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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Ortese, Anna Maria

7 Novembre 2007

Il mare non bagna Napoli

“Il mare non bagna Napoli”

Adelphi, pagg. 180. Euro 15

Non è un caso che questo libro di sei racconti, dallo stile giornalistico e quasi sempre distaccato, si apra con la piccola Eugenia che, pressoché cieca, vede tutto appannato, indistinto, inciampa negli scalini, finché la generosa zia Nunziata non si decide – poveri come sono tutti quanti – a metter fuori le ottomila lire per l’acquisto di un paio di occhiali. Sono gli occhiali che inforca la nostra autrice per guardare Napoli: “Figlia mia, il mondo è meglio non vederlo che vederlo”; “tutto era coperto per lei da un velo sottile”; “il mondo, fuori, era bello, bello assai.” Credo di poter dire che la speciale miseria di Napoli che è rappresentata in questo libro, abbia la sua chiave di lettura nel primo racconto dal titolo “Un paio di occhiali”: è la miseria morale e materiale che si respira in quegli anni usciti dalla guerra, e più che la miseria di una città, sia pure emblematica come Napoli che la patì orrendamente, è la miseria di tutti quei gesti, quelle ambivalenze di parole e di azioni che generano solo incomprensione e oscurità, mentre, se si riuscisse a veder bene, ci si accorgerebbe che al di là di noi stessi la natura è pronta, al contrario, a condividere e a sorriderci: “si presentiva, là dietro, l’enorme festa della primavera.” Occhi speciali occorrono, dunque, perché non ci accada come a Anastasia Finizio, nel secondo racconto, che: “guardava giù, non riconoscendo quasi i luoghi e le persone.” C’è bisogno di lei in famiglia, del suo lavoro, per tirare avanti, e allora pure la madre s’adopera per ottenebrarle la mente, ostacolarle ogni illusione. Anche l’autrice, a Forcella, nel marasma di contraddizioni di quella strada dove i piccoli uscivano dai buchi dei marciapiedi come fossero topi e “il mare non bagnava Napoli”, in realtà non vedeva “nulla, se non un groviglio confuso di cose varie”. Si deve metter mano ad un lavoro di ripulitura accurata delle proprie lenti osservatrici e visionarie – e chissà se a qualcuno riuscirà mai – per estrarre dal groviglio di voci e di immagini che si accavallano e si corrompono, come avviene al Monte dei pegni, l’anima di un popolo che si commuove alle finzioni di una “zagrellara”, (una merciaia), abile a piangere la sua miseria e ad ingannare, e riesce a vivere in un “pozzo” oscuro e infernale (“chi cominciava a scendere era perduto, ma non se ne accorgeva che alla fine”), fatto più per lombrichi che per uomini, come avviene nel terraneo dei Granili, un’ex caserma borbonica, dove stavano stipati in un solo vano più famiglie e all’odore di umidità e di orina si mescolava il profumo del caffè. All’autrice resta incomprensibile – intollerabile – l’accettazione passiva di quella condizione più che bestiale, nella quale perfino il parlare tra quegli sventurati veniva meno, ma non si deve riconoscere, infine, che la miseria e l’oppressione morale e materiale si nascondono perfino dentro di noi? Napoli siamo noi, perciò, e la stessa autrice, consapevole o meno, inorridita o pietosa, ha davanti a sé, riflessa nelle sue lenti speciali, l’immagine di ogni uomo scoperto nella profondità del proprio abisso: un uomo che incontriamo a Napoli, ma anche nel vasto Sud disperso ad ogni latitudine, nonché vicino a noi, nelle lussuose dimore dei civilizzati, fino a dimorare con solide radici nei recessi dimenticati della nostra coscienza, dove sta rintanato il magma contraddittorio, fatto di luci e di ombre, di iridescenze e di opacità, del “principio come la fine delle cose”, del nostro essere. Di Antonia Lo Savio, lì incontrata, la Ortese, dopo averci detto che aveva “neri capelli sulla gobba e un viso color limone, dominato da un grande naso a punta che cadeva sul labbro leporino”, annota: “Non era che un enorme pidocchio, ma quale grazia e bontà animavano gli occhi suoi piccolissimi.” Il bambino che viene a chiedere il pane alla vecchia è quasi del tutto cieco, e non è un caso che ritorni, in questo quarto racconto così spietato e il migliore della raccolta, dal titolo: “La città involontaria”, il tema della cecità, la cui colpa non è mai di uno solo. La vecchia Lo Savio ha “in fondo agli occhietti di topo” “un lampo vivissimo” “in cui era possibile ravvisare, insieme alla coscienza del male e della sua estensione, certo tutto umano piacere di tenergli fronte. Dietro quella deplorevole fronte esistevano delle speranze.” Leggendo questo libro non c’è stato un solo momento in cui io sia riuscito a pensare a una singola città, alla Napoli che presta il suo nome al titolo, non una volta ho trovato in quella miseria rassegnata ma non vinta, l’effigie della napoletanità, bensì il ritratto di una malattia prodotta, non solo lì a Napoli ma nel mondo, dalla nostra cattiveria. La piccola Nunzia Faiella che sta “in una culla ricavata da una scatola di Coca Cola” e non riesce a crescere pur avendo due anni, non è un’infelice che appartiene alla sola Napoli, come non appartiene alla sola Napoli “il senso di un’attesa, di una pena scontata in silenzio”. A distanza di tempo dalla sua prima apparizione (1953), questo a me sembra essere il significato definitivo del libro della Ortese, nel quale ho intravisto anche quest’altra verità: che la bellezza rigogliosa della natura che ci circonda (e Napoli ne è colma, come altri luoghi di miseria nel mondo, del resto) e invade l’uomo: “dominato e succhiato continuamente da questa madre gelosa, incapace ormai di coordinare i propri pensieri”, ottunde perfino la sofferenza e l’umiliazione più atroci in un impazzimento della ragione (“l’andirivieni impazzito della speranza”) che si trasforma in quieta sottomissione e voglia di vivere: “in un inesausto desiderio di aria pura”, che travalica le inquietudini individuali (come quelle di Luigi Compagnone) e le singole morti spirituali (come quella di Pasquale Prunas: “formica rossa sul versante della Montagna”) per divenire fiato, respiro, sussulto, speranza, vigore, resurrezione collettivi, in cui universalmente risiede la vita. Ed è ciò che accade all’autrice quando, uscita dalla casa di Compagnone, di cui fa un dolente ritratto – assieme a quelli di Rea e di Pratolini che in quel tempo viveva a Napoli, di Prisco e La Capria -, si mette a correre e trova tutto mutato intorno a lei: “Dove prima non scorgevo che regolarità e una pietrificata desolazione, adesso tutto era disordine, e un cupo incanto” e subito dopo: “Era l’ora che Napoli si accende e gonfia come una medusa; e le sue ferite risplendono, i suoi cenci si coprono di fiori, e la popolazione barcolla.” Se può affiorare, a volte, qualcosa di aspro ed impietoso nello sguardo della Ortese, quella sua “intollerabilità del reale”, esso è una piccola allucinata pagliuzza (“Commuoversi, era come addormentarsi sulla neve”) che non tradisce la più ampia metafora che Napoli – “contemplazione” e “penitenza”, “meraviglia senza coscienza” – rappresenta, e la stessa autrice ne dà atto nell’ultimo brevissimo racconto intitolato “Le giacchette grigie di Monte di Dio”, e più ancora quando, nel quinto racconto dal titolo “Il silenzio della ragione”, scopertamente riferisce, come se fosse una sua confessione, le parole che le rivolge Rea, virulento, intuitivo e passionale figlio del popolo: “Di’ la verità, a te il popolo non ti piace!”


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart