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Non basta una legge elettorale

24 Marzo 2013

di Luca Ricolfi
(da “La Stampa”, 24 marzo 2013)

La politica è in crisi, sentiamo ripetere. E certo lo è, a giudicare dai risultati degli ultimi vent’anni: il Paese è allo sbando, molti politici sono corrotti, non si riesce a formare un governo. Quello che forse è meno evidente è che anche i rimedi che si stanno sperimentando non sono la soluzione, ma sono parte integrante della malattia.

La politica si sta comportando come una squadra di calcio in crisi che, per superare la crisi, cercasse di vincere le partite a tavolino, o condizionare gli arbitri, o accusare gli avversari di doping, anziché allenarsi di più e meglio, impegnarsi a fondo in partita, o cambiare qualche giocatore (e magari anche l’allenatore). È paradossale, ma la politica non sembra rendersi conto che i problemi che deve affrontare sono innanzitutto di natura politica, non di altro genere. E come tali andrebbero risolti sul campo, non invocando demiurghi e agenti esterni.

E invece è proprio questo che sta succedendo. La politica non sa risolvere i propri problemi politicamente, e allora ricorre continuamente a supplenti e surrogati. C’è un problema di privilegi e di costi della politica?
Ed ecco che scatta la gara a chi si riduce di più lo stipendio: l’etica viene chiamata a sostituire la politica.

C’è un uomo politico che avvelena la competizione fra destra e sinistra ma prende un sacco di voti? Ed ecco che scattano tutte le armi improprie disponibili: leggi nuove di zecca per impedire la ricandidatura, pressioni sulla magistratura perché reinterpreti una legge esistente, che «se ben interpretata » potrebbe mettere fuori gioco il politico che non si riesce a sconfiggere sul campo (una delle due manifestazioni di ieri a Roma aveva precisamente questo scopo, mentre l’altra – in modo specularmente aberrante – aveva lo scopo di difenderlo dalla magistratura). La legge, che dovrebbe semplicemente essere rispettata da tutti, viene chiamata a risolvere un problema politico che non si è stati capaci di risolvere con armi proprie, ossia con la sola forza della politica, pur avendone tutta la possibilità: se il Pd avesse candidato Renzi il politico della discordia sarebbe fuori giuoco, e noi non staremmo ancora qui a sfogliare la margherita delle alleanze (m’ama? non m’ama? Bersani non l’ha ancora capito che Grillo non lo ama?).

Ma il caso più interessante è quello della legge elettorale. Qui non solo nella testa dei politici, ma anche in quella degli elettori, si è installata una curiosa credenza. Dato che nessuno riesce a vincere le elezioni, dato che a un mese dal voto non si sa ancora chi sarà il premier, dato che in Parlamento non esiste alcuna maggioranza in grado di sorreggere un governo, allora si è portati a credere che la colpa sia della legge elettorale. Ma è una grandiosa bestialità. Le leggi elettorali possono essere più o meno buone, più o meno adatte a un Paese, più o meno scandalose, ma da sole non possono risolvere i problemi la cui natura è essenzialmente politica.

Se per quasi mezzo secolo in Italia non c’è stata alternanza fra destra e sinistra non è dipeso dalla legge elettorale proporzionale ma da due fattori genuinamente politici: la divisione del mondo in due blocchi, la mancata evoluzione del Partito comunista. Tanto è vero che i socialdemocratici tedeschi, che le loro scelte riformiste le avevano fatte già nel 1959 a Bad Godesberg (32 anni prima del Pci), non hanno dovuto aspettare la caduta del muro di Berlino per andare al governo, e lo hanno fatto con una legge di impianto prevalentemente proporzionale. L’alternanza al governo fra destra e sinistra, o fra conservatori e progressisti, è un frutto della politica, non della legge elettorale.

Così oggi in Italia è del tutto fuorviante pensare che possa essere una nuova legge elettorale a tirarci fuori dalle secche in cui la politica si è andata a cacciare. Se le elezioni non riescono a esprimere una maggioranza e il Parlamento non riesce ad esprimere un governo è per due precise ragioni, entrambe di natura politica. La prima è che il nostro sistema politico è improvvisamente divenuto tripolare, come nel 1992-1993 (subito prima della discesa in campo di Berlusconi), quando l’Italia per una breve stagione assunse un assetto tripolare, con la Lega egemone al Nord, il Pci al centro e la Dc al Sud. E i sistemi tripolari non sono immuni al «paradosso di Condorcet »: può succedere che una maggioranza preferisca A a B, un’altra B a C, ma che vi sia anche una maggioranza che preferisce C ad A. Mettete, nell’ordine in cui volete, Bersani, Berlusconi e Grillo al posto di A, B, C, e vedrete in che bel pasticcio potremmo esserci cacciati. La seconda ragione è che Bersani e Grillo, ossia i due semi-vincitori delle elezioni, pensano solo a conquistare (o riconquistare) voti, il primo puntando sull’antiberlusconismo (un’idea veramente nuova e originale, come si addice a un «governo del cambiamento »), il secondo scommettendo sulla nascita di un governo Pd-Pdl così abominevole da consegnare il 51% (pardon: il 100%) dei consensi al Movimento Cinque Stelle.

Pensare che da un simile ginepraio possa tirarci fuori una legge elettorale è molto ingenuo. Certo, l’orrido Porcellum va cambiato, e alla svelta (io avrei anche una proposta: chiediamo a Giovanni Sartori, il nostro studioso di sistemi elettorali più illustre, di scrivere lui una legge sensata). Ma nessuna legge elettorale può produrre, di per sé, quel che solo la politica può darci, ossia un governo che abbia il consenso necessario per governare. Se tornassimo al proporzionale, cadrebbe la finzione attuale del vincitore (chi ottiene il premio di maggioranza), ma comunque dovremmo assistere ai medesimi estenuanti negoziati di oggi. Se sopprimessimo il Senato e mantenessimo l’attuale premio di maggioranza alla Camera, assisteremmo alla nascita di governi che hanno il 54% dei seggi in Parlamento e il 25% dei consensi nel Paese (tenuto conto del non voto, è questo il consenso reale di cui godono oggi Bersani-Berlusconi-Grillo). Se adottassimo il doppio turno alla francese, che tanto piace al Pd, dovremmo prepararci ad assistere al paradosso dei sistemi tripolari: il vincitore del primo turno perde al ballottaggio, perché il terzo arrivato si allea con il secondo. Spieghiamolo con due esempi: nelle regioni rosse vanno al ballottaggio Pd e Grillo, ma il Pdl escluso si vendica votando Grillo. Nelle regioni bianche vanno al ballottaggio Pdl e Grillo, ma il Pd escluso si vendica votando Grillo. Insomma, vince sempre Grillo, anche se Pd e Pdl hanno il doppio dei suoi voti.

Per questo, pur convinto che le regole del gioco vadano rinnovate, e vadano rinnovate nel senso di una maggiore efficienza – una sola Camera, meno deputati, più potere al premier, regolamenti parlamentari snelli – vedo con qualche perplessità l’attuale tentativo di Bersani di ottenere la benevolenza del Pdl con una mera intesa sulle regole. Di regole istituzionali meno paralizzanti c’è sicuramente bisogno. Di una nuova legge elettorale pure. Ma le regole servono per governare, e governare significa affrontare tutti gli altri problemi, ossia lavoro, tasse, stato sociale. Di un accordo sulle regole che lasci tutto il resto come prima, con una sinistra e una destra che si odiano, e odiandosi paralizzano qualsiasi governo, non si sente proprio il bisogno.


Franceschini: “Nessuna trattativa sul Quirinale, Pier Luigi vada avanti”
di Carlo Bertini
(da “La Stampa”, 24 marzo 2013)

Franceschini, la prima domanda è scontata: quanto le è pesato sul piano personale non essere eletto presidente della Camera?

«Sarebbe ipocrita dire che non fa piacere sentirsi proporre di fare il presidente della Camera, ma mi hanno insegnato da piccolo che la politica viene prima di ogni aspirazione personale. Forse anche per questo sono veramente avvilito nel vedere che ci sono personalità come Grillo e Berlusconi, che vanno avanti a colpi di slogan e rigidità nel momento più difficile della nostra storia repubblicana: crisi economica e sociale grave, perdita di credibilità della classe dirigente, una legge elettorale che se si tornasse alle urne porterebbe allo stesso risultato e un presidente della Repubblica che non può sciogliere le Camere. Se non si usa il senso di responsabilità in uno scenario di questo tipo, mi chiedo quando non sia il momento di farlo ».

Siete disposti a trattare con Berlusconi sul prossimo inquilino del Colle?

«Sul Quirinale non si tratta: si rispettano quorum e procedure scritte dai padri costituenti, che per quel ruolo di garanzia spingono a cercare una larga intesa tra le forze politiche ».

Bersani sta arando il terreno per riuscire nell’impresa. Gli ostacoli più grandi sono esterni o interni al suo partito? C’è chi preferirebbe un «governo del presidente »?

«Il Pd di sicuro in varie occasioni del passato non ha brillato per unità ma ora non mi pare che sia questo il problema. Non c’è un dirigente, parlamentare o iscritto che non capisca che il tentativo di Bersani va sostenuto fino in fondo. Intanto non anticiperei le scelte del Presidente della Repubblica, lasciandogli fare con la solita saggezza il lavoro di sempre. Osservo che al di là di tutte le formule, sempre allo stesso nodo si arriva: una maggioranza numerica al Senato. E abbiamo detto più volte che non esistono le condizioni politiche per un governo sostenuto insieme da noi e il Pdl. E dopo il comizio di ieri non ho nemmeno bisogno di spiegarne le ragioni ».

Non pagherete pegno con gli elettori se si andasse a votare dopo aver dimostrato che per far nascere un governo Bersani servirebbe la non ostilità del Pdl e i voti della Lega?

«Gli elettori sanno che il partito che ha avuto maggiori consensi deve provare a dare un governo al paese in modo trasparente e alla luce del sole. In una situazione così drammatica per le famiglie e le imprese, bisogna guardare alla sostanza e non alla tattica e alle convenienze. I riflettori ora si sono spostati improvvisamente dai grillini a Pdl e Lega, ma il nostro percorso è sempre lo stesso: se Bersani si presenterà alle Camere, lo farà con una proposta per il paese divisa in due parti: azione sociale ed economica del governo e limitate riforme costituzionali, insieme ad una nuova legge elettorale. Una proposta sulla quale vorremmo che ogni singola forza dicesse sì o no. Non ci sarà nessun cedimento sui contenuti e sarà il Pdl a dire cosa fare rispetto a un governo che farà subito norme anticorruzione e conflitto di interessi, temi a cui non rinunceremmo in nessun modo ».

Se si tornasse a votare, anche lei ritiene che Renzi sia la risorsa del futuro?

«Intanto quasi tutti hanno rimosso il fatto che con questa legge elettorale se si rivotasse chi vincerà alla Camera – noi, o Grillo, o il Pdl – non avrà con ogni probabilità la maggioranza al Senato e ci ritroveremo nella stessa identica situazione. Anche per questo il buon senso dovrebbe portare almeno a correggere la legge prima delle future elezioni. Detto questo, in qualsiasi momento si tornasse a votare, la scelta del candidato la faremo con le primarie ».

E in quel caso allargherete la coalizione con Monti?

«Tra la vittoria di due populismi, uno già sperimentato nella sua pericolosità, quello di Berlusconi e l’altro pieno di nubi e incognite come quello di Grillo, penso che tutte le culture democratiche, dovrebbero comunque stare insieme. Ma spero che questa scelta sia lontana nel tempo ».


Caso marò, processate Monti per millantata credibilità
di Vittorio Feltri
(da “il Giornale”, 24 marzo 2013)

Non c’è niente di più facile che prendere in giro i militari. Lo dimostra la vicenda surreale dei due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. I quali furono imbarcati per difendere una nave italiana dai pirati. In acque internazionali, una notte, si avvicina al nostro bastimento un barcone non identificato. Cosa sia successo in quei momenti di concitazione, non si sa. È un fatto che i marò, allertati, sparano. Chiunque avrebbe agito così. Peccato che un paio di uomini su quella barca rimangano fulminati. Pirati? Pescatori? Il comandante della nave non profitta della circostanza di trovarsi in acque extraterritoriali per invertire la rotta, come chiunque avrebbe scelto di fare, ma abbocca a un invito subdolo degli indiani: «Venite in porto per espletare delle pratiche burocratiche ».

Altro che pratiche. I soldati italiani vengono sollecitati a scendere con un inganno: arrestati. E questa è la prima clamorosa presa in giro. Le autorità locali compiono una serie di perizie senza nemmeno interpellare i difensori dei militari. Che sono accusati di omicidio plurimo. Prove? Zero. Ma nel nostro Paese, avvezzo a una giustizia diciamo pure non perfetta, nessuno alza la voce. Solo qualche borbottio. La nostra diplomazia si agita un po’, mica tanto, ma non riesce a convincere gli indiani – che a fare gli indiani sono bravissimi – a restituirci Latorre e Girone affinché siano giudicati, come regola imporrebbe, in Italia.
Trascorrono mesi e mesi durante i quali si è fatto di tutto per perdere tempo. E arriva Natale. La Farnesina compie un miracolo: ottiene che ai marò sia concesso di rimpatriare, alcuni giorni di licenza. A una condizione: scaduto il permesso, i signori imputati di omicidio plurimo sono obbligati a tornare in India e a mettersi a disposizione dei giudici. I patti sono rispettati, benché i motivi per romperli non mancassero: per esempio, la serie di porcherie commesse dagli indiani allo scopo di incastrare i due povericristi.
Ed eccoci alle elezioni anticipate, 24-25 febbraio. Nuova licenza, addirittura di un mese, accordata a Latorre e Girone. Già. Il voto è sacro. Fulmine a ciel sereno: il governo annuncia che i militari non saranno restituiti agli indiani perché questi ne hanno combinate di ogni colore e non meritano che l’Italia mantenga la parola data. Esultanza del nostro popolo oltre che dei marò e dei loro familiari, ignari che si trattasse di uno scherzo. Perfino il premier, Mario Monti, partecipa ai festeggiamenti, facendosi fotografare tra i due soldati liberati e contenti.
Un’istantanea storica che simboleggia il riscatto nazionale dopo le figuracce del passato dovute ai comportamenti eccentrici di Silvio Berlusconi. Il Professore è osannato: ci ha restituito la credibilità internazionale perduta a causa dei cucù e delle corna del Cavaliere. Applausi. I governanti in scadenza gonfiano il petto in attesa di ricevere medaglie al valore morale, civile, forse anche militare.

Questione di giorni, e si scopre che era una messinscena: un gioco sulla pelle di due cristiani innocenti, usati, poiché non contano nulla, quali balocchi per consentire al presidente del Consiglio di fare una fotografia ricordo da appendere in salotto. In effetti, Latorre e Girone, convocati dalle superiori autorità di casa nostra, apprendono una notizia sconvolgente: cari ragazzi, non diteci che avevate bevuto la barzelletta della vostra permanenza in Patria. Suvvia, basta con le burle. Adesso ci fate la cortesia di rientrare in India, buoni buoni, in maniera che gli indiani possano continuare a fare gli indiani ovvero vi processino. Ma siate sereni. Non vi stiamo abbandonando. Al contrario, vi rassicuriamo: non verrete condannati a morte. Quindi vi conviene ubbidire agli ordini. Si dà il caso che il nostro ambasciatore, anziché telare dall’India, sia rimasto laggiù, cosicché, se vi rifiutaste di raggiungerlo in fretta, egli rischierebbe di essere ingabbiato al posto vostro. Ora, comprenderete che un diplomatico è un diplomatico, mica possiamo sacrificarlo per agevolare voi. Giusto?
Giustissimo. Tanto più che i marò non avranno la pena capitale. Pensate che culo. Se la caveranno con 30 anni di reclusione, che in confronto all’eterno riposo sono una bazzecola. Ma anche questa era una balla. Perché un ministro indiano si affretta a precisare che la condanna a morte non è tramontata. Immaginate la gioia dei militari e dei loro cari, mogli, figli, genitori.

Ho raccontato per filo e per segno, ma con parole mie, l’assurda disavventura di Latorre e Girone, sfottuti a sangue in un sol botto dagli indiani e dall’esecutivo tecnico italiano. Un primato ineguagliabile. Grazie al quale abbiamo la certezza che la millantata credibilità internazionale di Monti in realtà è uno sputtanamento mondiale senza precedenti. D’ora in poi chiunque avrà il diritto di spernacchiare il governo sobrio almeno fino al 31 gennaio 2213. Ci sarebbe da ridere se non ci fosse di mezzo la vita di due anime pulite, quelle dei marò, calpestati e umiliati da gente che, oltretutto, si dà un sacco di arie.
Mi domando che cosa sarebbe accaduto se il descritto episodio si fosse svolto ai tempi in cui a Palazzo Chigi c’era Berlusconi. Non ho fantasia sufficiente per figurarmi le reazioni dei detrattori del centrodestra e del suo leader. Del quale come minimo sarebbe stato richiesto l’arresto e la detenzione. Peggio: la fucilazione cautelare… I rossi, i viola e gli arancioni avrebbero occupato, oltre alle Camere, qualsiasi piazza della penisola. Santoro, Floris, Formigli, Lerner e forse anche la Gruber avrebbero organizzato cinque puntate consecutive dei loro programmi televisivi per costringere il premier a crepare di vergogna. Una gogna mediatica a oltranza che avrebbe portato alle dimissioni di tutti i ministri (la cui responsabilità è collegiale) e anche dei deputati e senatori e consiglieri regionali azzurri dalle Alpi alla Sicilia.

Con un editto firmato chissà da chi, gli iscritti al Pdl sarebbero stati interdetti dai pubblici uffici. Dell’Utri, incalzato dalla Giustizia del popolo, sarebbe stato impiccato sull’albero più alto di una nave della Marina per vendicare i marò in modo acconcio. La Carfagna rapata a zero. La Brambilla denudata in piazza Navona e fatta sbranare da una muta di beagle digiuni da una settimana. La caccia al berlusconiano, in deroga al calendario venatorio in vigore, sarebbe stata aperta l’anno intero per un lustro, giusto il tempo per eliminare chiunque si sia disonorato votando anche solo una volta gli impresentabili. Ma chi avrebbe selezionato gli impresentabili? Ovvio. Lucia Annunziata.


Michele Serra, genio sfiorito
di Bruno Giurato
(da “Lettera 43”, 24 marzo 2013)

Dispiace per i brutti tempi: pure un magnifico esemplare di analista, parodista e satiro come Michele Serra sembra in crisi. Dispiace perché in Italia appena la creatività diminuisce, aumenta in modo inversamente proporzionale l’impegno: civile, politico, partitico. A Serra pare stia succedendo proprio questo.
Beninteso, Serra sempre animale politico fu, zoon politikon nel senso alto di Aristotele: ma dai corsivi sull’Unità (dove prese il posto del mitico Fortebraccio) alla direzione di Cuore (con cui mostrò che si poteva fare satira post-punk e post-Male) fino all’Amaca su Repubblica e alla Satira Preventiva su L’Espresso ha sempre dato lezione – oltre che di impegno – di critica, autocritica e di pregiato sfottò.

L’UMORISTA CADE IN TENTAZIONE. Un sintomo preoccupante della stasi serriana è l’appello Facciamolo! di cui è coautore. Un testo alto, altissimo, indirizzato «a tutti e a nessuno » (ma allora, banalmente, perché scriverlo?). Di fatto, un suggerimento per un abbraccio Cinque Stelle-Pd in nome di un governo «di alto profilo ». Un titolo con tanto di punto esclamativo e dalle vaghe risonanze vintage-erotiche, che attraggono più o meno come lo spot del Pd dei due ragazzi che prima di baciarsi pensano al mutuo. Un appello così ce lo si sarebbe aspettato dagli altri autori e firmatari, grand-commis più o meno pop come Roberto Saviano e Roberto Benigni, Barbara Spinelli, Fabio Fazio, Salvatore Settis, Jovanotti. Ecco, magari da Serra no.

RASSEGNARSI AL «MENO PEGGIO ». Qualche giorno dopo è arrivata a illustrare la situazione un’Amaca in cui Serra ha spiegato al senatore grillino Giuseppe Vacciano che non doveva considerare Pd e Pdl allo stesso livello.
Il «meno peggio » esiste, ha spiegato Serra. Naturalmente è il Pd. Al di là del merito, citare il «meno peggio » ricorda tanto il «turandosi il naso » di Indro Montanelli, con un quid di forza metaforica in meno. Soprattutto Serra, uno che si è autodefinito «uomo di parte ma non di partito », che fa opera di diplomazia per conto della realpolitik Pd, può stupire gli affezionati.
Tanto più che, all’indomani delle elezioni, Serra, quasi unico tra gli editorialisti italiani, si era rivelato analista laico.
Aveva parlato francamente di «rivoluzione » grillina, aveva rimproverato, a se stesso e ad altri, una «sordità generazionale » nei confronti del Movimento 5 stelle, aveva rilevato che quella di Grillo era una «sommossa anagrafica » come quella del 1968.
Dopodiché è corso a razzo a vestirsi da predicatore all’indirizzo del M5s e all’insegna di un ben poco sessantottino «siamo realisti, facciamo il possibile ». Ecco, la sensazione è che a forza di fare il possibile Serra si sia ingrigito. Sarà la sindrome Fazio, di cui è autore in carica e con cui ha confezionato un Sanremo vincente ma altrettanto rigoglioso di siparietti pedagogici da dipartimento scuola-educazione.

IL CASO ICHINO-DI DOMENICO. Sarà che in momenti bigi la voglia di allinearsi cresce, anche su questioni non strettamente di partito: viene in mente il buffetto paternalistico di Serra alla editor precaria Chiara di Domenico, nella querelle tanto piena di equivoci con l’altra editor, Giulia Ichino, figlia di Pietro.
In linea perfetta con la grande onda “indignada” degli editorialisti in difesa di quest’ultima: una mobilitazione così bipartisan non si era vista a memoria d’uomo nemmeno con l’11 settembre. Ecco, anche qui, da altri ce lo si sarebbe aspettato, da Serra no.

NOSTALGIA (DELLA) CANAGLIA. E così al lettore medio che magari ha in casa il libro antologico Non avrai altro Cuore all’infuori di me, (Rizzoli) potrebbe venire un attacco di nostalgia canaglia, di nostalgia della canaglia. Di quando Serra era stato definito da Maurizio Ferrara «il capo del partito trasversale delle teste di cazzo ». Per quando i suoi nemiconi storici de Il Foglio lo chiamavano «l’umoralista ». In fondo era un implicito omaggio, perché più che all’umoralità la definizione faceva pensare all’umorismo, nel senso di Pirandello: il «sentimento del contrario ». In particolare, i colleghi di Cuore si ricordano di Serra come un’esplosione di goliardia, capace di scrivere un articolo canterellando con un sacchetto in testa. Capace di inventarsi titoli feroci come «L’uomo della strada è una merda ».

NOBILE INORGANICO. Certi lettori rievocano il romanzo Il ragazzo mucca (Feltrinelli), in cui dietro la narrazione si intravedeva sentitissimo livore nei confronti della stampa italiana, del resto evidente nelle parodie delle rubriche che apparivano sul settimanale satirico: da Chissenefrega al borsino di tette e culi. Perché alla base dell’«umoralismo » di Serra c’è sempre stata la capacità di stare allo stesso tempo dentro e fuori, da se stesso prima che dalle idee. Un nobile (Serra Errante è il cognome completo), comunista, inorganico per carattere, con tentazioni da torre d’avorio che ogni tanto esplodono, come quando definiva il primo Jovanotti «l’Idiota » o come quando scrisse che Twitter è «un cicaleccio impotente ». Ci piaceva così e non c’era bisogno che il suo sorriso enigmatico finisse per assomigliare a quello di Aldo Moro. Che era appunto un politico. Altro mestiere.


Ciò che il centro non ha capito
di Ernesto Galli della Loggia
(dal “Corriere della Sera”, 24 marzo 2013)

Il fallimento del Centro registrato alle recenti elezioni – e dunque, per logica conseguenza, il fallimento del personale di governo alla guida del Paese per oltre un anno – dice molte cose sulle caratteristiche delle élite italiane. Proprio perché per la sua parte più significativa è da queste élite che proveniva un tale personale di governo.

L’aspetto che più colpisce è la scarsa conoscenza da esso dimostrata dei meccanismi della politica e quindi la sua scarsa capacità di leadership . Non vorrei apparire ingeneroso verso Mario Monti e i suoi ministri, impegnatisi in un compito certo non facile. Sta di fatto però che per oltre un anno tutti hanno potuto vedere come essi non siano riusciti in alcun modo ad accompagnare all’adozione di provvedimenti tecnici indispensabili, tecnicamente obbligati, l’idea che tali provvedimenti dovessero poi anche essere «venduti » politicamente ai cittadini (e perciò, ad esempio, comprendere forti indicazioni di equità sociale). Invece la democrazia – cioè il regime del suffragio universale e dell’«uomo della strada » – è precisamente questo: e lo è tanto più quando i tempi sono difficili e ai cittadini si chiedono sacrifici non indifferenti.

Allora più che mai coloro che governano hanno l’obbligo non già solamente di spiegare, di enumerare cifre, vincoli, e rimedi: tutte cose sacrosante, intendiamoci, ma che tuttavia devono essere accompagnate da altro. Dalla capacità di parlare ai cuori più che alle menti, di invogliare al riscatto, di muovere alla tenacia, all’orgoglio, alla speranza. Tutte cose che appartengono alla politica, e di cui i veri capi politici devono essere capaci. Per le quali però bisogna essere convinti della propria autorevolezza, avere una dimestichezza con il comando sociale e con l’esposizione pubblica, essere animati da un pathos di condivisione nazionale, da un capacità di comunicare e di mettersi personalmente in gioco, che le classi dirigenti italiane, chiuse nel loro autoreferenziale esclusivismo professionale e proprietario, evidentemente possiedono in scarsissima misura. E tutte cose, aggiungo, alle quali il lungo e feroce dominio degli apparati dei partiti sulla cosa pubblica le ha da tempo disabituate. Staccandole nel profondo dalla politica.

Lo si è visto al momento di organizzarsi in vista delle elezioni. Il Centro ha mostrato di aver capito poco o nulla dell’ansia di grande cambiamento che agitava l’Italia. A un Paese percorso dalle performance di Grillo, ha pensato di potersi presentare da un lato con figure della più esausta nomenclatura partitica (Udc, Fli), dall’altro con il pallido volto di un notabilato catto-confindustriale insaporito da qualche prezzemolino sportivo-accademico. In complesso la raffigurazione di una compiaciuta oligarchia italiana all’insegna del «lei non sa chi sono io e quanto sono importante ». Nessuno invece che fosse capace di un parlare vivo e autentico, di una proposta suggestiva, che desse voce a una qualche novità culturale, che incarnasse una figura sociale inedita.

Un’oligarchia, quella del Centro, che ha dato la misura della sua mancanza di sintonia rispetto alla condizione politica reale del Paese quando ha deciso, segnando così la propria sconfitta, di contrapporsi frontalmente e sprezzantemente all’elettorato che fino ad allora era stato della Destra. Come si è visto allorché Monti si è rifiutato di prestare il benché minimo ascolto all’invito di essere il «federatore dei moderati » rivoltogli da Berlusconi: nonostante fosse ovvio che l’elettorato della Destra costituiva l’unico elettorato dove il Centro avrebbe potuto ottenere il consenso di cui andava in cerca.

Perché questo errore? Forse per l’influenza dell’onorevole Casini e del cattolicesimo politico più sprovveduto, mai rassegnatosi al bipolarismo e invece sempre vagheggiante un’illusoria collocazione al di là della Destra e della Sinistra? No, non credo per questo; anche se certamente tutto questo ha contato. Sono invece convinto che nel paralizzare qualunque interlocuzione con il popolo della Destra da parte di Monti e dei suoi, nel far loro escludere qualunque approccio meno che ostile in quella direzione, ha contato molto di più quella sorta di generico interdetto sociale che da sempre la Sinistra si mostra capace di esercitare nei confronti della Destra stessa: in modo specialissimo da quando a destra c’è Berlusconi.

È l’interdetto che si nutre dell’idea che la Destra costituisca la parte impresentabile del Paese, il lato negativo della sua storia. L’Italia imbrogliona, priva di senso civico, che evade le tasse, che non fa la fila e urla al telefonino; l’Italia incolta dei cinepanettoni, che non sa le lingue e non è iscritta al Fai, che non gliene importa nulla dell’ Economist e non è di casa né alla Biennale né alla Columbia. E che di conseguenza non può che essere naturalmente clericale, conformista, sessista, solo e sempre reazionaria. In una parola quell’Italia che non è possibile ricevere in società e con la quale non conviene avere alcun rapporto se si vuole essere annoverati tra le persone per bene.

La borghesia che conta, il grande notabilato di ogni genere, l’alto clero in carriera, insomma l’ élite italiana, ha profondamente introiettato questo stereotipo (che come tutti gli stereotipi ha naturalmente anche qualcosa di vero). Uno stereotipo tanto più potente perché in sostanza pre-politico, attinente al bon ton civil-culturale. Con la Destra dunque l’ élite italiana non vuole avere nulla a che fare: per paura di contaminarsi ma soprattutto per paura di entrare nel mirino dell’interdizione della Sinistra. Cioè di farsi la fama di nemica del progresso, di non essere più invitata nei salotti televisivi de La7, a Cernobbio o al Ninfeo di Valle Giulia; di diventare «impresentabile » (oltre che, assai più prosaicamente, per paura degli scheletri negli armadi, che non le mancano…).

Il Centro – così affollato di avveduta «gente per bene » – è rimasto vittima di questo interdetto, del timore di farsi etichettare di destra dalla Sinistra (e magari per giunta dal Club Europeo). In questo modo esso ha mantenuto sì la propria rispettabilità, ma al prezzo non proprio insignificante di diventare un attore politico di terz’ordine.


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Bart