirato il fascino che aleggia sui libri di Pirenne, Bloch, Braudel, Runciman, Le Goff, Huizinga, ed altri come loro, e partorito il risultato di quelle letture che posero come baricentro di allora il rapporto, anche conflittuale, tra l’Europa cristiana e l’universo islamico. Il libro si rivela, dunque, ad un tempo, un’analisi ed una proposta provenienti da uno scrittore che fa della sua meridionalità il punto di forza di una esperienza e di un’autorità che discendono direttamente dalla storia. Come non ricordare, infatti, “L’ora di tutti” di Maria Corti, che ci racconta il saccheggio e il martirio di Otranto, avvenuto nel 1480 ad opera dei turchi? Come non ricordare i due libri che parlano delle Crociate: “Storia delle Crociate” di Steven Runciman, e “Storici arabi delle Crociate”, curato da Francesco Gabrieli, e i fatti cruenti in essi narrati?

I due prigionieri si aspettano la morte da un momento all’altro: “Effettivamente qui c’è solo odore di morti. La muffa dei corpi spolpati dalla terra. Viene dal cimitero sulla spiaggia, qui alla destra del ribat, in alto. L’odore lo porta il vento. E questi passi sono i passi dei morti. Questi colpi alle pareti sono i loro pugni. I morti impazienti che aspettano di divorarci.”

El Houssi ha sessant’anni ed è corrispondente di un giornale arabo. Si è stabilito in Italia e va in giro per fare un reportage sui clandestini. Ha la “fissa del dialogo nel Mediterraneo”. È diventato lo scopo del suo lavoro: “Allah dice: Va’ e racconta. Storie come fiumi. La vita è un fiume. Non piccole paludi, ma fiumi. Se non hai più una storia il tuo compito è finito. Perché credi che Hemingway si sia tolto di mezzo? Ma oggi si raccontano frammenti. Non c’è il fiato dell’eterno e l’inchiostro dà solo macchie. Noi siamo piccole macchie e non più torrenti e fiumi.” Nigro fa della ricerca e della speranza di questo arabo, che per tutto il romanzo rimarrà quasi in assoluto silenzio, il punto alto della sua narrazione: “Il Mediterraneo è il nostro destino, Eustà”. È l’arabo a trascinare l’europeo Petrocelli verso la speranza (“Se non si lascia una traccia si muore definitivamente; non si è stati utili a niente.”) che, infatti, comincerà a narrare di sé. Ancora una volta, nella storia che scorre nella vita di ciascuno di noi, la parola si fa non solo strumento di conoscenza, ma conoscenza essa stessa. Nigro stende senza fretta la sua tessitura, con uno stile piano, fatto di vocaboli semplici, con un linguaggio che, a differenza dei precedenti romanzi, raccoglie questa volta, dall’attualità alcune espressioni fin troppo diffuse, come, ad esempio: “continuava a starmi sulle palle”, “ridevano e facevano casino.”, “in quel cazzo di albergo” e così via, pagando, pure lui, un gravoso tributo alle mode del nostro tempo. Eustachio ci narra le cose che non vanno nel suo paese di Metaponto. La politica si disinteressa come sempre del Sud; le campagne sono state abbandonate dai giovani che, se sono stati fortunati e hanno trovato lavoro, se ne restano rinchiusi nelle fabbriche. Gli altri trascorrono le loro giornate al bar, come il Red Roses di cui parla il romanzo, spendendo le ore a commentare e a fare progetti: “siamo tosti, tagliati per le Mauser e il fucile a canne mozze e ci sappiamo andare a pigliare quello che non abbiamo […] Noi siamo Sparta o Atene e Milano è Troia.” Nigro sottolineerà continuamente questa influenza greca nel Metaponto, che ha tracce anche nei soprannomi che si dànno i ragazzi, Achille, Patroclo, Ettore, ad esempio: “Pirro era famoso dalle mie parti perché aveva fatto a fette i romani, prima di Cristo. Aveva lasciato l’odore di sangue e di distruzione nell’aria, dentro la terra, nell’erba e nelle piante. Ma caterve di morti avevano portato da Troia le barche di Enea, erano stati seppelliti sulla spiaggia di Eraclea. Milioni, secondo mio padre, più degli ebrei nei lager. Me li immaginavo tutti quei morti accatastati sulle navi che solcavano l’Egeo e poi un anno e passa per seppellirli in fosse comuni sotto casa mia. L’arsura produceva crepe nel suolo e la puzza di cadaveri sfiatava.” Ricordiamoci che anche nella cella algerina dove sono rinchiusi, hanno un cimitero all’intorno e sentono la puzza dei morti. El Moussi ascolta in silenzio. Prende appunti. Forse ne scriverà. Eustachio è partito da lontano, dagli anni in cui era ragazzo e cresceva nella densa atmosfera di un antico che si stava modificando. Erano gli anni in cui il padre Settimio, socialista, a capo del letto, a fianco del quadro della Madonna, teneva “due piccoli ritratti, uno di Pietro Nenni e uno di Carmine Rocco il brigante.” Nigro ha dedicato molta attenzione nei suoi studi alla storia del brigantaggio e ne ha permeato uno dei suoi romanzi più significativi: “I fuochi del Basento”, fuochi, appunto, accesi sulle colline dai briganti. Il nonno, Fedele Passaquindici, invece, di osservanza fascista, vi teneva il ritratto di Mussolini. È una strana famiglia, quella dei Petrocelli, afflitti da molti malanni. Eustacchio ha “il male dell’odorato”, sviene a sentire l’odore del sangue e col suo naso speciale riesce a percepire come un segugio tutti gli odori, ma gli altri componenti non sono da meno, anzi: Cristina ha “i reni guasti, il nonno era paralitico e zia Sinforosa malata di testa.” L’altra sorella ‘Ndina era drogata. I fratellini gemelli Pasquale Baylonn e Gerardino Makumba “Si cacavano addosso e puzzavano come carogne.” Su Cristina malata si leggerà un delicato pensiero del padre, che ha a che fare con il titolo del libro: “Questa bambina è un fiore. Una malvarosa. Ma la cogli ed è finita”. La più forte di carattere e di salute è la madre Cettina che non si stanca mai di pensare all’avvenire del figlio. Vorrebbe perfino far valere quella sua qualità di percepire gli odori più nascosti: “Magari questo figlio è capace di sentire l’odore della santità e se lo pigliano i frati, se lo può pigliare pure il papa per andare a caccia di beati.” È il ritratto, dunque, di una famiglia imbevuta di credenze e di illusioni alla ricerca affannosa di una via di riscatto. Il padre, che lavora al macello, un giorno mostra al figlio come si uccide una bestia: “Mio padre era adesso Calcante, il sacerdote che sacrificava agli dèi. Il sangue spruzzò sui bancali, sporcò il grembiule e le camicie degli aiutanti, evaporava coi belati e col fetore insopportabile e dolciastro. Così doveva essere stata la guerra di Pirro, quella di Troia. Un fiume di sangue che aveva trapanato la terra, impiastrato mani facce armature scudi. Un diluvio universale rosso come una colata di salsa.” Il sangue, dunque, quale simbolo di sofferenza, un sangue che viene e scorre da lontano, dalle antiche liti, dalle remote guerre che ne hanno imbevuto la terra. Non se ne va più da quei luoghi, come non se ne va il dialetto, che resta appiccicato alla pelle e ti accompagna per tutta la vita. La madre, maestra, cerca perfino di eliminarlo dalla educazione dei figli. Eustachio qualche volta si prova a ripetere una frase nel tentativo di togliere l’inflessione dialettale, ma inutilmente: “Niente, mi usciva di bocca un accento meridionale. Continuai a sputare e a ripetere la frase, ma il dialetto non spariva e neppure il sapore di sangue di agnello. Mia madre aveva ragione a suonarcele quando parlavamo lucano.” Fa presto ad avvertire il disagio di una vita che porta con sé un destino di violenza e di umiliazione e formula già le sue ragioni di fuga: “Me ne sarei andato dove non si uccide, non si parla dialetto e non ci si mangia a vicenda. Dove non fosse mai giunta l’eco del male e degli scontri frontali.” Ricordiamoci che El Moussi lo sta ancora ascoltando in silenzio, che è un silenzio partecipe, un dialogo, dunque, felicemente avviato, in virtù di una sincerità che non ha secondi fini. Una specie di nuova religione laica, fatta di assenza di misteri, di ricerca della luce dove sono le tenebre, della vita dove si è annidata la morte, segna la rotta del romanzo, la cui ambizione è quella di sostituire il profumo di un fiore, la malvarosa appunto, all’odore del sangue di cui quelle terre sono intrise. Nigro ricorda i molti massacri perpetrati nel corso dei secoli, non ultimo quello della falange romana guidata dal console Caio Terenzio Varrone, in quell’alba del 2 agosto del 216 a.c. allorché, davanti alle alture di Canne, quarantamila uomini furono sterminati dall’esercito di Annibale. Sono frequenti i richiami ai personaggi che hanno fatto la storia dell’antichità. Tra i libri preferiti dai ragazzi c’è soprattutto l'”Iliade”, e così, quando iniziano gli scioperi per i licenziamenti all’Italsider, Eustachio racconta: “L’Italdiser era diventata la città di Troia, gli operai erano gli achei e i poliziotti con caschi scudi e fucili i troiani alla difesa della muraglia.” Allorché il padre, anche sindacalista, e un compagno soprannominato Vulcano salgono su di un’Ape per arringare gli operai, sono paragonati a “Menelao e Agamennone”. Saliti, i Petrocelli padre e figlio, su di una barca, allontanatisi dalla riva “la sabbia pareva un braccio di Polifemo coperto dalla peluria dei pini.” C’è un tratto di costa che è chiamata “la costa di Enea”. È presente in questo romanzo, come fonte imperitura e vivificatrice, la forza del passato più nobile e antico, che fece di queste terre del Metaponto il centro dell’universo. Tutto ciò che lì, nel corso dei millenni, vi è trascorso permane e risorge, non muore mai definitivamente: “La Magna Grecia continuava ad affiorare dal passato con la stessa frequenza con cui noi ci affannavamo a distruggerla.”

Anche le tradizioni popolari lasciano il segno e si perpetuano.

I nomi di cui Nigro riveste i personaggi hanno, infatti, il sapore dei secoli, delle consuetudini, delle avventure: Malebagatto, Granoturca (una gatta), Stalin (un cane), Masciopinto, Treppalle, Fulmina, Sinforosa, Mangialardo, Orapronobis, Terribile U Cacaglio, U Cinese, U Farfogghie, nu Pagghiuso, U Cicatidd, Spezzacatene, Strozzapapere, Deligatti, Fiascone, Pippionno, Battiferro, Fracchiolla, Nardozza, Picchia Pistola, Jack lo Squartatore, Che Guevara, Fantomas, Flash Gordon (è il soprannome di Eustachio), Coccobill, Gesù Cristo, Padreterno, Cheyenne, Bembellah, Al Capone. Fanno il paio con alcuni vocaboli ed espressioni dialettali, come: scocchiata, perchiacca, pastinaca, uallera, piccio, portazecchini, inguattammo, schiattavo, cacazza, gibillero, capuzziò, lutrino, grasta, necare, appaurare, appecorai, appicciafuochi, ricchione, miccolona, bonazza, maletantone, frittola, fessegna, picozzo, mappazza, cucumarazzi, tuzzo, ‘ndrocchia, sciale, chianca, tuppo, azzeccoso, trozzelle, frittole, tavuto, incornutato, asseriò, cacacazzo, mappina, quartara, sgarrupate, scocchiata, commara, “portò dentro la Lambretta, che lì con un niente te la pugnalavano”, “Appizzuta il naso.”, “stette cuccia cuccia a Cristina”), “Noi ci puzziamo di fame”, la “libretta al portatore”, “avrebbe potuto alzare due trecentomila lire a notte.”, “Presepi che sono stati mazziati dal terremoto”, “una posteggia che cantava”, “non mi comprava con quelle mattinelle”, “la poeta”, “la lampa”. In “Malvarosa”, si ha la sensazione che il dialetto abbia una sua luce più vivida, più inserita e partecipe nella storia, anche se Nigro non ha mai mancato di sottolinearne l’implicito significato culturale in tutti i suoi libri, e specialmente ne “I fuochi del Basento”. Al dialetto dedica un capitoletto in cui si legge: “se «cosa » e «rosa » le dici chiuse da quando nasci non ci sono cristi. Qualcuno doveva avermi cucito la gola alla nascita. Una specie di legamento, come all’ombelico.” Ad un certo punto scrive anche che il Sud è “una terra di memoria.”

Non v’è dubbio che questi ricordi personali di Eustachio che affascinano El Houssi (“Questa condizione abnorme ha scatenato in me la logorrea e in El Houssi la voglia di ascoltare”), se confrontati con la prigionia in quella cella algerina, non possono che provocare rabbia e risentimento e, infatti, l’europeo maledice l’islam e il suo fanatismo. Ma El Houssi è pronto a rintuzzarlo. Il fanatismo islamico è conseguenza della vacuità dell’occidente, gli risponde; molti sono stati corrotti dal pensiero occidentale, ed oggi l’arabo “è convinto che nella modernità ci sono i germi della rovina universale.” Due modi di pensare, due civiltà antiche ancora a confronto? Ancora permangono i reciprochi pregiudizi che portarono la cristianità e l’islam a combattersi? Parrebbe, dunque, che niente si sia mosso e che i molti tentativi di conciliazione che hanno attraversato i secoli si siano consumati nell’indifferenza della storia e finiti nel nulla.

Nigro disegna il suo affresco come un mosaico, attraverso, ora, capitoli brevi, anche non consequenziali e apparentemente slegati, come appunto possono essere montate, a volte, le pietruzze di un mosaico.

E nel fare ciò, non si stanca di marcare la sua meridionalità come uno dei punti di forza della sua narrazione: lo fa non solo per mezzo di voci eminentemente dialettali, ma anche attraverso forme tipiche della sintassi del Sud: “Mentre si tornava sulla Lambretta mi arrischiai a sussurrare a mio padre che tenevo sempre voglia di scappare via da Metaponto e da casa.” Quel “tenevo” in luogo di “avevo” è frutto di una scelta consapevole, e più esplicitamente: di una volontà determinata a non nascondere la meridionalità, ma ad affermarla. Non è a caso che il padre, ascoltata la confidenza del figlio, “amareggiato” gli risponde: “La voglia di scappare ce l’ho pure io. Ma come si fa a lasciare il paese in mano ai camorristi? Lo dobbiamo difendere il paese.” Che è uno dei temi attuali nel dibattito sul Sud: se sia corretto, ossia, fuggire, anziché restare a difenderlo. Nigro è un autore che fa sentire la sua voce dal Sud più profondo; non è fuggito; è lì a combattere, e nel suo romanzo, attraverso le parole del padre di Eustachio, lancia la sua sfida ai più tormentati e ai più deboli. Non solo, ma l’uso frequente, assai più che negli altri romanzi, di vocaboli gergali, rende visibile questa volontà e urgente e determinata la sua sfida.

Anche il desolato quadro che dipinge della famiglia Petrocelli e degli amici malati o sfortunati mostra l’intento di non sottrarsi alla realtà e di partire proprio da una situazione simbolo, rappresentativa di un male endemico, dove un destino malvagio e l’assenza di volontà e di determinazione creano, se non contrastati, le condizioni di una perenne sconfitta e di una perpetua lacerante umiliazione.

In questo romanzo, Nigro paga un secondo tributo alla moda dei nostri giorni, che vuole che ogni storia sia contornata da citazioni musicali. Mai come in questo “Malvarosa” l’antico che affiora sempre si mescola ai ritmi e ai riti della modernità, costruendo un anello lungo il quale entrambi, passato e presente, corrono come inseguendosi, e non sai chi dei due sia avanti all’altro. Quando, per un’inchiesta, va con l’amico Che Guevara (Renato Spera, fidanzato della sorella Cristina) a Manfredonia, proprio di fronte al mare vedono il grande stabilimento dell’Enichem. Che Guevara non si trattiene: “Hanno costruito sul mare senza rispetto per niente! La fauna marina distrutta e gli operai coi gas nei polmoni. E dietro c’è questa merda di stato.” E ancora: “Una volta venni a villeggiare coi miei, c’erano campi di grano e oliveti e adesso vedi? silos e nastri trasportatori.”

“Per me era la modernità sconvolgente. Non era Sud.”, riflette il protagonista. Che, allorché cominciano i lavori di sbancamento per la costruzione di una multiproprietà, viene condotto, sempre dall’amico Che Guevara, ad ammirare i bellissimi reperti archeologici rinvenuti nel corso degli scavi: “restai di sale di fronte alla bellezza di quei vasi istoriati con figure di cavalieri fanti civette dèi e dee. Improvvisamente il mondo di Omero risorgeva dalla terra e si mostrava ai nostri occhi, con scene di guerra e di vita quotidiana.” Nigro snoda una sua malinconia attraverso questa storia, che non è affatto da confondersi con la pietosa nostalgia di un tempo che fu, ma rappresenta più semplicemente la constatazione di una convivenza tra antico e nuovo che l’uomo non riesce a stabilire una volta per tutte. Il nuovo, anziché innestarsi sul vecchio, ne pretende il sopravvento, ne reclama forse addirittura la distruzione. Ma non è così facile sbarazzarsi del passato, soprattutto quando esso è scritto nel sangue di un popolo, fa intendere Nigro. Che cos’è, infine, quella capacità di percepire gli odori che caratterizza il protagonista, se non una stretta dipendenza, uno stretto legame con il nascosto e risorgente passato?: “Sentivo gli odori della vita e della quotidianità, l’odore più flebile del latte dell’erba del pane e non soltanto di quello appena sfornato, come sentivo l’odore del sudore, del vento e della pioggia. Tutto intuivo dagli odori e persino la memoria delle cose, delle azioni, degli incontri affiorava in me come memoria di odori. E quello che mi nauseava era l’odore del sangue.” Il nuovo è anche invadente, suggestivo (“Sulla costa adriatica stavano nascendo pub, pizzerie, discoteche. Il sabato c’era dove fare alba.”), forse anche persuasivo (“Ti vietavano di pensare che fuori c’era l’inferno della disoccupazione, della mafia, c’erano i gruppi armati rossi e neri e c’era un mondo arcaico che faticava a squagliarsi.) – ricordiamoci che siamo tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’70 -, e sicuramente sensuale e trascinatore: “Deborah, fanatica e narcisa, salì sul palco e non solo mise all’asta jeans, reggipetto e slip ma disse: «Sono all’asta pure io, quanto offrite? ». E cominciò la riffa.” L’arabo continua ad ascoltare. Solo Eustà racconta. Sono le colpe dell’Occidente a prevalere? El Houssi ha un momento in cui ricorda affettuosamente la famiglia. La sua unione è felice. L’europeo, invece, non ha avuto fortuna con la propria e vorrebbe tanto che la sua donna senegalese Soukeyna Mbengue e la figlia Adithiane fossero “al fianco di mia madre”. Vorrebbe, anche lui, “Una casa piena di affetti. Non ho fatto nulla per costruire una casa così.” L’europeo, dunque, sta già pagando un conto salato alla modernità, più salato certamente di quello di El Houssi: “Se uscirò vivo da qui, Adithiane, verrò da te, per convincerti che quest’uomo che ha compiuto sette volte il giro della terra per inquietudine, compie l’ultimo viaggio per espiazione. Per farsi meritare da te. E da Soukeyna. Una donna dolce, che io non merito e che ha sofferto molto per le mie incertezze, per il mio modo di non essere uomo.” Quando si erano conosciuti, El Houssi aveva detto a Eustachio: “Hai mai pensato che uomini grandi come sant’Agostino, sant’Oronzo e Tertulliano venivano dall’Africa? Di pelle erano caffellatte come me. Annibale e Cleopatra erano di questo colore e così erano Alessandro Magno e la Madonna.” Una rivoluzione nella mente dell’europeo, una verità sconvolgente. La madre non riuscirà mai a farsene una ragione. L’incontro con il tunisino, che si stava occupando degli operai del Maghreb che lavoravano in Italia e ne seguiva gli spostamenti per la penisola, aveva, inoltre, portato a Metaponto una certa aria di simpatia verso gli immigrati, che già erano assistiti da alcuni volontari, tra i quali in particolare l’amico di Eustachio, Che Guevara, che ne ospitava alcuni nella sua villa. Anche Eustà è di famiglia benestante. Ha una moto, una “Triumph Bonneville”. Nigro sta disegnando un personaggio che ancora non è né carne né pesce, miscelato di delusioni e di speranze. Vede intorno a sé l’immondizia materiale e morale che affligge specialmente gli immigrati, irretiti nel traffico di droga e prostituzione, e tuttavia il suo sogno (“una mia follia”) è di trasformare il Sud in una nuova America: “Stavo provando su un lucido quanto un lenzuolo a trasformare lo Ionio in una immensa California. «Tra Messina e Reggio Calabria il ponte di San Francisco, case case case che tu cammini e sei sempre nella metropoli. Tutto il Sud una infinita Los Angeles. » Gli Studios a Cosenza, Beverly Hills a Matera, Hollywood a Napoli, Disneyland a Reggio Calabria e Rodeo Drive a Taranto.” Allorché con l’amico Che Guevara va ad Amsterdam, ne resta ammaliato: “Altro che malocchio e processioni. Un mondo lontano come la luna.” La modernità conta su di una forza di attrazione che disorienta, confonde, agisce sui sensi proprio come una droga. A Londra, dentro l’aeroporto di Heathrow: “Avrei voluto una casa nell’aeroporto, un affaccio su quell’arcobaleno di umanità, anche se scorreva sotto gli occhi come la spuma del Basento.”

Invece rifiuta di andare con l’amico in Africa: “Io non amo i luoghi della sofferenza. Lì ci mando mia madre in pellegrinaggio.” Al che Che Guevara replica: “È vero, lì si va solo da adulti.” Ci accorgiamo, dunque, che ciò che Eustachio sta raccontando al tunisino El Houssi è nient’altro che il percorso di crescita della sua anima e El Houssi, colui, cioè, che sta ascoltando e prende appunti, considerato il diverso nel nostro mondo occidentale, radicato com’è alla sua gente, è il più forte e sicuro dei due. Quando Pinochet compie il colpo di stato e il Presidente Allende viene ucciso, Eustachio confessa: “Il mondo era a rumore e io non capivo la portata di quell’evento. Mi scivolava addosso senza ferirmi.”

Nigro continua la sua radiografia del cambiamento; attraverso il racconto di Eustachio, percorre i primi insediamenti della modernità nel Sud antico, le fascinazioni, gli inganni, gli stordimenti, le perdizioni. Sembra che il protagonista sia quel filo d’acqua capace di penetrare tutti i pertugi, lasciare su ogni cosa il segno del suo passaggio, una bava lumacosa, una scia che tende a prosciugarsi e sparire. Ci si allontana dal passato, dalla tradizione senza speranza di farvi ritorno? Nel Sud restano i luoghi a ricordare il passato, perfino i nomi lo tramandano, come quel “poggetto di Annibale da dove si godeva un’ottima vista.” Eustachio passa come il filo d’acqua tra i pertugi della modernità per spiarli e conoscerli, ma possiede anche quel fiuto da segugio (“una peculiarità canina”), quell’odorato straordinario che gli consente di portare alla luce i resti del passato, disseppellirli, con meraviglia dell’amico Che Guevara, ancora incredulo di quel dono raro. Chi è, dunque, Eustachio? Non è solo un ragazzo disorientato, stordito, che sta crescendo; è anche un’anima antica uscita dal buio: “Usai raschietto e scopino e finalmente ecco il morto e il suo corredo. Guardava disteso l’eternità. Anzi, guardava me, con gli occhi vuoti.”

Il tema della fuga o non fuga dal Sud, è ciò che assilla Eustachio: lo stordimento causato dalla modernità, che indubbiamente lo attrae, gli ha procurato una spaccatura nella quale si è annidato il desiderio di un altro mondo, una “Città del Sole”, nel quale annegare e saziare l’ansia di vivere. Contrariamente a quanto accadeva nel passato, sono ora le donne ad avvertire la necessità della fuga da una antica schiavitù. Glielo fa notare la cugina Genny, affogata anche lei nella droga, come altre ragazze: “Una volta erano le femmine a non staccare la spina. Una volta le femmine figliavano e morivano sotto la gonna di mamma. Che sta succedendo Eustà?” Se dietro di noi si allarga la zona d’ombra, il vuoto, ossia, ecco che ci si smarrisce e si cerca un altrove dove poter ritrovare la fiducia non solo in noi stessi, ma in tutto ciò che ci circonda. C’è un confronto, ancora inconsapevole nel protagonista, tra questo desiderio di fuga e le scoperte archeologiche che va facendo.

Anche il nonno paralitico, proprio mentre è spinto su di una carrozzella verso il “poggetto di Annibale”, dice al nipote: “La gente se ne scappa. Vogliono la città e le fabbriche. E questi mammalucchi che vengono dall’Africa vogliono pure la loro città. Vedrai che alla fine non ci resterà nessuno in tutta una parte di mondo, mentre in un’altra si pesteranno come formiche.” Nigro procede per gradi ad aprirci la finestra sul Sud di oggi. Si muove con circospezione. Sa che l’analisi non è semplice. Saggia il terreno, prende dei campioni e li esamina, li mette a confronto tra di loro, e soprattutto li mette a confronto con il passato, che non ha mai lasciato del tutto i suoi personaggi. Quando arrivano in cima alla collina, Nigro fa dire a Eustachio che lì “c’era una grande quercia che secondo la tradizione era stata piantata da Annibale dopo la vittoria di Canne”. E ancora: “quel poggetto diventava il punto di confluenza di tutti i misteri della terra.” La lentezza e la prudenza del procedere diventano la caratteristica emergente del romanzo, che lo fa diverso dagli altri di questo autore. Finisce anche che questo romanzo non ha in effetti un protagonista centrale, se non quella coralità di comportamenti che contraddistinguono un luogo, e in questo caso un Sud in trasformazione, combattuto tra nuovo e antico, o meglio proiettato verso un distacco dall’antico, destinato forse a fallire. L’antico, infatti, è lì, presente nei nomi e nelle tombe scoperchiate, negli scheletri che tornano alla luce del sole e attraggono gli individui. Non sarà facile disfarsene. La lentezza e la minuteria presenti nella narrazione, che possono apparire di poco significato, producono in realtà il focus di un razza in movimento, ripresa, come per il viaggio di Mosè, nel momento del suo tentativo di distacco da un antico che sembra non più adeguato. Non ci sono colpi di scena, attese di eventi straordinari, carismi di personaggi, gesta coinvolgenti, niente di tutto questo ha scelto di rappresentare Nigro: ha lasciato da parte i singoli eroi per mostrare, invece, l’opera che il tempo consuma su di essi: “quella civiltà aveva affascinato nel Sette e nell’Ottocento i viaggiatori inglesi francesi e tedeschi, che già venivano a depredare. Persino Goethe e Byron erano venuti a depredare.” E ancora: “Il mondo pare che cambi, ma stringi stringi ci comportiamo come gli uomini del paleolitico. Né più né meno.” Quelle che abbiamo riportato sono le parole che Nigro mette in bocca al sovrintendente Adamasteanu in occasione di una intervista realizzata dalla Rai. Sarà lui che, rivolgendosi ai predatori degli antici sepolcri, ai tombaroli, espliciterà uno degli obiettivi del libro: “Mi rivolgo ai tombaroli, ai contadini, per chiedere loro di darmi una mano. È gente in gamba, ma i loro figli hanno bisogno di conoscere la propria storia. Per andarne orgogliosi, alzare la testa e smettere di vedere nei mondi degli altri i mondi migliori.” Ecco, dunque, tracciata una rotta: “smettere di vedere nei mondi degli altri i mondi migliori”. Perché fare dei salti che, alla fin fine, ci confinano altrove e forse ci distruggono? Quando Eustachio e i suoi compagni gareggeranno in moto (siamo negli anni Settanta) per superare il vuoto di dieci metri che divide due spezzoni di un ponte sospesi sopra un baratro, che cosa fanno se non imitare i ragazzi di “Gioventù bruciata”, il celebre film di Nicholas Ray, del 1955, interpretato da James Dean? Le morti che avviliscono le due competizioni avvenute a distanza di anni tra di loro, si trasformano in realtà in un’unica identica morte. In economia si fa altrettanto: lavoro e cementificazione vanno a braccetto: se si vuole lavoro, occorre costruire, sostituire alla natura il cemento, perché il cemento sta disegnando la nuova convivenza, e così accadrà per tutto il resto che viene dall’esterno, che non appartiene al Sud, ma che il Sud si è illuso di conquistare: “Digli che vuoi portare il paradiso sull’Aspromonte, che vuoi dare lavoro a mezza Calabria”. È Antonio Spera, conosciuto come Totonno Orapronobis, il ricco costruttore presso il quale lavora come geometra Eustachio, che con queste parole si rivolge al figlio Renato (Che Guevara) considerato un idealista. Ma il paradiso promesso altro non è che un villaggio turistico per soddisfare la richiesta di case per vacanze delle città di “Napoli e Caserta”. Ed ecco come dovranno essere le case da costruire: “Si deve puntare ai piccoli risparmiatori e non superare i trenta metri, letto cucina e cesso. È più che sufficiente per questi cafoni!” E ancora: “Io distruggo la disoccupazione, sono come san Rocco, io, tolgo una piaga.”

Il mondo auspicato da Totonno fa da contraltare a quello in disfacimento del barone calabrese Federico Maria Telesio, presso il quale Che Guevara è mandato dal padre per convincerlo a vendergli le sue terre dove poter edificare. È un uomo che ha deciso di starsene chiuso nel suo palazzo: “Sono un prigioniero volontario dei ricordi e, se volete, un vigliacco che non vuole guardare i guasti che i tempi correnti hanno prodotto. Questa è la mia Sant’Elena.” Ciò che sta accadendo fuori lo ha inorridito: “vi giuro che non riconoscevo più la mia costa, le mie terre. Una devastazione vergognosa, un inferno di cemento e di cantieri abbandonati […] E mi chiedevo: ‘Ma dov’è finito il gusto del bello? E dov’è finita l’onestà contadina del Sud se dai Borboni a oggi non s’è fatto che sconquassare?'”

Nigro ha deciso di ribadire, dunque, il contrasto che ammorba il Sud attraverso due figure rappresentative dei due mondi in conflitto. Ma non solo, anche tra l’avventuriero Totonno e il figlio si sta facendo sempre più ampio il divario di vedute, e sta arrivando il momento in cui il giovane sente che dovrà reagire: “Continuo a fare come vuole mio padre, sono senza spina dorsale. Sono contro tutto questo e non riesco a reagire. Che razza d’uomo sono?”

Intanto qualcosa si muove, germina, fermenta. È per il momento un piccolo seme, nato da un’idea di Eustachio, a poco a poco maturata anche nella mente del padre: iniziare un’attività per non andarsene, mettere su un salumificio; allevare i porci in proprio e macellarli. Occorre trovare i denari. Come fare? Una sola strada: indebitarsi, stringere la cintola, evitare gli sprechi, fare sacrifici. L’idea porta già i primi frutti: “se si insegue un sogno comune la famiglia può trovare un momento di unità.” È cominciata una sfida. Qualcosa di nuovo, finalmente, si pone in mezzo tra la voracità di Totonno Orapronobis e la rassegnazione del barone Telesio.

Il punto in cui è arrivato il racconto di Eustachio, con la contrapposizione tra il rampante costruttore e il sonnolento e immalinconito barone, coincide con il momento in cui dentro la cella si confrontano finalmente due modi di vivere di altrettante civiltà contrapposte. Eustachio accusa El Houssi che la sua gente si è pietrificata: “il vostro Profeta vi ha dato una damigiana di Lexotan”; e El Houssi risponde: “Non so chi aspetta di essere svegliato. Se voi che correte per non pensare o noi che siamo pietrificati.” Va ricordato che questo confronto, seppur a pezzi e bocconi, stentato, raffrenato, non avviene all’aria aperta, godendo di una propria libertà, ma dentro una cella, nel momento in cui si è in qualche modo costretti a stare insieme. Forse sono la sofferenza, il pericolo comune, la paura vissuta insieme, ad indurre due visioni contrapposte della realtà a confrontarsi?

Ma Eustachio ha ancora una storia lunga da raccontare. È l’europeo, infatti, che ha forte in sé questo desiderio di ripercorrere la storia del suo mondo. Sceglie una donna, l’autore, per forzare il senso di solitudine e di scontento che lo pervade: Soukeyna. L’abbiamo già incontrata. Abbiamo letto al principio del racconto: “Io ho una ferita. Una figlia. Una ragazzina che si chiama Adithiane. Vive sbandata tra Metaponto Parigi Montpellier Dakar con la madre, Soukeyna, una senegalese.” È giunto, dunque, il momento di ricordare Soukeyna, non solo la sua bellezza, ma la fuga dal suo paese, cacciata dalla povertà, ammaliata dalle luci e dai suoni, dai colori e dai sogni di cui il Nord è avvolto: “Tutti fuggivano verso nord. Come i re magi con la stella polare. Dall’Africa all’Europa e poi verso l’America, inseguendo un sogno, o verso altri luoghi. Una corrente elettrica di insoddisfazione.” La incontra (“il suo corpo di terracotta”, e anche: “un’orchidea colorata”) in occasione di una grande festa data da Orapronobis, “Una roba da Grande Gatsby”. Queste le parole del racconto: “C’era al guardaroba una ragazza di colore sui quindici sedici anni. Una negretta bella tosta, che il vestito di maglina azzurra faticava a contenerne il patrimonio. Corvina di capelli, con trecce a rasta e gli occhiali dorati.”, e ancora: “era un inchiostro tipografico e aveva un corpo da antilope, slanciato, alto, ma la pelle liscia liscia, le labbra come carciofi, i seni erano due cucumarazzi e non sto a dirti del tamburo. Una pupa di creta. Solo un dio speciale poteva aver fatto quel tamburo e quei cucumarazzi; se metteva un paio di shorts si rivoltava Metaponto.” Se ne innamora e viene ricambiato. Gli dice un giorno la ragazza, nello stentato italiano: “Tieni stretta Soukeyna; io vuole credere che ha finito di viaggiare, ha finito di cercare da sola.” Lui domanda: “Che cercavi da sola?”, e lei: “Mah, troppo grossa dire felicità? Oui, felicità.” Hanno una figlia, ma, come la figlia, anche Soukeyna è stata di nuovo lasciata sola. C’è la ferita della figlia, dunque, ma c’è anche la ferita di non aver corrisposto ad una solitudine in attesa, trepidante, colma di speranza, vogliosa di una felicità semplice, pulita. Il racconto di Eustachio è passato dal confronto tra i modi di vivere di popoli diversi, dall’aspirazione di un Sud che guarda al Nord come modello da imitare (quando Eustà conoscerà il soldato americano Danny, un magazziniere che si vende sottobanco molta merce delle Forze Armate statunitensi, dirà: “Fu un amore immediato per quella roba, profondo e pericoloso. Perché dopo quegli odori feci fatica ad accettare gli odori del mio mondo.”), a quello ben più tracciante del confronto tra due anime, una delle quali si è cullata dentro un sogno, un’illusione. È andata dietro a quel sogno, ha lasciato tutto, sospinta da un desiderio spontaneo, implicito nella natura di tutti gli uomini: quello di essere felice. Non ha chiesto la ricchezza, ma la felicità. Non è già più in questo momento la Soukeyna che ha sulla pelle un colore diverso da quello di Eustachio, ma un essere umano in tutto uguale agli altri. Ci si dimentica spesso – vuol farci intendere Nigro – che al di là delle differenze di lingua, di cultura, di colore, e così via, c’è una componente che appartiene in misura e modi uguali a tutti gli uomini, ed è la loro anima.

Non è affatto azzardato dire che il romanzo gira intorno a questa ferita. È questa ferita che smuove il tutto, e sollecita il ricordo, e, meglio ancora, la rivisitazione di un cammino non ancora compiuto, ma di cui si avvertono le debolezze e, forse, perfino le viltà.

Soukeyna si fa regina, dea, ninfa, ora che l’io narrante ne ripercorre il contatto: “Entrava in quei panni come un sarago nelle profondità marine.” Ma quando Soukeyna rimane incinta “le cose non mi apparivano più come prima, ero in trappola e bisognava fuggire.” Le suggerisce l’aborto: “Mezz’ora di tempo e pisci il mostro.”, ma “Lei non vuole”. Pare infine cedere (pare, perché poi nascerà Adithiane); si fa accompagnare dal medico e nella stessa giornata lascia per sempre Eustachio.

I due prigionieri, intanto, cercano una via d’uscita, ma la cella è situata in un palazzo diroccato che ha intorno a sé mare e dirupi. Sembra impossibile fuggire. Se non che scoprono una stalla dove sono rinchiuse due pecore. Vi si rifugiano, sperando che l’arrivo di qualcuno, del pastore ad esempio, riveli loro la via di fuga. I ricordi riprendono. Siamo giunti al 1976, allorché a Metaponto compare una ragazza: “una tipa carina. Il viso quanto un ananas, il profumo di mela e i trampoli che sbucavano dal giaccone blu. Pareva che non portasse gonna. Aveva un sacco di cuoio ad armacollo e uno zaino, i capelli neri a coda.” Si chiama Mary Lodigiani ed è torinese. Eustachio l’accompagna con la sua moto a Valsinni, un borgo che “incornicia una collina che ti viene incontro sulla sinistra dell’asfalto, tra olivastri e canne.” Quando, qualche tempo dopo, va a trovarla e la sorprende seduta su di un ceppo a contemplare il fiume, la ragazza gli dice: “Guardi che un paradiso così non è mica di tutti i giorni. Venga a vivere da me, in un blocco di cemento.” Allora Eustachio riflette: “Strano, fuggivo proprio le cose che lei cercava.”

Ha “una borsa di studio biennale in Letteratura italiana all’Università di Torino” e cerca notizie su due storie di sangue che hanno interessato il Sud. Una di queste era accaduta nel Cinquecento proprio a Valsinni, l’altra a Venosa. Riguardano due donne che si erano innamorate ed erano state trucidate dalla famiglia: “assassinate da un mondo maschilista e di merda.”, racconta la ragazza.

Al contrario di Soukeyna “orgogliosa ma arrendevole”, questa donna che viene dal Nord è “tosta”, disinvolta, si cambia di abito davanti a Eustachio, “come se io non ci fossi”.

Ha idee chiare sul ruolo della donna nella società e viene per resuscitare storie che spera possano far aprire gli occhi: “la memoria è un patrimonio e solo gli imbecilli non lo capiscono.” Dovunque si muova gli uomini le si buttano addosso, “come api sui fiori.”

Un americano che è venuto per acquistare clandestinamente reperti archeologici, Jeffrey Braham, mentre sta viaggiando sulla sua “Mercedes nera” con Eustachio ed altri e incontrano una processione e l’altro americano che è con loro, che abbiamo già conosciuto, Danny, racconta al connazionale una leggenda su San Pietro, che era passato da quei luoghi, Braham esclama: “È incredibile, ogni angolo di questo paese ha una leggenda da raccontare.” Il Sud, dunque, con il suo magico fascino che deriva dalla storia: aspra, contraddittoria, ma seducente. Mentre Eustachio cerca in tutti i modi di salire al Nord, ecco che il Nord sta scendendo al Sud. Mary dice a Eustachio, a proposito di Taranto: “L’Italsider è stato un disastro, questa città era destinata a diventare la capitale del turismo. Ma ci pensi, Eustà, già solo alle spiagge? Per non dire poi che questa è la Magna Grecia? Mica una roba da niente. La Magna Grecia. Per tre secoli l’Europa ha sognato questi posti. Ma che abbiamo fatto per meritarci una classe politica così ignorante?” Spinta da quelle selvagge storie di sangue che hanno reso vittime orribili le due donne del passato, ora Mary viene dal Nord per salvare quanto c’è di magnifico e raro nel Sud: “qui c’erano contadini che lavoravano le campagne. Qui c’erano tradizioni feste processioni canti sull’aia.” E più avanti dirà: “Forse dovrei tenerti lezioni di identità e di orgoglio municipale e contagiarti un po’ di amore per questi luoghi.” E ancora, sempre rivolta a Eustachio: “Credi che non sappia che ti vendi quello che io, forestiera e polentona come dici tu, cerco di ricucire?”

A poco a poco, con quei fatti minuti più vicini ai resoconti di un diario, quasi privi di grandi emozioni, l’autore sta componendo, nel silenzio più assoluto, senza mai dichiararlo, un grande affresco del Sud com’è oggi, avvolto in un dolore, che è diventato il testimone e il simbolo di un trapasso inevitabile e malinconico, tuttavia ancora trattenuto dalla nostalgia per una storia nobile che non vuole essere dimenticata. Il significato del romanzo si fa maestoso e imponente. Ed è proprio la donna, che è stata tenuta prigioniera per tanto tempo nella società meridionale, a farsi portatrice, attraverso Soukeyna e Mary, di questo travaglio epocale, che rischia di far perdere al Sud la sua dolcezza e la sua nobiltà: “pensavo a Soukeyna e a Mary.”

Nigro sparge ovunque i profumi, i colori, i disegni di un paesaggio che si mischia ai pensieri. Esso si ingrandisce sempre di più fino a rendersi protagonista, come quando sulla moto insieme con Mary salgono ad Aliano, “un biancospino sul crinale”, il paesino dove fu confinato Carlo Levi.

Si domanda Eustà, allorché, giunti al paesino, vengono scambiati per giovani sposi ed è offerto loro un letto dove riposare: “se ci fosse stata Soukeyna, sarebbe stato lo stesso per queste donne?”. Mary e Soukeyna, dunque, le due facce di una stessa medaglia: Mary è diventata il simbolo di un Sud che ammalia con il suo luccichio, Soukeyna è l’espressione della sua dolcezza e della sua sofferenza muta: “Desidero Soukeyna come l’acqua e il pane.” E ancora: quando Eustachio pensa a Mary “riaffiorava anche il ricordo di Soukeyna.” Non è forse in Soukeyna che si incarna quanto dice El Houssi: “l’Occidente ha perso ogni senso dell’etica.”? Non è per questo che Soukeyna e Adithiane sono diventate la sua ferita? Soukeyna è “Il mio primo amore e il mio primo misfatto.”

A El Houssi è assegnata la parte di ascoltatore, ma quando parla le sue parole esprimono una profonda consuetudine con la storia e soprattutto con il passato: “la storia e il passato non possono essere soltanto le pietre, le tombe, i reperti. C’è un’anima in queste cose, vive nascosta negli oggetti, non si vede, trasuda, è la loro fodera, sono i concetti, i sentimenti, gli insegnamenti e il modo di vivere e di credere.” Non si rivolge solo al compagno di prigionia, ma si esprime anche per la sua gente, divisa, come gli europei, fra i miraggi dell’Occidente (un Oriente “sventrato dai simulacri del consumismo.”) e una vita ispirata ai valori del passato.

Allorché Eustachio si imbarca su una petroliera, la Victoria fulgens, diretta in Egitto (questa volta si è deciso ad andare in Africa), insieme con Che Guevara, questi dice: “Il futuro non è a Occidente. Il futuro è in queste terre.” E ancora: “Il comunismo non basta più. Nessuno crede nella possibilità dell’eguaglianza attraverso Marx e il mondo si è infervorato della ricchezza occidentale. L’islam sarà l’unica alternativa al comunismo.” Dunque, nella storia che Eustachio racconta, c’è un momento in cui due persone che non si conoscono, El Houssi e Che Guevara, s’incontrano in un pensiero comune. Invece, Eustachio ancora cerca di resistere al richiamo del Sud, lo sente, ma continua a subire la fascinosa magia della modernità. Scende ad Alessandria e nel caos che incontra riesce, tuttavia, sebbene ancora lo respinga, a sentire il profumo del Sud: “Mi parve di vedere disegnato nel cielo di Alessandria la fede arcaica di mia madre, i cortei processionali del mio Sud. Il Sud era Sud soprattutto in questo. Perciò mi rifugiai sul Victoria fulgens, per sfuggire a quel mondo, per illudermi che l’odore di petrolio mi avesse riconsegnato all’Occidente.” Visita Dubai, il cui porto è pieno di petroliere, ma quando rientra a Metaponto si accorge che il viaggio, forse ogni viaggio, non è mai inutile: “Si torna e tutto ti appare diverso, più bello o più brutto.”

Nigro ci sta preparando al miracolo che sta racchiuso nella memoria delle cose e degli uomini. Abbiamo assistito alle vicende, quasi a delle scorrerie, di Eustachio, condannato a sentire, là dove è nascosto, l’odore del passato, che non è altro per lui che un odore di muffa e di morte. Arriva una donna dal Nord, Mary, disinibita, intelligente, brillante, e gli svela che il Sud è una ricchezza dimenticata. Quando più tardi ritorna a trovarlo, gli fa capire che lui vive “senza domani e senza passato”, come un lago a cui venga a mancare la profondità: “Sai che diventa il lago senza profondità? Una palude. Noi siamo in una palude Eustachio.” Una inquietudine che sempre ci accompagna e che Mary chiama “bambocciamento”. “Effettivamente io bambocciavo, non decidevo di impegnarmi, di crescere e pigliarmi il peso della vita sulle spalle.” Eccola, ancora una volta, la paura di crescere, con in più il ripudio implicito del passato e un desiderio indefinito, vago e generalizzato, del futuro. Nigro, a poco a poco, ci ha portato, attraverso una strada che ha saputo ben nascondere nelle maglie di un racconto variegato, dentro il tema che fu caro al Corrado Alvaro de “L’età breve”. Un passaggio difficile, questo della giovinezza, che Nigro sposta in un giovane non più ragazzino, come lo era invece Rinaldo Diacono, non innocente come lui, ma già preso dalle smanie di una realtà che lo ha avvolto nei mille tentacoli dei giorni nostri: “Avevo scoperto la libertà dell’adolescenza, quel limbo di attese, di novità, di piccoli compromessi tra autonomia e costrizione e lottavo per non andare avanti. Come le lumache che rifiutano di cacciare le corna fuori del guscio.”

Come era stato in Egitto e a Dubai, così gli viene offerta da Braham (che vuole sfruttare quel suo odorato speciale per le scoperte di tesori archeologici) l’occasione di visitare l’Occidente. Scende a New Orleans e trova “come proscenio alle sagome dei grattacieli, la savana di cemento circondata da sequoie e baobab e cipressi di cemento. Una foresta infinita. E una infinita prateria nella quale pascolavano file infinite di automobili e di camion.” Gli sembra di vivere “in un film.”

Ed è proprio in queste città dove non sente più il “fetore di morte” che si accorge che “Io fuggivo cose che lì si cercavano.”

Ha un po’ gli occhi di Kerouac il Nigro di queste pagine americane; solo che il suo personaggio trascina dietro di sé un carico che non appartiene all’America, ma ad una storia più antica e i continui profumi che ne sprigionano creano intorno a Eustachio l’alone di una bellezza mediterranea che egli mai aveva saputo osservare e godere: “per la prima volta parlavo con trasporto di cose che avevo fino a quel momento disprezzato, i suonatori di pizzica e i tarantati che addormentavano la taranta ballando ballando. L’aria scossa da tamburi traccole tamburelli.” Nella villa museo del ricco e mafioso Braham, egli ritrova i reperti estratti con le proprie mani, individuati con il suo speciale odorato, intere tombe ricostruite, ed allora: “Mi prese una botta di orgoglio.” È proprio Jeffrey Braham che gli dice: “la gente cerca i frutti e invece bisogna cercare la radice.”

Il viaggio di Eustachio tra i paradossi e le assurdità del mondo sta per compiersi. Vede altre città, come Los Angeles, San Francisco, Chicago, New York, la luccicante Las Vegas: “la città dei balocchi.” La verità che si nasconde nell’esistenza di ciascuno di noi sta per svelarsi: “Ero un deserto e mi ritrovo un terreno fertile, pronto alla semina.” Quella ferita, la ricordate? È la ferita che si sta avvolgendo nel dolore ed è attraverso questo dolore che la memoria del passato si sta trasformando in carne viva, la cui sorgente sta nel volto, nel corpo e nell’anima di Soukeyna.

Fuggiti dalla prigione, intorno a Eustachio e El Houssi si spalanca il mondo cui appartiene Soukeyna, un mondo semplice, dove i beni più preziosi sono l’acqua e l’erba, dove un anziano cieco, Assad, può guidare nel deserto una tribù di berberi che con le loro capre vanno cercando acqua e pascoli. Ma dove, soprattutto, il bene più prezioso è il silenzio.

Nel continuare il suo racconto a El Houssi, Eustachio affida ancora al ricco Braham il significato della modernità: “Il petrolio è una spinta a possedere. Ti indica l’onnipotenza e il presente. Mentre la creta è la memoria di tempi in cui si misurava a piedi la lunghezza della vita. Ed è questo che manca qui al nostro tempo di energia e di fumo, il senso della memoria che serve ad umanizzare il presente, il futuro e la ricchezza.”

Nigro ha scattato due immagini significative, una di seguito all’altra, quella del deserto e dei beduini e quella di una città moderna e ricca, e le ha messe a confronto nel nostro immaginario.

La presenza della memoria è ciò che distingue la prima immagine dalla seconda, e la memoria assume qui lo stesso valore vivificante e mitico che troviamo nelle opere di un altro scrittore dei nostri giorni: Carlo Sgorlon.

Il romanzo è un viaggio, dunque, durante il quale lo smarrimento, la paura, le illusioni, la voglia di arrestarsi si fanno potenti strumenti dell’incertezza e dell’inganno, della perdita della propria identità. Quel viaggio è ineludibile, ogni uomo lo compie, ma il suo valore sta racchiuso nella nostra memoria, nella possibilità, ossia, di ripercorrerlo ancora una volta. Sull’aereo che lo condurrà a Dakar per riportare a casa la figlia Adithiane e Soukeyna malata, tra le molte parole che si prepara a dire alla figlia, ci sono queste: “Dirò per esempio che sono stato un cattivo compagno e un pessimo padre, non sono stato forse né compagno né padre, ma che ho ripercorso passo passo la mia vita, che bisogna ripercorrerla per cercare se stessi, per scovarsi in qualche nascondiglio.”

Nigro ci ha fatto fare un grande giro, come in un sogno, lo ha cosparso dei profumi dell’Oriente e dell’Occidente, dell’antico e del moderno, dei rumori e dei silenzi, ci ha fatto da guida in una realtà fantasmagorica, le cui contraddizioni ammaliano e ad un tempo spaventano, rischiano di lasciarci nel mezzo di una crescita, di non farci diventare adulti, di fuggire dalle responsabilità che diventano sempre più pesanti a mano a mano che una sempre più debole memoria del passato rischia di farci smarrire – rimasti senza più radici – nella modernità. Nigro ci ha portati in giro senza dirci tutto questo, ma soltanto mostrandoci il mondo. Ci si domandava del perché il suo occhio, partendo dalle minute osservazioni, ingrandisse continuamente il paesaggio e le azioni degli uomini e ce li offrisse nel significato di una visione in attesa: in attesa, cioè, di una ricomposizione che non sarebbe mancata. È sull’aereo, a mano a mano che si avvicina a Dakar, che il suo pensiero, finalmente, si sta a poco a poco ricomponendo ad unità, e proprio in virtù del radicarsi in quel passato che appariva perduto per sempre: “Mi piacerà quando saremo a Metaponto sedermi sul poggio di Annibale e toccarti i capelli, come adesso, con Soukeyna che dà le spalle alla quercia dove sono sepolti i miei nonni e ci osserva. Mi piacerà guardare la ragnatela stesa tra i rami dei peschi o tra i finocchi selvatici. Nella siepe vedrai delle ombre. Il profilo di zia Cristina? o dei nonni? Non lasciarti ingannare, Adithiane, quella è la mia giovinezza, stesa come un velo. Magari proverai a raccoglierla, ma si scioglierà tra le dita. Allora ti girerai verso di me e non mi riconoscerai, perché quello che se ne sta seduto tra i papaveri e l’orzo non è più l’adolescente che temevi, ma finalmente ha lo sguardo di un uomo.”

“I fuochi del Basento”

Giunti, pagg. 246. Euro 9,30

Ha poca importanza sapere se si tratti effettivamente di memorie familiari dell’autore, che peraltro non ne fa mai esplicito cenno, anche se ciò è presumibile; sta di fatto che questi ricordi consentono pure a noi di fare un viaggio nella storia della Lucania, in particolare delle terre intorno all’Ofanto, con Pasquale Nigro che, sul finire del Settecento, raccontava ai figli e ai nipoti le gesta del brigante Angelo Del Duca, che rubava ai ricchi per dare ai poveri, e poi con il figlio Francesco Nigro, il cui sogno era quello di riuscire a leggere e a scrivere e aveva nel sangue, come altri discendenti della famiglia, la musica dei cantastorie, ma che presto, rivoltatosi contro i padroni, si troverà a fare il capobrigante. L’ambientazione delle sue gesta è quella del periodo che vide l’invasione del Regno delle Due Sicilie di re Ferdinando I (“re Nasone”) da parte dei francesi di Napoleone, guidati dal generale Pallavicino. Questa guerra, con il continuo reclutamento di giovani per organizzare “un imponente esercito straccione”, e contrastare il forte ed inarrestabile esercito francese, incombe sulla storia narrata. In mezzo stanno i briganti, e i fuochi richiamati dal titolo sono, in principio, i fuochi dei bivacchi dei loro leggeri e fugaci accampamenti e, poi, quelli dei viaggiatori che attraversavano quelle terre, o dei due eserciti che si fronteggiano, o dei disertori datisi alla macchia sui monti per non finire a combattere in Siberia. Quando re Ferdinando decide la fuga, il vento francese della libertà incoraggerà i primi ardimentosi a rivendicare le terre dei latifondi (“Ci si camminava col cavallo per giornate intere senza mai sconfinare, da dove nasceva a dove moriva il sole”) e affrancare i contadini “dalle servitù, dalle decime, dai terraggi.” Francesco Nigro, “il generale”, che non ha mai abbandonato la sua passione per i libri di cui va facendo incetta nelle sue scorrerie, decide di schierarsi dalla parte degli insorti.

“Ma una casa grande, con due tre piani, che uno lo voglio per i miei figli, uno per noi due e uno, il più alto, dove solo tuo marito può metterci piede, con tanti bei mobili e vetrate, che riempirò di libri, con lanterne e statue di legno”.

La guerra avrà alterne fortune e noi ci troviamo a percorrere lo svolgimento di un’epopea, con la sensazione quasi tangibile di avere intorno a noi la massa degli avvenimenti e dei personaggi che colmarono quegli anni. La storia di Francesco Nigro e della sua discendenza non è mai, infatti, una storia personale, ma si trascina dietro, sempre, quella più ampia che interessò le terre del Basento. Il Basento, l’Ofanto fin nella Puglia, e anche il Bradano, segnano con le loro acque e le loro selve i confini (“aveva sempre un occhio all’Oltreofanto, da dove arrivavano solitamente i viaggiatori”) di questo enorme corpus tanto denso di umori, di vita contadina, di tradizioni, di memorie, di sofferenze, di miseria (“per la prima volta, ho assaggiato carne umana”), di superstizioni, leggende, fantasmi, miracoli, apparizioni, ombre.

Lessi “Ombre sull’Ofanto” in forza di un istinto che mi attirava verso questo titolo e questo autore del Sud. Non mi ingannavo; e ora “I fuochi del Basento”, che è precedente all’altro, conferma e moltiplica, con la potenza e la suggestione delle grandi storie, l’autorevolezza di questo autore, che ben si inserisce, a mio avviso, nel filone della grande letteratura meridionalista, che ha visto fiorire opere quali, ad esempio: I Malavoglia, I Viceré, Fontamara, Cristo si è fermato a Eboli, Il Gattopardo.

Una scoperta che lo allinea ai miei scrittori italiani viventi preferiti, quali Sgorlon e Abate.

Valga la descrizione, al capitolo 27, della morte di mamma Teresa Parlante Nigro, la quale riesce a raccogliere e rammemorare tutti i secoli che hanno segnato una donna del Sud: non ne ho ancora letta una eguale per forza di immagine, per suggestione, tenerezza; nonché il matrimonio di Teresa Addolorata, con quel superbo rituale antico: la sposa “Per otto giorni non sarebbe uscita di casa, perché nessuno leggesse sul suo volto i segni del peccato.”

Anche la figura del cardinale Fabrizio Ruffo, che comanda l’esercito di re Nasone, a poco a poco giganteggia nel romanzo, affiancandosi a quella leggendaria di Francesco Nigro. Sono i loro movimenti, le loro conquiste di paesi e città, i loro saccheggi per le terre del Basento a riempire di fuochi e ad illuminare quell’epopea di uomini e di avvenimenti, che non manca di destare in noi lo stupore di avere sotto gli occhi, come fosse ancora presente e viva, in grazia anche di un uso sapiente di termini dialettali, una pagina di storia lontana. Leggete questa descrizione: “Nella strada polverosa passò una squadra di mietitori. Scalzi e laceri come sono i braccianti della Puglia. Riposato su un asino li guidava il caporale, si difendeva dal sole con un ombrello e aveva l’orcio fresco nella bisaccia.” Ma il libro ci riserva altre sorprese e ci impone nuovi personaggi come Carlantonio, il figlio di Francesco, vendicativo e spavaldo, finito anche lui nel brigantaggio come il padre. Le bande di briganti, che attraversano le terre del Basento, e ora si schierano coi francesi ora coi borboni, secondo il tornaconto, oppure si scontrano tra loro per rubarsi il bottino di un’imboscata, e, infine, sono combattute sia dai francesi del generale Manhes che dai borboni di Federico Filangieri (che una svista a pag. 131 tramuterà in Ferdinando. Tra Filangieri e Carlantonio vi è una questione privata da regolare, che costituisce un altro dei motivi di interesse di questa complessa trama), sono qui veicolo di una esistenza dove legalità ed illegalità diventano parole senza senso e solo viene riconosciuta la forza bestiale della prepotenza e della sopraffazione: “aveva quindi sospeso i prigionieri agli ippocastani per i piedi e li aveva lasciati ad asciugare al sole.” Il brigante Taccone, altra figura trista e imponente, presso il quale Carlantonio troverà asilo nella sua fuga, viene accolto nei paesi come un re: “Taccone re di Calabria e Basilicata e generale comandante di una truppa di trecento e passa uomini.” Tempi, questi, in cui nessuna pietà, nessuna attenzione erano riservate ai deboli e ai codardi e le donne, le stesse spose dei briganti, erano da questi profanate e umiliate, subendo spesso in silenzio: “C’è Palomino in giro, con dieci uomini. Attacca le case di campagna, fa razzia di donne e le porta in Puglia, in certi mercati di prostituzione.” Anche con costui, vedrete, “il generale” Carlantonio Nigro dovrà saldare un conto. E sempre fa capolino, in questo grande affresco storico che vede sfilarci davanti agli occhi ben quattro sovrani che vanno da re Nasone fino a re Bombetta e Francesco II, il filo sottile – sia pure nascosto sotto una montagna di rassegnazione – dello spirito indomito di queste martoriate popolazioni, che ogni tanto riaffiora, portate come sono, per istinto, alla rivolta, non importa contro quale padrone: “Tommaso Campanella e La repubblica del Sole qui hanno molti proseliti.” Alcuni personaggi, tuttavia, s’incaricano di fare la differenza e di dare una straordinaria levità ad una storia che altrimenti sarebbe – prostrata la povera gente perfino dal colera – solo cinica e beffarda: Pietropaolo (“comandato dall’angelo a seguirvi, tutti di casa, nel bene e nel male”), zio Luigi (“Agitava le braccia nel vento e tracciava dei segni”), Raffaele Arcangelo (“il generale dei poveri”), Maria Fonte di Bene (“figlia del faggio e di una lepre, figlia di un lupo e di una felce?”), che è la moglie di Vitodonato e madre di Bartolomeo, l’ultimo Nigro con cui facciamo conoscenza, che riprende il nome di un antenato vissuto nel 1600 e, infine, davvero mirabile, un vero tocco di grazia, sarà la presenza, di guida e di conforto, dei morti: “Andiamo, don Francesco, finché brillano i cerogeni – disse don Tommaso. Ma teniamoci vicini. Ho da raccontarvi degli anni che non avete visto.”

“La Baronessa dell’Olivento”

Camunia (Giunti), pagg. 236. Euro 4,13

Siamo nel 1448. I Turchi stanno compiendo scorrerie dappertutto. Noi percepiamo subito questo sfondo di guerra, sebbene all’inizio appena accennato dall’autore, il quale si premura, invece, di farci sapere che l’io narrante è una ragazzina di nome Vlaika Brentano, nata senza braccia né gambe (“una ninfa, bella di faccia e di occhi”) che, condotta dai genitori presso una maga, saprà che quando compirà gli anni di Cristo il corpo si risanerà. La maga vive in un antro, ma “in realtà era assente, non viveva nella grotta ma chissà dove” e davanti alla grotta, ad assisterla, c’è un “pastoricchio”, e più precisamente “un piccolo gin e sapeva trasformarsi in fiore di barbadibecco foglia pula pidocchio e volare”. Il fratello Stanislao è impegnato a costruire una torre per il principe del luogo, nell’alta Albania, e la sorella, serrata in una cesta, lo sta a guardare. Ecco disegnato il mondo in cui ci introduce la penna di questo straordinario scrittore, capace di evocare suggestioni tanto ammaliatrici da trascinarci dentro gli umori stessi delle vicende narrate.

Ed è una storia in cui presto irrompe la guerra, con “il sultano dei sultani” Murad Han Pascià che trova a sbarrargli la strada l’eroe Giorgio Castriota Scanderbeg, “Principe d’Albania”. Sarà proprio Scanderbeg, sempre annunciato da una bianca colomba che gli si posa sulla spalla, a riconoscere il talento artistico di Stanislao Brentano, “nato per dipingere e intagliare”, e a chiamarlo alla sua corte, insieme con la sorella “chiusa in una cesta”. La storia dei due fratelli si svolge fra scenari di povertà e di guerra, di superstizioni, di profezie e presagi, di religiosità morbosa ed inquieta, di eresie, essendo nati da genitori girovaghi: il padre Alessio Brentano comprerà nel corso di uno dei suoi viaggi come cantastorie, intrapresi sotto la guida del capocarovana Kurtatsc, “sette oche e una forestiera” in cambio del suo cavallo Veleno, e la forestiera parlava una lingua che lui non capiva, il napoletano. Si chiamava Polesella Albino, rapita dai turchi alla sua ricca famiglia di Napoli, e diverrà presto la sua sposa e la madre dei due protagonisti, entrambi affetti lui da “male morbo” (“questa voglia di fare e non sapere”; “un desiderio di fuggire sempre e mai approdare a qualcosa di compiuto, di duraturo”) e lei da quell’infermità terribile, sventure che la madre interpreterà come una punizione per il suo matrimonio pagano con l’uomo che l’aveva comprata: “gli albanesi raccontano che videro volare nei trapunti degli olmi stuoli di oche bianche che sostenevano tra le zampe i due amanti.” Polesella ha anche un terzo figlio, “Senzanome”, “abitatore dell’aria”, fuggito “silenzioso, senza dolore né pianto” dal suo ventre, che ci rammenta, per la funzione specifica che ricopre nel romanzo, il Pietropaolo de “I fuochi del Basento”. Come il ricordo del lucano Orazio ci ricollega in qualche modo ai giorni più recenti raccontati in “Ombre sull’Ofanto”.

Questa avventura, che s’inoltra nel mito e nei segreti della vita, ha la musica di un canto, di una ballata, i sussurri di una nenia e la prosa si congiunge alla poesia come nella voce di un antico aedo. A Zadar partecipiamo anche noi alla processione credula che condurrà tanti pellegrini, alcuni dentro “i traini abbelliti da frasche e fiori, in un odore forte di letame, di incenso, di cera ardente e di marina”, nella chiesa del convento di san Francesco, per chiedere miracoli al “frate Jacovo Varingez la cui fama girava per tutta la Schiavonia.” Come più tardi ci introdurrà dentro il monastero in cui, deposta sulla ruota “della pietà o del rifiuto”, verrà condotta la povera storpia.

Si tratta di un viaggio anche per Stanislao e Vlaika, che dall’Albania, per volontà di Scanderbeg, saranno spinti, in ambasceria, a seguire, come dice Stanislao, “la voce del sangue dall’altra sponda”, ossia Napoli, da dove venne sua madre, per una marcia che li farà passare da Venezia, dove trovarono “una ressa di fuggiaschi albanesi, greci e schiavoni che si ammucchiavano sul piazzale di ingresso alla città.” “Anche il capoposto si grattava, ogni volta che si nominavano i turchi.” E a scendere, sempre per via terra, verso Campobasso, incontrando processioni penitenziali e briganti. Appare l’Italia di quel tempo, frantumata in staterelli, e in “regnicoli” di avidi e potenti signori, difesi da soldataglie use al saccheggio e agli stupri, sempre in guerra tra loro. Napoli è rappresentata come la città della cultura, dove i libri sono tenuti in gran conto giacché “c’erano cervelli e anime nascoste sotto le carte, dentro gli inchiostri e le scritture”, ma anch’essa è perennemente in lotta tra il partito dei D’Angiò e quello dei D’Aragona, con i principi delle varie città ora alleati coi francesi ora con gli spagnoli, nonostante che taluni, come l’inquieto e solitario don Giovanni Gioviano Pontano, “uno che aveva inchiostro al posto del sangue”, cercassero di portare pace tra i contendenti. Sono squarci di storia minuta (anche delle Accademie letterarie che fiorivano, rivaleggiando, in quel tempo, sotto tutele altisonanti come quelle di Platone, Aristotele, Virgilio, Cicerone, Lucrezio, e dove non era difficile incontrarsi con Antonello da Messina, Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla, Poggio Bracciolini, Coluccio Salutati) doviziosamente resa con la stessa fascinazione della leggenda. È attraverso le parole di questo erudito napoletano, malinconico e rassegnato, come più tardi di quelle di un altro erudito, don Elisio Bisanzio Pappacena, che la storia allunga la sua ombra fino ad amalgamarsi ai giorni nostri: “Ci aggiriamo nel mondo come forestieri, cercando il silenzio e l’armonia, ma siamo barbari, affamati di onori e di rapine, qualcuno così ci coniò e così ce ne restiamo”, e dai quali il talentuoso Stanislao imparerà molte cose, fino a scoprire e a costruire con le sue mani, dopo essersi recato in Germania, “la macchina della dottrina”, ossia i torchi per la stampa, coi quali si metterà a riprodurre i libri antichi, e diverrà “protostampatore del Regno”. Napoli, anche lei, è uscita da una leggenda, – ci fa sapere Vlaika – come Roma: “Dicono che a fondare Napoli furono un santo e una diavola, che decisero di governarla uno di giorno e l’altra di notte.” Ad osservarla e a comprenderla, non dobbiamo scordarlo, è sempre lei, onnipresente, l’io narrante, Vlaika senza gambe e senza braccia, rinserrata nella sua cesta, esposta alla furia e alla inverecondia degli uomini, nella cui infermità si condensano eccessi, umori e tristezze della nostra specie tormentata, sagace e credula ad un tempo. L’incontro col nonno don Benedetto Maria Albino, la restituisce alla terra che fu di sua madre Polesella, e vi mette tali salde radici che faranno perfino dimenticare la sua infermità. Vi è una così gran differenza dall’esperienza precedente che arriverà a dire: “Mi pareva di essere passata da un paese di volpi cani cavalli serpenti alberi piogge, ad un paese di nomi e parole, dove re e regina di ogni cosa erano il fiato e la mente […] In questo paese potevo, sembrare viva anch’io.” Anche se poi dirà: “Voglio tornare ai boschi, i fantasmi delle letture non hanno corpo.” Grazie a Nigro, il Sud da Napoli alla profonda Puglia e alla Basilicata diviene un ricamo di vicende intarsiate, riepilogate nella memoria di una sventurata, la cui infermità si erge a metafora. Vlaika perfino s’innamora, ricambiata, e coi prodigi che seguiranno, in mezzo a scorrerie dei turchi, dei briganti, dei soldati di ventura e a guerricciole tra principati e baronie locali, sarà proprio lei a sciogliersi e a prendersi dal principe Sergianni Caracciolo, prima, e infine dagli spagnoli, il nome di “Baronessa dell’Olivento”. I suoi occhi di testimone vedranno i Brentano moltiplicarsi in potenza, ingegno, bellezza, odio, sogni e umiliazioni, fino a che – in questo superbo e vivido affresco storico tanto denso di avvenimenti – un miracolo nato dall’amore si compirà anche su di lei.

“Ombre sull’Ofanto”

Camunia (Giunti), pagg. 220. Euro 4,13

Il padre del protagonista ha un’impresa di pompe funebri a Venosa, la città del poeta Quinto Orazio Flacco, e un giorno riceve la minaccia di pagare il pizzo “se vuoi mantenere l’attività”. Naturalmente è preso dalla paura, e ancor più quando è chiamato a seppellire Attilio Serpieri, un gigante, fatto fuori dalla malavita. Il protagonista, Arminio Mitarotondo, aiuta il padre nel suo lavoro, ma Attilio era un suo compagno di studi e quella morte improvvisa lo turba e richiama alla sua mente lontani ricordi.

Comincia così il romanzo: con la paura e la morte che si annunciano sin dal principio, entrambe violente, nette. Il corpo di quell’uomo morto nessuno lo vuole, nemmeno la famiglia. Compare una ragazza, Veronica, di cui forse Attilio è stato l’amante, è bella e misteriosa. Il racconto procede a piccole tessere disvelatrici, che si avvalgono di un modo di ricordare che s’insinua nel presente come se quegli avvenimenti lontani non si fossero ancora compiuti. La valle dell’Ofanto, la Lucania – ossia la terra dell’autore – quegli usi e costumi riservati e antichi, filtrano e profumano nella pagina lentamente. Raffaele Nigro è scrittore meticoloso e prudente. È così sacro il quadro della sua terra che la modernità (giacché anche la storia di malavita raccontata è storia antica) viene bisbigliata appena con i nomi di parecchie celebrità del cinema (che Nigro deve amare molto) o del calcio via via sempre più vicine a noi, da Humprey Bogart, Totò, John Wayne, Sergio Leone, Gian Maria Volontè, a Christopher Lee, Michel Piccoli, Carol Alt, Dustin Hoffman, Clint Eastwood, Charles Bronson, Omar Sharif, Michey Rourke, Julia Roberts, Faye Dunaway, Meryl Streep, Maria Schneider, Al Pacino, Kurt Russel, Silvester Stallone, Schillaci, Maradona, Platt.

La Lucania è la terra dove è nato Quinto Orazio Flacco, e Venosa, la sua città, conserva i resti della sua povera casa: impossibile profanare quell’atmosfera tuttora impregnata del respiro del poeta che fu “amico di Mecenate e di Augusto.” Un filo lungo della storia, quindi, passato indenne nei secoli e che trasforma l’oggi in una porta spalancata sul passato immobile e rarefatto, dalla quale non è difficile scorgere il giovane Orazio che passeggia ancora per le strade della sua città: “un poeta sepolto dai secoli ma vivo, un fantasma di aria e di luce.” È, questo, già un bel risultato conseguito dal romanzo di Nigro, che riesce ad esorcizzare, a mettere dietro la porta spalancata, il brutto che sta inquinando la sua Lucania, per mostrarci, attraverso la luce del passato, la strada di un’altra possibilità per la sua terra: “Mi pareva che la valle, all’improvviso rimasta orfana, fosse infestata da vipere che avevano potere, ahimè, sui corpi e sulle anime.” E più avanti: “l’orgoglio di una terra di miti, toccata dagli eroi di Omero e difesa dai mostri dell’Olimpo, era tramontato.” Un viaggio a Napoli del protagonista ci consentirà, infine, di mettere in rilievo un degrado generalizzato, confrontando la città campana con l’altra Napoli, aristocratica e popolana, vivace e ingegnosa descritta da Malaparte ne “La pelle” e in “Kaputt”.

Ma la Lucania, in realtà, ha una sua bellezza profonda che rimane inattaccabile e che si respira e ci coinvolge, se la si sa vedere. Così nel corso della narrazione, che si sviluppa su di una trama intrisa di sorda violenza, noi ci possiamo far sorprendere da pagine in cui questa bellezza riaffiora dalla notte dei tempi, depostaci dalle parole sul palmo della nostra mano come pulviscolo luminescente, e reclama la forza della sua primogenitura con la voce, il bisbiglio, il mormorio del suo fiume, l’Ofanto e, con esso, del suo sommo cantore. Un autore di atmosfere, Nigro, più che di storie e di personaggi, i quali, se si eccettua Vicciere (“che giustificava le proprie malefatte nel nome della disuguaglianza sociale”), restano tutti nell’ombra, per dare spazio all’aria e all’ambiente che li nutrono e infine li divorano.

La conclusione ci riserverà una sorpresa, che farà sentire il protagonista molto vicino ai destini di Orazio.

“Gli asini volanti”

Nino Aragno editore, pagg. 124. Euro 10,50

Mi sono accinto a leggere questo libro mosso dalla curiosità di vedere come l’autore lucano, che ha scritto robusti romanzi di impianto storico molto significativi, se la cavasse con un’impresa che non è mai facile e riesce a pochissimi, quella, ossia, di cimentarsi nella scrittura di una favola, o meglio, in questo specifico caso, di un apologo, direi.

Intanto una sorpresa. Scritta da un lucano che vive in Puglia, si svolge a Venezia e nei suoi dintorni, e gli asini non solo parlano, ché nelle favole è quasi una ovvietà, ma amano “pascersi di erba e di poesia.” I personaggi principali sono l’allevatore Putifarre Gigante, che possiede e guida una vecchia Seicento ed ha con sé un cane da guardia che si chiama Acchiappavento e una capra, Marianna; il mite padre Pietropaolo di San Daniele, che è un asino, e vive insieme con la sua mandria nello stazzo detto di San Daniele; e asini sono pure il collerico Majid al Mamaluc, che è insediato nello stazzo detto della Slavonia, e il pigro Matusalemme e la sua sposina Fatma, sistemati nello stazzo di Putifarre, i quali praticano religioni diverse (ebraica, cattolica e musulmana) e appartengono a tre differenti mandrie di ciuchi che sono sempre in lite tra loro. L’amicizia tra gli umani e gli animali è consacrata da un patto di fratellanza stipulato dagli antenati nientemeno che con Noè.

Un giorno un certo signorotto, il Commendatore Alberigo Maria Visconti, del marchesato di San Donà, decide di costruire sui loro pascoli l’ipermercato City Moon. Rabbia e sgomento. Putifarre ha ancora un suo praticello, il Bosco dei Pioppi, dove potersi rifugiare e ospitare alcuni dei suoi amici, ma, confinando esso malauguratamente con la proprietà del Commendatore, è sottoposto a mille tentazioni affinché si decida a venderglielo. La Fata di Venezia, Marlene, anche lei sfrattata dal prepotente riccone, cerca di convincere gli asini a finirla di litigare tra loro e di unire le forze per sconfiggere le pretese del Commendatore.

Naturalmente, al di là del Bosco dei Pioppi c’è la città, dove si producono “i più strani oggetti, le più strane cianfrusaglie” che poi vengono distrutti o dimenticati da qualche parte. Addirittura talvolta finiscono in mare, e il mare Adriatico brontola che è stufo e non ne può più.

Tra questi rifiuti, dentro una busta di plastica, Putifarre, un giorno, scopre un neonato “rotondo e capelluto come un pecoruccio”, anche lui “uno dei tanti rifiuti della città.” Segno del degrado è la luna che non compare più nel cielo: “C’era al suo posto una cappa spessa di fumo”, ma si sussurra che anche lei ha fatto la sua scelta e si trasferirà presto nell’immenso ipermercato City Moon.

Come succede nel celebre “Marcellino pane e vino” di Jose Marí­a Sánchez Silva, al bambino si deve dare un nome. Ci penserà il mare Adriatico, lodando il suo coraggio, giacché non si era spaventato dinanzi alla sua vastità, anzi il bimbo si era preso gioco di lui: “lo chiameremo Pernacchio”, decide, e così, dopo che Putifarre ha espletato tutte le formalità all’anagrafe, Pernacchio diviene il suo figlio adottivo: Pernacchio Gigante.

Ma l’ipermercato è davvero una pericolosa tentazione. Si sta estendendo e fra poco fagociterà l’intera Venezia. Lo stesso Putifarre ne è attratto, come è attratto dalle luci della città, ma cerca di nascondere agli altri questa sua debolezza.

Come si addice ai libri di questo genere, la scrittura di Nigro è leggera, nitida e godibile, capace di disegnare figure divertenti, come il cane di campagna Pasqualicchio, che, dopo aver fatto un corso di inglese, ora si fa chiamare Hot Dog ed è passato al servizio dell’ipermercato: “calzava un bellissimo berretto da metronotte, portava il manganello infilato alla cinta, le manette penzoloni, gli occhiali da sole”, che ricorda un po’ lo Sceriffo di Nottingham che compare nel film “Robin Hood” del grande Walt Disney. Un altro richiamo ad un cartoon di Disney: “ALICE nel paese delle meraviglie”, tornerà più avanti quando, masticando una gomma magica, Pernacchio comincerà a scomparire un poco alla volta, e per ultima scomparirà la sua testa, proprio come il gatto nato dalla penna di Lewis Carroll. La stessa luna, ora Lady Moon, viene dipinta come una vamp che gira per l’ipermercato atteggiandosi con pose e movenze alla Rita Hayworth e di lei si mormora che quasi certamente sposerà il ricco Commendatore. Dunque, la città che ha respinto il piccolo Pernacchio ed imbratta la campagna con una montagna di rifiuti, tuttavia ha un potere di attrazione che non risparmia nessuno.

Le vicende continuano a dipanarsi piacevolmente in questo strano mondo, dove ad aprire la porta del veterinario, dal quale Putifarre conduce l’asina Fatma, che vuole avere un figlio, è un “gatto siamese, un gatto magro da fare spavento nonostante il pelo fluente.”

Il braccio di ferro tra il Commendatore, che spinge perché il cosiddetto progresso avanzi anche in quel lembo di terra, e gli animali, che ne pagano le conseguenze e protestano che in questo modo viene violato il trattato stipulato con Noè, continua per tutta la durata della storia, e non v’è dubbio che l’allettante fasto che sprigiona dalla città e dall’ipermercato non manca di provocare qualche contaminazione nel mondo degli animali, ma ancora di più darà alla testa agli umani, che ne faranno di veramente orribili, finché tutto si risolverà, dopo gli avvenimenti drammatici che colpiranno i quadrupedi, nella maniera meno attesa e più simpatica.

Pensate, c’è perfino un tamburo magico, fatto con pelle di asino, che ispira versi a chi lo adopera e che risale proprio ai tempi del patto con Noè. Ne traggono profitto Pernacchio e Pentolina, un’asina nata dalla coppia Fatma e Matusalemme, che insieme vanno ad Asti per partecipare ad una gara di poesia cui prendono parte asini provenienti “da varie regioni dell’Europa”, e che si svolge proprio il giorno di Sant’Antonio Abate, il noto Santo protettore degli animali. È stato il calabrone capo Calabrò a parlarne alla mamma di Pentolina.

Là, ad Asti – pensarono Pernacchio e Pentolina quando ci si trovarono – era così bello constatare che “esistessero luoghi dove ancora si prestasse tanta attenzione all’amicizia tra uomini e asini.” Altrove invece, e pure a Venezia, si era arrivati a mettere gli animali a quattro zampe da una parte (ad eccezione dei “gatti e i cani con il pedigree”) e gli uomini dall’altra! Una nuova legge razziale, indotta dalla modernità (“È la modernità” dicono i vigili di Milano), imponeva di ammassare e rinchiudere gli animali dentro vagoni e camion con destinazione Bologna. Putifarre, in questo frangente, non si mostra all’altezza del suo compito e delude gli animali, ma per fortuna c’è il prodigioso Pernacchio che non intende rinunciare a battersi per proclamare la sua alleanza con gli sventurati quadrupedi. L’aiuterà – la ricordate? – la Fata Marlene, “una donna dall’età indefinibile.”, con un miracolo, una magia, che è poi la lezione che Nigro impartisce a tutti noi.


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Bart