Nomenklatura Pd, dalla padella alla…4 Dicembre 2012 di Arturo Diaconale I veri sconfitti delle primarie del Pd sono i componenti della nomenklatura. Quelli che hanno combattuto con feroce determinazione Matteo Renzi colpevole di volerli rottamare e nel difendersi dal “ragazzino” hanno assicurato una forte investitura popolare a Pierluigi Bersani che mette ora il segretario nella condizione di rottamarli come avrebbe voluto fare il sindaco di Firenze. Non è un caso che nella sua prima dichiarazione dopo la vittoria il segretario del Pd abbia posto al primo posto della sua agenda il rinnovamento generazione del partito. Perché l’unica strada per disinnescare la bomba ad orologeria rappresentata dal quaranta per cento (più o meno) di militanti che ha votato Renzi in nome del cambiamento è rappresentata dal realizzare il punto più qualificante e più trainante del programma del proprio sfidante. In tempi passati nei grandi partiti di massa un risultato come quello delle primarie del Pd sarebbe inevitabilmente sfociato in un accordo spartitorio tra i due contendenti. Ed in fondo ciò che temono i vari Bindi, Franceschini, Finocchiaro, Letta, Fioroni è proprio una intesa post-primarie tra Bersani e Renzi che sancisca la spartizione del Pd tra il sessanta per cento dei “giovani turchi” bersaniani ed il quaranta per cento degli “alieni” renziani. Il tutto, ovviamente, sulla loro pelle di dirigenti costretti, loro malgrado, a scavarsi la fossa con le proprie mani sostenendo il segretario nella battaglia contro lo sfidante. Ma nell’immediato Renzi non può permettersi un accordo spartitorio con il segretario. Perderebbe di colpo tutto il credito che ha conquistato così rapidamente sull’elettorato più giovane, dinamico ed innovatore del Pd. Bersani, viceversa, forte di una investitura popolare personale che nessun leader del Pd ha mai avuto (le primarie plebiscitarie per Veltroni non contano per assenza di reale competizione), può incominciare a smantellare pezzo per pezzo le posizioni di potere di chi lo ha sostenuto nella convinzione non solo di tutelare se stesso ma di continuare a tenere sotto controllo un segretario primus inter pares. L’investitura popolare delle primarie, infatti, ha liberato Bersani dall’ipoteca che la nomenklatura aveva nei suoi confronti. Ed ora, soprattutto se il Parlamento non riuscirà a varare una nuova legge elettorale e le prossime elezioni si terranno con il Porcellum, il segretario potrà scegliere uno per uno i futuri parlamentari e cambiare radicalmente la fisionomia della rappresentanza politica del Pd. Per uno che punta apertamente a Palazzo Chigi, non a caso ribattezzato dai suoi sostenitori, Palazzo Pigi, un passaggio del genere appare addirittura obbligato. Se vuole governare senza il rischio di quelle fratture che in passato hanno segnato negativamente l’esperienza dei governi di sinistra, Bersani non può permettersi di avere alle spalle gruppi parlamentari del Pd rosi dal correntismo e dalle lotte di potere. Deve necessariamente contare su gente non solo capace ma anche fidata. Che non lo tratti come a suo tempo vennero trattati Romano Prodi, Massimo D’Alema o Giuliano Amato. Chi capisce di politica sa bene che questa necessità di Bersani non può rimanere priva di conseguenze. Perché chi fa parte della nomenklatura e teme di finire nel mirino del segretario non potrà restare con le mani in mano in attesa della mannaia destinata ad escluderlo dalle liste elettorali. Da oggi all’inizio ufficiale della campagna elettorale, allora, c’è da aspettarsi di tutto dentro il Pd. A partire dalla possibile uscita in direzione del centro di Casini e di Montezemolo da parte di quegli ex popolari che, per evitare la padella rottamatrice di Renzi, si ritrovano oggi nella brace di un Bersani schiacciato su Vendola e obbligato a guardarsi alle spalle. Primarie, perché Bersani deve andare a lezione da Trapattoni “Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”: a leggere le dichiarazioni euforiche di molti esponenti del centrosinistra viene in mente Giovanni Trapattoni. La vittoria nettissima del segretario del Pd alle primarie ha finito per provocare una sorta di ottimistico corto-circuito che fa scambiare il risultato di domenica con quello delle future e incerte elezioni politiche. Letta (Enrico, non Gianni) afferma che lo sconfitto Matteo Renzi: “Deve entrare nella squadra di governo”. L’ex Idv Nello Formisano spiega che “la questione meridionale sarà al centro del governo che verrà”. Rosy Bindi, felice per non essere stata rottamata, discetta al pari di Letta de “la squadra di governo”. E persino il solitamente misurato Pierluigi Bersani assicura che la “prossima avventura è il governo del cambiamento”. Maggiore prudenza sarebbe però consigliabile. Non per rispettare antiche e tutt’altro che dimostrate tradizioni scaramantiche. Ma perché Bersani deve ancora fare molta strada prima di arrivare a sedere a Palazzo Chigi. E non è una strada in discesa. A oggi, è bene ricordarlo, la legge elettorale non fornisce garanzie sul risultato al Senato: chi vince nelle urne può benissimo risultare sconfitto nel conto dei senatori. Se la norma non verrà cambiata, ipotesi ormai più che verosimile, il Pd e i suoi alleati più piccoli (Sel, I socialisti e vari altri movimenti) rischiano di trovarsi a controllare la Camera, dove per ora resiste il premio di maggioranza, senza però aver in mano Palazzo Madama. Bersani spera di mettersi al riparo alleandosi con il centro di Pierferdinando Casini. Che ci riesca tenendo insieme pure Sel di Nichi Vendola è però tutto da dimostrare. Inoltre, in caso di trattative con il montiano Casini, Bersani per rivendicare la premiership dovrà per forza uscire dalla politiche con in dote un buon risultato di coalizione: almeno il 39-40%. Lo otterrà? Nessuno ha la sfera di cristallo. Di certo c’è che però le elezioni sono ancora lontane (non si capisce nemmeno esattamente quanto) e che i sondaggi di queste settimane (Pd superiore al 30%) sono influenzati da un effetto primarie destinato col tempo a scemare. In pochi, è vero, possono credere possibile una rimonta del centrodestra. Ma proprio l’esito delle primarie ha fornito finalmente una carta da giocare a Berlusconi & C: il vecchio anticomunismo. Non è molto, ma è abbastanza perché il centro-destra, se solo riuscirà ad individuare un candidato premier, convinca qualche suo ex elettore a turarsi il naso per andare ai seggi con il dichiarato scopo di fronteggiare “il pericolo rosso” (gli ex Pci Vendola e Bersani). Questa strategia di chiamata alle armi è stata già compiutamente illustrata da Il Giornale della coppia Sallusti–Santaché. E anche se non è vincente, può servire a evitare la debacle e a rendere ancora più difficile la partita del Senato. Poi c’è il Movimento 5 Stelle. Pure lì, dal punto di vista di Bersani, ci sono altri voti in fuga. E tanti. Le spinose questioni legate all’Ilva, a un D’Alema che non si candida ma che vuole piazzare i suoi, alTav, alla mancata abolizione del finanziamento pubblico, finiranno per favorire il M5S. Lo dicono le indagini demoscopiche secondo cui tra i potenziali elettori del Movimento ce ne sono molti ai quali gli attacchi alla Casta di Renzi non dispiacevano. Elettori disgustati da questa politica che senza il sindaco di Firenze non avranno più dubbi: ritorneranno alla base. Bersani insomma deve incrociare le dita e pedalare. Altrimenti finirà per fare una cosa veramente di sinistra. La stessa che ha fatto Matteo Renzi: perdere. Trattativa Stato-mafia, udienza cruciale per lo scontro pm-Napolitano Non si sa ancora se la decisione dei giudici verrà resa nota già domani. Quello che è certo è che quella che si svolgerà sarà un’udienza fondamentale per la risoluzione del conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato sorto tra il Quirinale e la Procura di Palermo. Dopo che il 23 novembre scorso sono stati depositati alla Corte costituzionale gli atti di una memoria illustrativa della procura, la Consulta terrà l’udienza pubblica per esaminare da una parte il ricorso promosso dal capo dello Stato Giorgio Napolitano dopo che sono state intercettate alcune sue conversazioni telefoniche con l’ex ministro Nicola Mancino, le cui utenze erano state messe sotto controllo dai pm che indagano sulla presunta trattativa Stato-mafia; e dall’altra per valutare le controdeduzioni dei magistrati palermitani. Ecco a confronto le posizioni delle parti come emergono dagli atti depositati: il ricorso del Colle stesso dall’Avvocatura dello Stato, la memoria di costituzione predisposto dai legali che rappresentano la Procura di Palermo e le relative memorie illustrative presentate dal Quirinale e dai pm: LA PROCURA: IL PM NON PUO’ DISTRUGGERE INTERCETTAZIONI – Il ricorso del Colle è inammissibile perché si rivolge “non nei confronti dell’autorità giudicante” alla quale “spetta in via esclusiva il potere di disporre la distruzione di intercettazioni”, ma alla Procura, cioè ai pm, “che di quel potere non dispone”. Solo il Gip, previa udienza, può disporre la distruzione dei nastri. IL COLLE: IL PM DOVEVA CHIEDERE A GIP DISTRUZIONE INTERCETTAZIONI – Non “è stato mai richiesto al pm di disporre l’immediata distruzione” delle intercettazioni: la richiesta del ricorso va interpretata “alla luce dei poteri che la Costituzione riconosce al pm” e va letta assieme al decreto con cui il 16 luglio ha proposto il conflitto. Decreto che “fa corpo con il ricorso” e “lamenta il fatto che il pm non abbia immediatamente richiesto al giudice la distruzione delle intercettazioni”. IL COLLE: INTERCETTAZIONI ILLEGITTIME – Le intercettazioni del Capo dello Stato “pur se indirette e fortuite, sono illegittime, perché effettuate in violazione” dell’art. 90 della Costituzione sull’irresponsabilità del Capo dello Stato. Ne discende una “inutilizzabilità assoluta”. Anche le legge 219/1989 dice che il Presidente è intercettabile solo se “la Corte Costituzionale ne abbia già disposto la sospensione dalla carica”. I nastri vanno distrutti applicando l’art. 271 del codice di procedura penale sulle intercettazioni vietate: se vale per le intercettazioni di avvocati, confessori, medici, vale a maggior ragione per il Capo dello Stato: in questo caso il giudice dispone la distruzione. LA PROCURA: NON SI PUO’ VIETARE UN FATTO CASUALE – Le intercettazioni sono state casuali perché indirette, visto che intercettato era Mancino, e “il fatto fortuito non può costituire oggetto di divieto”. Inoltre il “conflitto non si rivolge verso un atto, ma contro un “intento di attivare una procedura camerale” per la distruzione delle intercettazioni ed è quindi “un conflitto intorno alla ipotetica scelta di una soluzione processuale”. LA PROCURA: NESSUNA MENOMAZIONE, IL PRESIDENTE NON E’ IL RE – “I fatti lamentati nel ricorso non costituiscono menomazione delle attribuzioni del Presidente della Repubblica”. Una immunità assoluta si potrebbe ipotizzare per il Presidente solo se “gli si riconoscesse una totale irresponsabilità giuridica”, ma “una simile irresponsabilità finirebbe per coincidere con la qualifica di ‘inviolabilè che caratterizza il Sovrano nelle monarchie”. Anche nell’ordinamento spagnolo “una legittima intercettazione” in cui “accidentalmente figuri il Re come mero interlocutore non equivale a investigare la figura del Re e la registrazione ben potrebbe essere valutata dal giudice istruttore”. IL COLLE: IL RE NON C’ENTRA, LA MANCATA SEGRETEZZA LEDE INTERESSE NAZIONE –“Dalla mancata segretezza” delle comunicazioni del Presidente “deriva una menomazione non solo delle attribuzioni del Presidente della Repubblica, ma ancor più dei supremi interessi nazionali affidati alla sua cura”. E “l’immunità riconosciuta al Presidente dalla Costituzione non è legata ad antichi privilegi ormai obsoleti, ma è diretta ad assicurargli la libertà di azione, di comunicazione e la riservatezza connesse allo svolgimento delle sue funzioni”. “Appare quindi curioso e ad effetto – e comunque palesemente infondato se non inconferente – il richiamo all’inviolabilità del Re nell’ordinamento spagnolo”. Consulta, verso un verdetto sprint È il giorno del giudizio. Per quanto possa suonare solenne, la decisione di oggi sul conflitto tra poteri promosso dal Quirinale contro la Procura di Palermo – per le telefonate fra Giorgio Na politano e Nicola Mancino inter cettate sulle utenze dell’ex mini stro indagato nel procedimento sulla trattativa Stato-mafia – ha un peso che va ben al di là della questione strettamente giuridica e che perciò ha imposto alla Cor te costituzionale una speciale ponderazione. A Palazzo della Consulta c’è un riserbo senza pre cedenti, anche se le voci della vi gilia raccontano di una Corte im pegnata faticosamente a concilia re posizioni diverse e ad aggrega re il maggior numero di consensi su questa o quella soluzione. Ancora poche ore e si saprà. Il verdetto dovrebbe infatti arriva re già stasera, al massimo doma ni, Non solo perché la questione è statasviscerata nelle scorse set timane, ma anche perché la Cor te è consapevole dei rischi di tem pi iunghi e delle strumentalizza zioni di iughe di notizie, inevitabi li se tra la discussione e lacomuni- cazi one del verdetta trascorre an che solo una notte. La decisione verrà resa pubblica con un comu nicato stampa, più o meno artico lato a seconda della soluzione. Ma sono in molti a far notare che, più del dispositivo, conterà lamo- tivazione (in ballo c’è una certa idea di Stato), cioè quel che la Corte scriverà per mano di Gaeta no Silvestri e Giuseppe Frigo, re latori del conflitto ed estensori della sentenza. Che verrà deposi tata a gennaio. Saranno Silvestri e Frigo, sta mattina, a illustrare il conflitto in udienza. Poiparleranno gli avvo cati: perii Quirinale, il vice Avvo cato generale delio Stato Anto nio Palatiello e i colleghi Miche le Giuseppe Dipace e Gabriella Palmieri; per la Procura di Paler mo, il professor Alessandro Pace e i colleghi Giovanni Serges e Ma rio Serio. Il caso è esploso nel corso dell’indagine palermitana sulla stagione degli omicidi eccellenti e delle stragi di mafia (primi anni 90) e sulle presunte coperture istituzionali ai contatti fra uomi ni dello Stato e boss di Cosa no stra. Nicola Mancino, all’epoca ministro dell’Interno, è stato in tercettato sulle 6 utenze telefoni che di cui era titolare, ma su 9.295 conversazioni captate, solo 4 era no con Napolitano: le prime 2 in uscita (effettuate da Mancino), le altre 2 in entrata (effettuate dal Quirinale). Telefonate mai rese pubbliche dalla Procura, che le ha ritenute irrilevanti, ipotizzan done la distruzione, da delegare al giudice nell’apposita udienza stralcio alla presenza delle parti interessate. Il Quirinale chiede alla Corte di dichiarare che «non spetta » al la Procura «registrare » telefona te a cui ha preso parte il Capo del lo Stato, anche se captate casual mente; «omettere » di chiedere al giudice l’immediata distruzione delle intercettazioni, in quanto il legittime; «valutarne la rilevan za »; «attivare » la procedura di legge prevista (udienza filtro in contraddittorio delle parti) per utilizzarle o distruggerle, la Pro cura contesta in radice il ricorso perché chiede al Pm di fare ciò che non è nei suoi poteri (ma del giudice) e perché Pirresponsabili- tà del presidente per gli atti fun zionali non lo esenta dalla giuri sdizione per gli atti extrafunzio nali. Ma anche perché contesta che vi sia un principio di «immu nità assoluta » del presidente, as similabile all’«inviolabilità » tipi ca del Sovrano nei regimi monar chici, in netta contraddizione «con i principi dello Stato demo cratico-costituzionale ». Letto 1406 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||