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Quattro articoli

30 Giugno 2012

Ora c’è bisogno di tempo e politica
di Francesco Guerrera (caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York)
(da “La Stampa”, 30 giugno 2012)

La storia non ha nascondigli/La storia non passa la mano ». Non penso che Monti, Van Rompuy e Merkel siano fan di De Gregori (fattori generazionali e d’estrazione, credo).
Ma alla fine di un vertice europeo che ha sorpreso un po’ tutti per la qualità e quantità di decisioni prese, le parole del cantautore sembrano una colonna sonora adatta. L’incontro di Bruxelles sarebbe potuto finire come tanti altri incontri di Bruxelles: una serie di dichiarazioni magniloquenti che rimangono fini a stesse, prigioniere delle sabbie mobili della burocrazia europea e beghe politiche nazionali. Ma la convergenza di una crisi sempre più acuta e la necessità di prendere misure drastiche prima che sia troppo tardi ha conferito al summit una patina storica.

Giovedì mattina, l’Unione Europea si trovava ad un bivio: da una parte, la strada verso un’unione fiscale e politica, dall’altra l’abisso della disintegrazione della moneta unica. Venerdì mattina, ha imboccato decisamente la prima strada. E’ ormai inutile discutere i dettagli di come il continente sia arrivato a tale punto di rottura. Il Bignami della crisi scriverà che incuria e pessima gestione della situazione avevano messo l’euro e i suoi membri con le spalle al muro.

Quel che conta, ora, sono i risultati. Diciamolo chiaramente: le proposte radicali per una «unione bancaria » pan-europea, la possibilità di usare fondi comunitari per immettere capitali nelle banche malate ed un’assicurazione comune per i depositi bancari del continente non sono particolari tecnici. Sono i primi passi verso gli Stati Uniti d’Europa.

A molti l’idea non piacerà, ma la finanza non è un’opinione, almeno in questo caso. Come posso essere così sicuro? La storia degli altri Stati Uniti, quelli d’America, è prova lampante che un’unione monetaria accompagnata da un’unione bancaria può esistere solo nel contesto di un governo federale. Uno dei capi di Wall Street me lo ha spiegato bene questa settimana: «Almeno », ha detto, «l’Europa sta arrivando ad un’unione politica senza la guerra civile per cui siamo dovuti passare noi ».

Gli Usa del 1786 sono molto simili alla zona euro del 2012: un’accozzaglia di Stati con interessi diversi, grandi sperequazioni tra Nord e Sud, un’economia in difficoltà ed una diffidenza di fondo tra i vari membri dell’Unione. La differenza fondamentale tra gli Stati Uniti di ieri e l’Europa di oggi è che i padri fondatori riuniti a Philadelphia crearono un’unione monetaria in concomitanza con un’unione politica. I pionieri di Maastricht non furono in grado di fare lo stesso e si dovettero «accontentare » della moneta unica.

Negli ultimi anni, però, l’Europa si è accorta che una moneta non può essere veramente «unica » se i sistemi bancari che le stanno dietro rimangono nazionali. La spaccatura tra nazioni deboli (Grecia, Spagna, Italia, Portogallo, Irlanda) e forti (in particolare la Germania e l’Olanda) ha messo in discussione la premessa fondamentale dell’euro: che i governi dei Paesi hanno tutti la stessa identica capacità di sostenere e garantire le proprie banche. La fuga di capitali dalla Grecia alla Germania, la ricapitalizzazione con soldi «europei » delle cajas spagnole e le paure dei mercati sulla salute delle banche francesi hanno dimostrato che una delle travi portanti dell’euro ormai non tiene più.

L’unico modo per rimpiazzarla è trasferire l’onore e l’onere di salvaguardare il sistema finanziario del continente dai governi e dalle banche centrali nazionali ad un organo pan-europeo, come proposto da Mario Draghi, Jean-Claude Juncker e Van Rompuy prima del summit di Bruxelles.

La possibilità di ricapitalizzare banche in difficoltà con fondi Ue – invece di prestare soldi a governi nazionali – aiuta perché permette di salvare istituzioni finanziarie senza gonfiare i debiti dei Paesi membri. La prima frase del comunicato uscito all’alba di sabato da Bruxelles è stata chiara e tonda: «E’ indispensabile rompere il circolo vizioso tra settore bancario e settore statale », hanno scritto i leader europei. L’esempio degli Stati Uniti è illuminante. Quando una banca fallisce nel Wyoming o nel Montana, a pagare non sono quegli Stati ma il governo federale. Se, nel 1982, l’Illinois avesse dovuto coprire il costo del crollo della Continental Illinois, all’epoca la settima banca negli Usa, lo Stato sarebbe probabilmente andato in bancarotta. Ma il problema non si pose: in una vera unione monetaria e bancaria quali gli Usa, i costi del sistema vengono divisi tra tutti i membri.

Purtroppo, come dicono gli inglesi, «Nessun pranzo è gratis ». Lo scambio per la creazione di organismi e fondi pan-europei per salvaguardare il sistema bancario è la cessione della sovranità nazionale. In questo senso, le continue richieste da parte della Germania per una maggiore disciplina fiscale – un «patto di ferro » che punisca i Paesi goderecci e spendaccioni – sono comprensibili e condivisibili. Non si può chiedere alla signora Merkel di aprire i cordoni della borsa senza prometterle che d’ora in poi la smetteremo di fare i figlioli prodighi. Il corollario di tutto ciò, però, non può che essere un movimento inesorabile verso l’unione politica – un’idea che è indigesta a molti Paesi (la Gran Bretagna in primis) e porzioni importanti dell’opinione pubblica (basta chiedere a Beppe Grillo).

Per ora, i mercati hanno votato a favore di questo salto verso l’integrazione di sistemi bancari e fiscali, contenti del fatto che i potenti d’Europa abbiano finalmente fatto qualcosa di concreto. Ma mettere in pratica le proposte del vertice di Bruxelles richiederà sia tempo sia la volontà politica di superare alti ostacoli – due cose che la zona euro non ha in grandi quantità. Dopo anni di tentennamenti e mezze misure, però, non ci sono tante alternative. L’Europa si deve incamminare su un percorso storico quasi suo malgrado. La storia non passa la mano.


La rabbia di Alfano: “Nessuno si è scusato col Cav per lo spread”
di Fabrizio De Feo
(dal “Giornale”, 30 giugno 2012)

L’accordo salva-spread siglato a Bruxelles incassa un plauso a intensità variabile da parte del Pdl.
Buona parte dello stato maggiore- quello da sempre meno critico verso il presidente del Consiglio – si complimenta con Mario Monti per l’affondo diplomatico messo a segno da Italia, Spagna e Francia.

E sottolinea come sulla bilancia dei meriti vada posto il sostegno politico offerto dalla principale delegazione parlamentare: quella di Via dell’Umiltà.

Non manca, però, qualche voce fuori dal coro. Quella di Maurizio Gasparri, ad esempio, che si attesta sulla linea della prudenza invitando Monti a riferire in Senato. Ma soprattutto quella di Renato Brunetta che parla di possibile «polpetta avvelenata ». Un affondo che fa scattare un comunicato di risposta da parte dello stesso Monti che smentisce la tesi dell’economista del Pdl.

Il primo a dare a Mario quel che è di Mario è Angelino Alfano. «Noi tifiamo Italia e festeggiamo i risultati che si ottengono per il bene dell’Italia. Berlusconi aveva chiesto al premier di far valere la voce dell’Italia e di non essere timido. Non è stato timido, anzi, ha posto un veto nei confronti di misure sbagliate e ha ottenuto risultati. È l’inizio, ma ci lascia sperare ». Il segretario, parlando alla affollata convention napoletana del Pdl a Napoli, si toglie anche un sassolino dalla scarpa sulla bufala dello spread «ad personam ». «Sono passati sette mesi ed è stato necessario l’intervento di tutta l’Europa per affermare che ci possono essere Paesi virtuosi dove però lo spread continua a salire. Se avessimo chiesto noi un intervento la sinistra ci avrebbe detto che servivano le dimissioni di Berlusconi. Ma dopo sette mesi nessuno ha chiesto scusa a noi e a Berlusconi ». Non si rifugia in formule di circostanza neppure Mariastella Gelmini. «Complimenti al presidente Monti. Deciso e determinato come Berlusconi gli aveva consigliato.Il vertice è un successo per l’Italia ». Applaude anche Franco Frattini. «L’Italia vince anche a Bruxelles, portando a casa lo scudo contro la dittatura degli spread e l’attribuzione alla Bce del potere di vigilanza centralizzata dei sistemi bancari nazionali ».

Se Frattini esulta, Fabrizio Cicchitto sceglie la prudenza. «Dobbiamo conoscere tutti gli elementi. Vedremo quale inversione di tendenza produrrà sullo spread ». Una posizione simile a quella di Gasparri: «I mercati ci hanno abituato a girare in negativo ciò che sembrava positivo ». Chi, invece, invita a leggere con diffidenza anche le virgole dell’accordo è Renato Brunetta. «I Paesi che faranno ricorso a questi aiuti saranno sottoposti a un commissariamento. La proposta Monti è stata declassata a tachipirina avvelenata ». Quel che è certo è che nel Pdl il vertice viene letto in filigrana attraverso il desiderio più o meno intenso di tornare alle urne. I dirigenti che scommettono sul voto a ottobre evitano di esporsi. Così come resta viva tra diversi ex ministri azzurri una certa irritazione per la cena andata in scena a casa di Maurizio Lupi. Una riunione vissuta come l’atto di nascita di una sorta di direttorio ristretto composto da alcuni ex Forza Italia e alcuni ex An. Circostanza negata in maniera perentoria dal vicepresidente della Camera. Senza però che questa smentita abbia fatto breccia nei timori dei dirigenti esclusi dal convivio.


Sì allo scudo anti spread Monti canta vittoria ma è soltanto un bluff
di Francesco Cramer
(dal “Giornale”, 30 giugno 2012)

Monti si presenta in sala stampa con i segni di un estenuante braccio di ferro in volto: occhi rossi come il ministro per gli Affari europei Enzo Moavero, immobile alla sua destra; e come il viceministro all’Economia Vittorio Grilli, decisamente distrutto, alla sua sinistra.

Politicamente, il Professore ha vinto: ha piegato le resistenze tedesche e isolato la Cancelliera di ferro. Anche se, a ben vedere, il risultato incassato potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro. Sulla questione Monti è evasivo e all’obiezione che in fondo Berlino non ha ceduto così tanto risponde: «Però ho visto dichiarazioni di segno diverso », rispetto al solito. Ma il famoso bazooka in grado di rispondere con una potenza di fuoco agli attacchi della speculazione rischia di essere una pistola con poche munizioni. Ma tant’è. La speranza di Monti, in fondo, è che la sola esistenza di arma in più anti spread possa far abbassare la febbre del differenziale dei tassi di interesse. Lo dice chiaro, il premier: «È difficile e azzardato fare delle previsioni sulle reazioni dei mercati. Comunque in questo momento l’Italia non pensa di attivare il cosiddetto scudo anti-spread ». Ma, consapevole che la situazione è ancora a rischio, aggiunge: «Non escludo niente per il futuro ». La misura sembra cucita addosso a noi e, in seconda battuta, alla Spagna. Ma questo non si può dire né, soprattutto, il premier svela quale sia il livello di guardia di spread che potrebbe far partire la richiesta di aiuto. 300? 350?: «Non c’è una soglia che lo farebbe scattare e credo che se lo avessimo non lo diremmo », risponde a una domanda specifica il Professore. Il quale, tuttavia, cerca di lanciare un messaggio rassicurante: «Confermo che non sono necessarie manovre aggiuntive ».

Ma la situazione resta nera e Monti non lo nega. Un collega lo incalza: «Sicuro che l’Italia è in regola, vista la recessione, il debito in crescita e il presidente di Confindustria che parla di abisso? ». Mastica amaro, il Professore: «Non tocca a me dire se l’Italia è in regola con le procedure europee: lo dicono la commissione e le altre istituzioni europee », risponde stizzito. Quindi graffia il capo degli industriali: «Certo, parlare di abisso come ha fatto il presidente Squinzi… ». Poi però ammette: «La situazione è pesante ma non ho mai pensato che si potesse trasformare in leggera in pochi mesi ». Quindi cerca di far vedere uno spiraglio di luce: «L’Italia per l’anno prossimo si è ripromessa di avere un avanzo strutturale ».

Monti vorrebbe parlare, però, della sua vittoria politica. Ha piegato l’agenda europea e isolato la Merkel sul tema dello scudo anti spread. Ma non cade nella tentazione di riconoscere che la giornata di ieri ha di fatto rafforzato il suo governo: «Siamo qui per rafforzare l’Italia, non il nostro governo. Il nostro obiettivo è fare cose utili per l’economia. Tante cose sono state fatte e di questo mi rallegro con i miei ministri e con il Parlamento ». La partita con la Germania è stata dura ma, semi-scherza Monti, «Il dialogo avuto con la Cancelliera Merkel è stato di qualità superiore al dialogo che qualche volta intratteniamo con le parti sociali non per nostra volontà ». E ancora: «Con la Cancelliera c’è un ottimo rapporto come c’era prima”. Nonostante questo, il premier non riesce a nascondere che qualche frizione c’è stata eccome: «Merkel ha comprensione per le difficoltà che abbiamo in Italia e noi abbiamo comprensione per le difficoltà che lei ha nel Parlamento tedesco ».

E sempre con Berlino il premier ha incrociato le spade sul tema della troika. Per tutta la giornata di ieri, infatti, la Cancelliera aveva sostenuto che i Paesi che avessero azionato lo scudo avrebbero dovuto sottostare alla vigilanza (leggasi diktat) di Fondo monetario internazionale, Bce e Commissione Ue. Tesi, questa, rispedita al mittente con forza dal Professore.

Una frizione durata per tutto il giorno. Poi, nel pomeriggio, l’ammissione di Berlino: «Lo scudo non comporterà gli interventi della troika: basterà continuare ad adempiere alle raccomandazioni della Commissione ».

Il rischio di una sorta di commissariamento c’è, tanto che l’ex ministro Brunetta parla di «polpetta avvelenata ». Una critica a cui Monti risponde con stizza: «Lo scudo non è una polpetta e soprattutto non è avvelenata. Vorrei quindi tranquillizzare un osservatore molto attento, acuto e sempre vigile sulle questioni economiche che è Renato Brunetta. Non ho potuto telefonargli ma gli rispondo qui… ».


Merkel sotto processo a Berlino: “Ti hanno presa a schiaffi”
di redazione
(Da “Libero”, 30 giugno 2012)

“La notte storica di una sconfitta”. Eloquente ed esaustivo il titolo dell’edizione online della Die Welt, un quotidiano da sempre vicino ad Angela Merkel, la grande sconfitta del Consiglio europeo, la cancelliera che si è schiantata contro l’inaspettata determinazione del premier italiano Mario Monti. Ma per la Merkel, ora “sotto processo” in patria per essere stata piegata dai Paesi dell’Europa del Mediterraneo, sono state ventiquattro ore da incubo: prima gli ultimatum di Monti (con cui il diverbio è stato accesissimo nella notte tra giovedì e venerdì), poi la rigidità di Hollande e Rajoy, quindi realizzare il fatto che anche Herman Van Rompuy giocava contro di lei, un po’ come Barroso. A tutto ciò si aggiungano le critiche della stampa di Berlino, sempre meno tenera con Angela, le frecciate dell’opposizione e, da non scordare, le scoppole prese dalla nazionale tedesca, caduta sotto le prodezze di Balotelli.

Passa la linea mediterranea – Angela ha provato a scacciare i fantasmi spiegando che lo scudo anti-spread approvato a Bruxelles non è un aiuto senza condizioni a Italia e Spagna: “Gli aiuti sul mercato primario e secondario si baseranno su un memorandum che dovrà essere elaborato sulla base delle raccomandazioni della Commissione europea”, ha spiegato. Ma la sostanza non cambia: è passata la linea di Italia, Spagna e Francia. La giornata di venerdì, per la cancelliera, si è conclusa con un respiro di sollievo: il Bundestag, ad ampia maggioranza, ha approvato il Fiscal Compact e l’Esm (prima del voto, la Merkel, che faceva buon viso a cattivo gioco, aveva chiesto ai parlamentari tedeschi: “Fate vedere che la Germania è per l’euro”).

“Caduta nella trappola” – Ma, come detto, il processo in patria è iniziato. La popolarissima Bild, al solito, ci va giù pesante e usa una metafora calcistica: “Non importa tanto che sia rimasta fermissima su alcuni punti, come gli eurobond e la necessità di avere più Europa. Nel linguaggio calcistico – ha scritto l’editorialista Nikolaus Blome – si potrebbe dire che la cancelliera ha concentrato tutta la difesa nel centro dell’area di rigore, mentre italiani e spagnoli arrivavano dalle ali. E hanno segnato”. Quindi altre mazzate contro la Merkel: “I risultati del vertice sono una pesante batosta che costerà molti soldi ai tedeschi”, e per la prima volta dall’inizio della crisi “la Germania non è alla guida dell’Eurozona”. Insomma, la Merkel “è caduta nella trappola dei Paesi mediterranei”.

Isolata a Bruxelles – La cancelliera, alla guida del governo tedesco dal 2005, affronta i giorni più difficili. Le carte in Europa sono cambiate, ai vertici non può più dominare: a Bruxelles al suo fianco erano in pochi, tra i quali il non proprio influentissimo premer olandese, Mark Rutte, e quello finlandese. Angela credeva che la linea di Hollande, dopo l’elezione alle presidenziali francesi, sarebbe cambiata: così non è stato. Ora la Merkel dovrà cambiare pelle, a iniziare dal bilaterale del 4 luglio dove, a Roma, incontrerà proprio il primo artefice della sua sconfitta, Mario Monti.


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Bart